Rivista Anarchica Online
Un continente alla deriva
di G. G. e Gianni Sartori
Per capire meglio quello che sta succedendo in Africa abbiamo realizzato due interviste. Una con Andrea Berrini
sulle baraccopoli di Nairobi, sulle quali ha scritto un libro: con particolare attenzione alle esperienze di vita
comunitaria e di "autogestione". Un'altra con Efrem Tresoldi, missionario comboniano, direttore della rivista
"Nigrizia", sulla situazione socio-politica in numerosi Paesi africani
La cultura bollata a colloquio con Andrea
Berrini
Puoi darci un'idea sintetica di cosa significa parlare di "baraccopoli" in Africa, per noi che in
Italia
abbiamo in mente, al massimo, le baracche degli "accattoni" pasoliniani? Immaginate un pianoro
verdeggiante nel quale si alzano le sagome di una trentina di grattacieli negli stili
architettonici più diversi. Vasti quartieri di ville bianche circondate da giardini, e una cintura residenziale
di
casette a schiera, o condomini a più piani dove le strade sono ben asfaltate, gli empori in buono stato.
Ecco: questa
è Nairobi, forse la più ricca capitale dell'Africa nera dopo Johannesburg-Pretoria. Puntualmente,
questa ricca città
ospita le baraccopoli più degradate: il pianoro è attraversato da tre o quattro avvallamenti solcati
da fiumiciattoli
luridi, e le baracche si aggrappano al pendio di questi valloni. Densità abitative allucinanti, totale assenza
di
servizi di qualunque tipo, fogne a cielo aperto. Certo, in altre città africane la baraccopoli è meno
terribile, in
particolare dove c'è più spazio, dove assume l'aspetto di uno sterminato villaggio e intorno a ogni
casa c'è almeno
un orto, qualche albero da frutta. A Nairobi, in queste città di fango, vive più di un abitante su
due.
Il proliferare di immense periferie degradate, in Africa come altrove, sembra ormai sfuggire al
controllo
dei pianificatori, che escono allo scoperto solo quando devono mettere in atto operazioni repressive come
grandi sgomberi e relativi spostamenti di enormi gruppi di popolazione. Nel tuo libro emerge come in
Kenia, accanto alle prevedibili forme di predominio della piccola e grande criminalità, si siano sviluppate
negli "slums", esperienze di partecipazione comunitaria e di autogestione molto importanti. Puoi
spiegarcene le caratteristiche? Che ruolo hanno le donne in questi processi? Quale quello dei giovani e dei
bambini? Ci sono soluzioni di continuità e/o di rottura con le culture tradizionali? Lo
stato, letteralmente, si è ritirato da queste aree, i cui abitanti sono però inseriti a tutti gli effetti
nell'economia
cittadina: ne sono la manodopera a bassissimo costo. Come se lo stato dicesse: fate voi, noi non c'entriamo
più.
Purtroppo, caratteristica di Nairobi (anche qui: in altre grandi città africane non è così)
è la totale dissoluzione
di ogni forma di aggregazione sociale precedente, su base etnica. La nuova generazione, i ragazzi che hanno
vent'anni ora (e cioè, in realtà, il nucleo forte della popolazione adulta) sono nati in baraccopoli,
e non conoscono
altro. Sono spesso individui soli, isolati. La famiglia non da protezione ai bambini, molti dei quali a dieci anni
sono già autonomi, costretti a mantenersi da soli. Si creano allora della "bande" dai nomi variopinti, con
legami
gerarchici al loro interno che funzionano da veri e propri surrogati di famiglia. Un altro punto di aggregazione
estremamente interessante, e nel mio libro ne parlo diffusamente, sono le Chiese
Indipendenti. Si tratta di piccole congregazioni legate alla tradizione biblica, ma che portano con loro la
volontà
irriducibile di rivitalizzare la religione tradizionale africana. In particolare, attente al problema della guarigione:
si tratta di piccole comunità spirituali dove il malato condivide con altri il proprio dolore e attraverso
apposite
cerimonie ne guarisce.
