Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 27 nr. 234
marzo 1997


Rivista Anarchica Online

Un continente alla deriva
di G. G. e Gianni Sartori

Per capire meglio quello che sta succedendo in Africa abbiamo realizzato due interviste. Una con Andrea Berrini sulle baraccopoli di Nairobi, sulle quali ha scritto un libro: con particolare attenzione alle esperienze di vita comunitaria e di "autogestione". Un'altra con Efrem Tresoldi, missionario comboniano, direttore della rivista "Nigrizia", sulla situazione socio-politica in numerosi Paesi africani

La cultura bollata
a colloquio con Andrea Berrini

Puoi darci un'idea sintetica di cosa significa parlare di "baraccopoli" in Africa, per noi che in Italia abbiamo in mente, al massimo, le baracche degli "accattoni" pasoliniani?
Immaginate un pianoro verdeggiante nel quale si alzano le sagome di una trentina di grattacieli negli stili architettonici più diversi. Vasti quartieri di ville bianche circondate da giardini, e una cintura residenziale di casette a schiera, o condomini a più piani dove le strade sono ben asfaltate, gli empori in buono stato. Ecco: questa è Nairobi, forse la più ricca capitale dell'Africa nera dopo Johannesburg-Pretoria. Puntualmente, questa ricca città ospita le baraccopoli più degradate: il pianoro è attraversato da tre o quattro avvallamenti solcati da fiumiciattoli luridi, e le baracche si aggrappano al pendio di questi valloni. Densità abitative allucinanti, totale assenza di servizi di qualunque tipo, fogne a cielo aperto. Certo, in altre città africane la baraccopoli è meno terribile, in particolare dove c'è più spazio, dove assume l'aspetto di uno sterminato villaggio e intorno a ogni casa c'è almeno un orto, qualche albero da frutta. A Nairobi, in queste città di fango, vive più di un abitante su due.

Il proliferare di immense periferie degradate, in Africa come altrove, sembra ormai sfuggire al controllo dei pianificatori, che escono allo scoperto solo quando devono mettere in atto operazioni repressive come grandi sgomberi e relativi spostamenti di enormi gruppi di popolazione. Nel tuo libro emerge come in Kenia, accanto alle prevedibili forme di predominio della piccola e grande criminalità, si siano sviluppate negli "slums", esperienze di partecipazione comunitaria e di autogestione molto importanti. Puoi spiegarcene le caratteristiche? Che ruolo hanno le donne in questi processi? Quale quello dei giovani e dei bambini? Ci sono soluzioni di continuità e/o di rottura con le culture tradizionali?
Lo stato, letteralmente, si è ritirato da queste aree, i cui abitanti sono però inseriti a tutti gli effetti nell'economia cittadina: ne sono la manodopera a bassissimo costo. Come se lo stato dicesse: fate voi, noi non c'entriamo più. Purtroppo, caratteristica di Nairobi (anche qui: in altre grandi città africane non è così) è la totale dissoluzione di ogni forma di aggregazione sociale precedente, su base etnica. La nuova generazione, i ragazzi che hanno vent'anni ora (e cioè, in realtà, il nucleo forte della popolazione adulta) sono nati in baraccopoli, e non conoscono altro. Sono spesso individui soli, isolati. La famiglia non da protezione ai bambini, molti dei quali a dieci anni sono già autonomi, costretti a mantenersi da soli. Si creano allora della "bande" dai nomi variopinti, con legami gerarchici al loro interno che funzionano da veri e propri surrogati di famiglia.
Un altro punto di aggregazione estremamente interessante, e nel mio libro ne parlo diffusamente, sono le Chiese Indipendenti. Si tratta di piccole congregazioni legate alla tradizione biblica, ma che portano con loro la volontà irriducibile di rivitalizzare la religione tradizionale africana. In particolare, attente al problema della guarigione: si tratta di piccole comunità spirituali dove il malato condivide con altri il proprio dolore e attraverso apposite cerimonie ne guarisce.

