Rivista Anarchica Online
Segnali di fumo a cura di Carlo E. Menga
Il limite della telecamera
Non so perché, ma sono sempre stato affascinato dalle scatole cinesi e dalle bambole russe. Ora che
ci penso,
anche dalla curva frattale di Mandelbrot e dalle cipolle. In generale, da tutte le strutture che si ripetono nella
direzione virtuale dell'infinitamente piccolo o dell'infinitamente grande. Il voto più alto che presi in
matematica
al liceo classico fu quando, l'ultimo anno, scoprii la trigonometria (ciò cambiò anche
definitivamente e
radicalmente il mio rapporto con quel ramo del sapere) e formulai in una specie di tesina una legge, sotto forma
di equazione (senza sapere se qualcun altro l'avesse formulata prima di me: non voglio assumermi meriti che non
mi spettano. Voglio soltanto mostrare che, novello Teetèto, la trovai da solo, dentro di me) che forniva
il numero
di immagini di uno stesso oggetto interposto riflesse da due specchi al variare dell'angolo formato dalla loro
posizione reciproca. Il numero di immagini risultava dal valore dell'angolo secondo le variabili di una funzione
(che ora non ricordo quale sia). Il procedimento era empirico (si trattava di contare le immagini, dopo aver
misurato l'angolo col goniometro), ma il risultato mi sembrò brillante, e forse l'insegnante me ne
lasciò
l'illusione, avendo colto al volo la propizia occasione pedagogica. A 360° il valore era zero, a 180° era 1, a 0°
era infinito (anche se solo virtualmente. Non mi misi a contare: è ovvio, lo sapevo già. E sapevo
anche che il
valore "reale" era di gran lunga inferiore a infinito. Ciò dipendeva dalla natura fisica del mezzo riflettente.
Ma
per due specchi "ideali" andava benissimo, come in tutte le situazioni "ideali" della fisica). L'idealizzazione non
mi sconcertava: era implicita nella diffusa cultura euclidea della carriera scolastica pre-universitaria: punti privi
di dimensione, istanti privi di durata, eccetera. E non feci caso a ciò che mi sconcerta oggi: l'imbarazzo
del
passaggio al limite. Sarei potuto essere un discreto matematico, se non avessi scelto di essere un mediocre
filosofo: se non altro, mi sarei risparmiato quell'imbarazzo. Qualche giorno fa, tornando a casa in macchina
dal lavoro, m'imbatto in un enorme manifesto pubblicitario
murale, che esaltava le prestazioni di una telecamera portatile della SONY. Fotografia con sfondo azzurro,
ritraente un tipo da spiaggia colto nell'atto di tuffarsi con cuffia, salvagente e pinne, chiudendosi il naso con la
mano destra. Siamo in pieno inverno; non si vedono né il mare né il trampolino. D'istinto penso:
ecco qui un altro
pezzo sull'implicito per la mia rubrica. Poi vedo il resto: primo piano della telecamera, minischermo allegato alla
medesima, riproducente il tipo da spiaggia. In basso la scritta: "Digital Handycam Vision. SONY". In alto
(tremate): "Reale. Digitale." Rimango travolto e irretito da un delirio frattale, da una scatola cinese di implicanze
filosofiche cipollesche. Tragica fine delle opposizioni binarie di neopositivistica memoria. Non c'è
più posto per
il "vero" e il "falso", e tantomeno per l'"apparente'. I fondamenti logici e metalogici del nostro giudizio sconvolti
dalla semantica ternaria del triangolo "reale-analogico-digitale". I neopositivisti se lo meritavano anche, ma mi
rifiuto di rinunciare al "falso" solo perché così conviene al Villaggio Globale. Come mi rifiuto
di accettare che
l' "analogico" rivesta il ruolo freudiano del capro espiatorio collettivo. Cerco di trovare qualcosa che non quadra.
Il triangolo è sbilanciato. "Reale" non è opposto né di "analogico" né di "digitale".
Non può nemmeno essere
inverso di entrambi, come entrambi lo sono l'uno dell'altro, mentre si tenta di farli "apparire" reciprocamente
opposti o almeno contrari. Non mi va l'eccessiva attribuzione di valore a "digitale" che tenta di suggerire uno
status più elevato anche rispetto a "reale". Mi perdonino gli amici metodologi, ma io,
sempre al liceo, mentre
l'insegnante ci spiegava la filosofia di David Hume, palpavo con enfasi teatrale, dalla prima fila, il legno del
banco su cui ero seduto. Erravo, "naturalmente", e ne ho già compiuta in seguito la debita
palinodìa. Ma certi
istinti d'adolescente non si perdono con facilità. Cerco di trovare l'esperimento cruciale, il punto
debole dell'assunto del manifestone, la possibilità di reintrodurre
il "fittizio" in quanto tale, il valore rivoluzionario dell'evidenza di ciò che è finzione. Cosa
succederebbe se
tentassimo di estendere all'infinito, come in un'ideale matrioska, il play within the
play? Se io mi mettessi a
riprendere il manifesto con una Handycam Sony, otterrei forse un "digitale" più "digitale" di quello di
partenza?
E se qualcun altro, nel frattempo, con lo stesso tipo di telecamera, riprendesse me che riprendo, e così
via? Di che
misura sarebbe la regressione del "reale"? Cosa succederebbe se il capocomico di Pirandello stesse tentando di
mettere in scena, all'arrivo dei sei personaggi, anziché il Giuoco delle parti, proprio i
Sei personaggi in cerca
d'autore? Forse quello che succede quando Amleto mette in scena l'omicidio del padre: lo smascheramento
del
sopruso, del potere? L'uscita per la tangente dal circolo vizioso trigonometrico-capitalistico nel quale i
pubblicitari, dal "produttore" al "suggeritore", vorrebbero ideologicamente intrappolarci? La riabilitazione
pubblica del "passaggio al limite"? Speriamo bene. Oppure dovremo perdonarli perché non sanno
quello che fanno?
|