La cura delle malattie investe anche nelle realtà da te descritte ambiti differenziati, dalla
percezione di sè
al rapporto con il trascendente fino al confronto con l'occidente. Come si colloca in questo contesto la
medicina "tradizionale" africana, sempre che si possa ancora usare questo termine? É
sorprendente: moltissime tra le persone che io ho incontrato soffrono di una gran varietà di quelli che noi
definiamo malattie psicosomatiche, da stress. Mali di testa, ulcere, mali di schiena, incapacità delle coppie
a
procreare, incubi notturni, insonnie. Ed è altrettanto sorprendente come se ne possa guarire tramite queste
pratiche
collettive di condivisione del dolore. Certo, chi afferma di poter guarire tout court dall'Aids o dal cancro è
un
ciarlatano, ma sul tessuto delle Chiese Indipendenti si innestano le rare forme di resistenza, di organizzazione dal
basso. E la cosa più interessante è proprio questa: le Chiese Indipendenti prendono a piene mani
dalla tradizione
africana, quella dell'uomo medicina del villaggio, che conoscendo davvero 'vita morte e miracoli' di ogni
famiglia, conoscendo a fondo la storia culturale, psicologica, spirituale di ogni individuo, sapeva portare avanti
pratiche di guarigione in grado di non separare corpo e mente, materiale e immateriale. Noi bianchi abbiamo
bollato la cultura africana come primitiva, e queste pratiche come occulte. Invece abbiamo molto da imparare,
da tutto ciò.
Fondamentale sembra essere, dalla lettura del tuo libro, la presenza delle chiese, nelle sue varie
espressioni,
dalle varie correnti protestanti, dal fenomeno delle "chiese indipendenti africane", alla presenza della
chiesa cattolica, che tu hai avvicinato nella persona di Alex Zanotelli. Nel tuo libro hai più volte
sottolineato
la peculiarità di questo tuo rapporto con il lavoro di Zanotelli nella veste di laico non credente. La chiesa
è davvero fondamentale per una possibilità di riscatto sociale? Un occhio laico non potrebbe
cogliere una
nuova forma di evangelizzazione, che ribadisce ancora una volta l'universalità della visione cristiana del
mondo, cui adeguarsi per essere realmente nel "giusto"? L'esperienza di Padre Alex Zanotelli
è straordinaria. Vivendo in baraccopoli, "inculturando" la propria liturgia
cristiana nella realtà che trova attorno a sè, ha costituito una rete di piccole comunità
cristiane che diventano la
spina dorsale delle rare forme di autoorganizzazione nel quartiere. Recentemente hanno posto sul tavolo la
questione della proprietà della terra. Ci sono stati degli arresti, le piccole comunità cristiane fanno
paura al potere.
Certo, i credenti hanno come riferimento la propria fede, la conflittualità con l'Islam, ad esempio,
è molto
pericolosa. Ma c'è poco da fare, in baraccopoli si trovano preti e missionari. Rifondatori comunisti,
anarchici,
persone di sinistra io ne ho visti proprio pochi.
G.G.
Dopo il bipolarismo intervista a Efrem
Tresoldi di Gianni Sartori
Padre Efrem Tresoldi è attualmente direttore della rivista comboniana Nigrizia, degno
successore di padre
Alessandro Zanotelli. È intervenuto come relatore all'incontro dibattito «Terzo mondo cosa ne
sappiamo?», in occasione della XII settimana per la Pace organizzata dalla Parrocchia di San Carlo
(Villaggio del Sole). Qual'è l'immagine dell'Africa che i media occidentali
mettono in circolazione? Con questa domanda era
iniziato il tuo intervento alla XII settimana per la Pace. Mi sembra di capire che (fatte salve alcune
eccezioni come Nigrizia) su questo tema l'informazione lascia alquanto a desiderare. È
fin troppo facile constatare che la nostra stampa si occupa dell'Africa poco e male. Per certi aspetti la situazione
è addirittura peggiorata dopo la caduta del muro di Berlino. Prima, bene o male, l'Africa riusciva ad
apparire sui
media; negli ultimi anni solo in occasione di catastrofi e stragi come per il Burundi e il Ruanda. E anche in questi
casi le notizie apparivano «sfocate»; i commenti sembravano fatti apposta per suggerire a lettori e telespettatori
che, mentre in Europa i conflitti scoppiavano per motivi seri e identificabili (v. ex Jugoslavia), in Africa i fatti
accadono e basta. Perché entrerebbero in gioco forze irrazionali, conflitti atavici, perché la gente
non sarebbe in
grado di risolvere i propri problemi e preferisce imbracciare il fucile o il machete... In sostanza viene ribadito il
solito concetto: quello che avviene in Africa si svolge al di fuori delle logiche che normalmente determinano i
movimenti della storia. E invece anche per i conflitti africani è possibile individuare cause ben precise,
gli stessi
meccanismi che sottostanno ai contemporanei conflitti dell'Est europeo. Soprattutto per quanto riguarda le guerre
scoppiate dopo la caduta del muro di Berlino.