La cura delle malattie investe anche nelle realtà da te descritte ambiti differenziati, dalla percezione di sè al rapporto con il trascendente fino al confronto con l'occidente. Come si colloca in questo contesto la medicina "tradizionale" africana, sempre che si possa ancora usare questo termine?
É sorprendente: moltissime tra le persone che io ho incontrato soffrono di una gran varietà di quelli che noi definiamo malattie psicosomatiche, da stress. Mali di testa, ulcere, mali di schiena, incapacità delle coppie a procreare, incubi notturni, insonnie. Ed è altrettanto sorprendente come se ne possa guarire tramite queste pratiche collettive di condivisione del dolore. Certo, chi afferma di poter guarire tout court dall'Aids o dal cancro è un ciarlatano, ma sul tessuto delle Chiese Indipendenti si innestano le rare forme di resistenza, di organizzazione dal basso. E la cosa più interessante è proprio questa: le Chiese Indipendenti prendono a piene mani dalla tradizione africana, quella dell'uomo medicina del villaggio, che conoscendo davvero 'vita morte e miracoli' di ogni famiglia, conoscendo a fondo la storia culturale, psicologica, spirituale di ogni individuo, sapeva portare avanti pratiche di guarigione in grado di non separare corpo e mente, materiale e immateriale. Noi bianchi abbiamo bollato la cultura africana come primitiva, e queste pratiche come occulte. Invece abbiamo molto da imparare, da tutto ciò.

Fondamentale sembra essere, dalla lettura del tuo libro, la presenza delle chiese, nelle sue varie espressioni, dalle varie correnti protestanti, dal fenomeno delle "chiese indipendenti africane", alla presenza della chiesa cattolica, che tu hai avvicinato nella persona di Alex Zanotelli. Nel tuo libro hai più volte sottolineato la peculiarità di questo tuo rapporto con il lavoro di Zanotelli nella veste di laico non credente. La chiesa è davvero fondamentale per una possibilità di riscatto sociale? Un occhio laico non potrebbe cogliere una nuova forma di evangelizzazione, che ribadisce ancora una volta l'universalità della visione cristiana del mondo, cui adeguarsi per essere realmente nel "giusto"?
L'esperienza di Padre Alex Zanotelli è straordinaria. Vivendo in baraccopoli, "inculturando" la propria liturgia cristiana nella realtà che trova attorno a sè, ha costituito una rete di piccole comunità cristiane che diventano la spina dorsale delle rare forme di autoorganizzazione nel quartiere. Recentemente hanno posto sul tavolo la questione della proprietà della terra. Ci sono stati degli arresti, le piccole comunità cristiane fanno paura al potere. Certo, i credenti hanno come riferimento la propria fede, la conflittualità con l'Islam, ad esempio, è molto pericolosa. Ma c'è poco da fare, in baraccopoli si trovano preti e missionari. Rifondatori comunisti, anarchici, persone di sinistra io ne ho visti proprio pochi.

G.G.

Dopo il bipolarismo
intervista a Efrem Tresoldi di Gianni Sartori

Padre Efrem Tresoldi è attualmente direttore della rivista comboniana Nigrizia, degno successore di padre Alessandro Zanotelli. È intervenuto come relatore all'incontro dibattito «Terzo mondo cosa ne sappiamo?», in occasione della XII settimana per la Pace organizzata dalla Parrocchia di San Carlo (Villaggio del Sole).
Qual'è l'immagine dell'Africa che i media occidentali mettono in circolazione? Con questa domanda era iniziato il tuo intervento alla XII settimana per la Pace. Mi sembra di capire che (fatte salve alcune eccezioni come Nigrizia) su questo tema l'informazione lascia alquanto a desiderare.
È fin troppo facile constatare che la nostra stampa si occupa dell'Africa poco e male. Per certi aspetti la situazione è addirittura peggiorata dopo la caduta del muro di Berlino. Prima, bene o male, l'Africa riusciva ad apparire sui media; negli ultimi anni solo in occasione di catastrofi e stragi come per il Burundi e il Ruanda. E anche in questi casi le notizie apparivano «sfocate»; i commenti sembravano fatti apposta per suggerire a lettori e telespettatori che, mentre in Europa i conflitti scoppiavano per motivi seri e identificabili (v. ex Jugoslavia), in Africa i fatti accadono e basta. Perché entrerebbero in gioco forze irrazionali, conflitti atavici, perché la gente non sarebbe in grado di risolvere i propri problemi e preferisce imbracciare il fucile o il machete... In sostanza viene ribadito il solito concetto: quello che avviene in Africa si svolge al di fuori delle logiche che normalmente determinano i movimenti della storia. E invece anche per i conflitti africani è possibile individuare cause ben precise, gli stessi meccanismi che sottostanno ai contemporanei conflitti dell'Est europeo. Soprattutto per quanto riguarda le guerre scoppiate dopo la caduta del muro di Berlino.