In che mondo i fatti dell'89, avvenuti a migliaia di chilometri di distanza, avrebbero influito sui
conflitti
dell'Africa? Esaminando quanto è avvenuto in Africa dopo l'89, da quando è
in vigore il cosiddetto nuovo ordine mondiale
(imperniato sostanzialmente su un unico polo, gli Stati Uniti e il modello capitalista) appare evidente che il prezzo
per questo «nuovo» ordine è stato pagato in gran parte dall'Africa. Va anche detto che in qualche caso
(Mozambico, Benin, Angola...) le conseguenze sono state positive. Prima dell'89 Usa e Urss si combattevano allo
scopo di accaparrarsi nuove aree di influenza e sfruttamento. Naturalmente non abbiamo mai visto i marines
scontrarsi con l'Armata rossa perché non era necessario. Le guerre si svolgevano per procura: le etnie
locali
fornivano la carne da macello, le superpotenze fornivano gli armamenti, la logistica, gli istruttori e i consiglieri
militari.
Qualche esempio concreto di queste «guerre per procura», come le hai
definite? In Angola (indipendente dal Portogallo dal novembre '75 ndr) il governo costituito
dall'Mpla di Dos Santos,
legato a Mosca, aveva finanziamenti e consiglieri russi; dall'altra parte della barricata Usa e Sudafrica
appoggiavano i ribelli dell'Unita di Savimbi. In Angola si era combattuto per l'indipendenza fino al 1975 e poi
si combattè la guerra civile fino al '92. In realtà questa era una guerra per interposta persona tra
Usa e Urss.
Questa guerra, con il crollo dell'Unione Sovietica, ha perso significato. Naturalmente la situazione è
ancora
precaria, in bilico... È inevitabile, dopo che per trent'anni ci si era abituati a risolvere le questioni con la
canna
del fucile, ma mi auguro che prevalga la volontà della gente che non ne può più della
guerra. Lo stesso è accaduto
in Mozambico con conseguenze molto positive il 4 ottobre 1992 è stata firmata la pace tra il governo, in
passato
filosovietico, e la Renamo, una guerriglia appoggiata dagli Usa e dall'immancabile Sudafrica.
Nigrizia si è occupata regolarmente del Sudafrica e tu stesso vi hai operato come
missionario. L'89 ha avuto
conseguenze anche per la ex patria dell'apartheid? Senza togliere nulla al valore delle lotte
antiapartheid (sia quelle condotte all'interno dai vari movimenti di
opposizione, sia quelle condotte dai gruppi che dall'esterno premevano sul governo di Pretoria) penso che vi sia
stata quantomeno una serie di coincidenze che hanno permesso al Sudafrica di aprirsi alla democrazia e
abbandonare l'apartheid. Non dimentichiamo che Mandela è stato liberato l'11 febbraio del 1990, tre mesi
dopo
la caduta del muro di Berlino.
A proposito di coincidenze: ricordo che le ultime cinque impiccagioni di militanti antiapartheid
(ordinate
dal neoletto De Klerk, nonostante gli appelli dell'Onu) risalgono al 29 settembre e al 20 ottobre 1989. Pensi
che un mese dopo la loro sorte sarebbe stata diversa? È probabile anche se è
sempre difficile fare ipotesi di questo tipo. In ogni caso è innegabile che da quel momento
ha preso avvio un processo lungo e faticoso (penso ai più di diecimila morti per scontri etnici dal '90 al
'94 nella
sola regione del Kwazulu) che comunque ha portato alle elezioni del 26 aprile 1994, al primo governo eletto
democraticamente da tutta la popolazione: indiani, meticci, neri, bianchi... Per la prima volta tutti hanno potuto
votare e contribuire al nuovo assetto politico multirazziale e democratico. Forse questo non sarebbe stato possibile
finché esisteva l'Unione Sovietica.
Fin qui le cose andate abbastanza bene. E le conseguenze negative della caduta del
muro? In certi casi ha avuto ripercussioni tragiche. Una parte dell'Africa ha dovuto pagare un
prezzo molto alto per la
fine del bipolarismo. Pensiamo alla Somalia che aveva funzionato da baluardo degli Usa, dell'Occidente, contro
l'espansionismo sovietico (rappresentato dall'«imperatore rosso» dell'Etiopia, Menghistu) nel Corno d'Africa.