In che mondo i fatti dell'89, avvenuti a migliaia di chilometri di distanza, avrebbero influito sui conflitti dell'Africa?
Esaminando quanto è avvenuto in Africa dopo l'89, da quando è in vigore il cosiddetto nuovo ordine mondiale (imperniato sostanzialmente su un unico polo, gli Stati Uniti e il modello capitalista) appare evidente che il prezzo per questo «nuovo» ordine è stato pagato in gran parte dall'Africa. Va anche detto che in qualche caso (Mozambico, Benin, Angola...) le conseguenze sono state positive. Prima dell'89 Usa e Urss si combattevano allo scopo di accaparrarsi nuove aree di influenza e sfruttamento. Naturalmente non abbiamo mai visto i marines scontrarsi con l'Armata rossa perché non era necessario. Le guerre si svolgevano per procura: le etnie locali fornivano la carne da macello, le superpotenze fornivano gli armamenti, la logistica, gli istruttori e i consiglieri militari.

Qualche esempio concreto di queste «guerre per procura», come le hai definite?
In Angola (indipendente dal Portogallo dal novembre '75 ndr) il governo costituito dall'Mpla di Dos Santos, legato a Mosca, aveva finanziamenti e consiglieri russi; dall'altra parte della barricata Usa e Sudafrica appoggiavano i ribelli dell'Unita di Savimbi. In Angola si era combattuto per l'indipendenza fino al 1975 e poi si combattè la guerra civile fino al '92. In realtà questa era una guerra per interposta persona tra Usa e Urss. Questa guerra, con il crollo dell'Unione Sovietica, ha perso significato. Naturalmente la situazione è ancora precaria, in bilico... È inevitabile, dopo che per trent'anni ci si era abituati a risolvere le questioni con la canna del fucile, ma mi auguro che prevalga la volontà della gente che non ne può più della guerra. Lo stesso è accaduto in Mozambico con conseguenze molto positive il 4 ottobre 1992 è stata firmata la pace tra il governo, in passato filosovietico, e la Renamo, una guerriglia appoggiata dagli Usa e dall'immancabile Sudafrica.

Nigrizia si è occupata regolarmente del Sudafrica e tu stesso vi hai operato come missionario. L'89 ha avuto conseguenze anche per la ex patria dell'apartheid?
Senza togliere nulla al valore delle lotte antiapartheid (sia quelle condotte all'interno dai vari movimenti di opposizione, sia quelle condotte dai gruppi che dall'esterno premevano sul governo di Pretoria) penso che vi sia stata quantomeno una serie di coincidenze che hanno permesso al Sudafrica di aprirsi alla democrazia e abbandonare l'apartheid. Non dimentichiamo che Mandela è stato liberato l'11 febbraio del 1990, tre mesi dopo la caduta del muro di Berlino.

A proposito di coincidenze: ricordo che le ultime cinque impiccagioni di militanti antiapartheid (ordinate dal neoletto De Klerk, nonostante gli appelli dell'Onu) risalgono al 29 settembre e al 20 ottobre 1989. Pensi che un mese dopo la loro sorte sarebbe stata diversa?
È probabile anche se è sempre difficile fare ipotesi di questo tipo. In ogni caso è innegabile che da quel momento ha preso avvio un processo lungo e faticoso (penso ai più di diecimila morti per scontri etnici dal '90 al '94 nella sola regione del Kwazulu) che comunque ha portato alle elezioni del 26 aprile 1994, al primo governo eletto democraticamente da tutta la popolazione: indiani, meticci, neri, bianchi... Per la prima volta tutti hanno potuto votare e contribuire al nuovo assetto politico multirazziale e democratico. Forse questo non sarebbe stato possibile finché esisteva l'Unione Sovietica.