Qui l'Italia è parte in causa avendo fornito, sotto il paravento della cooperazione, soldi e armi (cannoni,
carri
armati..) al dittatore Siad Barre, aiutandolo a reprimere la dissidenza all'interno del paese. Una volta caduto il
muro all'Occidente non conveniva più sostenere un regime del genere, alquanto impopolare per
l'incredibile
ferocia repressiva di cui aveva dato prova. Nel '90 è scoppiato il finimondo. Le opposizioni armate partite
dal
Nord (le più colpite dalla repressione) sono arrivate fino a Mogadiscio e la Somalia come stato è
praticamente
scomparsa. Le varie aree sono ora dominate dai signori della guerra che hanno in mano il controllo del paese.
È
evidente come tutto sia scaturito dalla caduta del muro, un evento lontano geograficamente, ma molto vicino per
quanto riguarda gli interessi strategici. Una conferma è venuta nel maggio '91: anche Menghistu, che
era al potere dal '77, ha dovuto fuggire quando i
guerriglieri tigrini (provenienti dal Tigrai, i più ostili a Menghistu e gelosi della loro autonomia) sono
arrivati ad
Addis Abeba. Oggi l'Etiopia è una repubblica federale che sta cercando di rimettere in sesto il paese
rispettando
la diversità e l'autonomia delle varie etnie.
Una base per la Cia Un altro esempio negativo è quello della Liberia,
nell'Africa occidentale. Era da sempre un caposaldo degli Usa,
fin da quando gli schiavi liberati tornati in Africa vi si installarono prendendo in mano il potere economico,
politico e militare, spalleggiati dai padrini americani. Gli interessi degli Usa erano principalmente strategici. Dalla
Liberia, in particolare durante la presidenza Reagan, partivano marines, aerei e navi da guerra. Ma soprattutto qui
c'era la più importante radiotrasmittente della Cia che copriva un'area vastissima, quasi fino al Sudafrica,
per
controllare il Benin, l'Angola, il Congo... (tutti paesi all'epoca più o meno filosovietici). Il muro è
caduto nel
novembre dell'89 e già in dicembre scoppiava la guerra civile in Liberia. Su poco più di due
milioni di abitanti,
finora ne sono fuggiti circa ottocentomila.
Come mai gli americani, che sono prontamente intervenuti in Somalia, Grenada, Iraq, Libia,
Panama...
non sono intervenuti anche in Liberia? Un importante funzionario del Dipartimento di Stato
americano, Hermann Cohen, sottosegretario degli Esteri
incaricato per l'Africa, intervistato circa un anno e mezzo dopo lo scoppio della guerra civile, ha dichiarato:
"Avremmo potuto impedirlo con un piccolo intervento armato e questa guerra non sarebbe mai avvenuta". Gli
Usa non sono intervenuti perché ormai la Liberia non interessa più; negli ultimi dieci anni era
stata governata da
un dittatore, un vero fantoccio degli Usa. È stato abbandonato a se stesso (ben diverso il destino di un
altro
fantoccio degli Stati Uniti, Noriega, data l'importanza del Canale di Panama ndr) e le varie bande armate che
già
scorrazzavano per il paese si sono organizzate mettendolo a ferro e fuoco.
Senza voler generalizzare, mi sembra di capire che le nazioni africane (come il Mozambico, il
Benin, forse
l'Angola e l'Etiopia...) che dipendevano dall'Urss hanno tratto vantaggio, dalla fine del bipolarismo,
avviandosi alla democrazia; invece altre (come la Somalia e la Liberia) che gravitavano nella sfera di
influenza occidentale sono state travolte (il Sudafrica naturalmente è un caso
particolare). In parte è proprio così. Vedi appunto il caso del Benin (Dahomey)
dove, già nel '91, si sono svolte regolari
elezioni, grazie anche alla mediazione della Chiesa che ha garantito la transizione alla democrazia. Il Benin si
è
dotato di una Assemblea Costituente, di una Carta Costituzionale, di una Carta dei Diritti Umani, garantendo la
libertà di stampa e un governo legittimo. Il nuovo governo però ha deluso le aspettative della
gente e quest'anno,
con le nuove elezioni, è stato eletto il vecchio leader, opportunamente riciclato. Potrebbe sembrare una
"restaurazione", ma resta un esempio di democrazia perché la gente ha potuto scegliere liberamente.
Qualcosa
del genere sta avvenendo nel Mali, nello Zambia, in Congo; nel Togo invece la trasformazione è
attualmente
bloccata. Dopo l'89 si sono riciclati anche altri regimi: in Kenia le riforme istituzionali erano già
avviate, sotto la pressione
internazionale, ma l'opposizione non ha saputo trovare un accordo e si è presentata alle elezioni
frantumata,
consentendo così la conservazione del potere ai vecchi esponenti del regime.
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