Fin qui le cose andate abbastanza bene. E le conseguenze negative della caduta del muro?
In certi casi ha avuto ripercussioni tragiche. Una parte dell'Africa ha dovuto pagare un prezzo molto alto per la fine del bipolarismo. Pensiamo alla Somalia che aveva funzionato da baluardo degli Usa, dell'Occidente, contro l'espansionismo sovietico (rappresentato dall'«imperatore rosso» dell'Etiopia, Menghistu) nel Corno d'Africa. Qui l'Italia è parte in causa avendo fornito, sotto il paravento della cooperazione, soldi e armi (cannoni, carri armati..) al dittatore Siad Barre, aiutandolo a reprimere la dissidenza all'interno del paese. Una volta caduto il muro all'Occidente non conveniva più sostenere un regime del genere, alquanto impopolare per l'incredibile ferocia repressiva di cui aveva dato prova. Nel '90 è scoppiato il finimondo. Le opposizioni armate partite dal Nord (le più colpite dalla repressione) sono arrivate fino a Mogadiscio e la Somalia come stato è praticamente scomparsa. Le varie aree sono ora dominate dai signori della guerra che hanno in mano il controllo del paese. È evidente come tutto sia scaturito dalla caduta del muro, un evento lontano geograficamente, ma molto vicino per quanto riguarda gli interessi strategici.
Una conferma è venuta nel maggio '91: anche Menghistu, che era al potere dal '77, ha dovuto fuggire quando i guerriglieri tigrini (provenienti dal Tigrai, i più ostili a Menghistu e gelosi della loro autonomia) sono arrivati ad Addis Abeba. Oggi l'Etiopia è una repubblica federale che sta cercando di rimettere in sesto il paese rispettando la diversità e l'autonomia delle varie etnie.

Una base per la Cia
Un altro esempio negativo è quello della Liberia, nell'Africa occidentale. Era da sempre un caposaldo degli Usa, fin da quando gli schiavi liberati tornati in Africa vi si installarono prendendo in mano il potere economico, politico e militare, spalleggiati dai padrini americani. Gli interessi degli Usa erano principalmente strategici. Dalla Liberia, in particolare durante la presidenza Reagan, partivano marines, aerei e navi da guerra. Ma soprattutto qui c'era la più importante radiotrasmittente della Cia che copriva un'area vastissima, quasi fino al Sudafrica, per controllare il Benin, l'Angola, il Congo... (tutti paesi all'epoca più o meno filosovietici). Il muro è caduto nel novembre dell'89 e già in dicembre scoppiava la guerra civile in Liberia. Su poco più di due milioni di abitanti, finora ne sono fuggiti circa ottocentomila.

Come mai gli americani, che sono prontamente intervenuti in Somalia, Grenada, Iraq, Libia, Panama... non sono intervenuti anche in Liberia?
Un importante funzionario del Dipartimento di Stato americano, Hermann Cohen, sottosegretario degli Esteri incaricato per l'Africa, intervistato circa un anno e mezzo dopo lo scoppio della guerra civile, ha dichiarato: "Avremmo potuto impedirlo con un piccolo intervento armato e questa guerra non sarebbe mai avvenuta". Gli Usa non sono intervenuti perché ormai la Liberia non interessa più; negli ultimi dieci anni era stata governata da un dittatore, un vero fantoccio degli Usa. È stato abbandonato a se stesso (ben diverso il destino di un altro fantoccio degli Stati Uniti, Noriega, data l'importanza del Canale di Panama ndr) e le varie bande armate che già scorrazzavano per il paese si sono organizzate mettendolo a ferro e fuoco.

Senza voler generalizzare, mi sembra di capire che le nazioni africane (come il Mozambico, il Benin, forse l'Angola e l'Etiopia...) che dipendevano dall'Urss hanno tratto vantaggio, dalla fine del bipolarismo, avviandosi alla democrazia; invece altre (come la Somalia e la Liberia) che gravitavano nella sfera di influenza occidentale sono state travolte (il Sudafrica naturalmente è un caso particolare).
In parte è proprio così. Vedi appunto il caso del Benin (Dahomey) dove, già nel '91, si sono svolte regolari elezioni, grazie anche alla mediazione della Chiesa che ha garantito la transizione alla democrazia. Il Benin si è dotato di una Assemblea Costituente, di una Carta Costituzionale, di una Carta dei Diritti Umani, garantendo la libertà di stampa e un governo legittimo. Il nuovo governo però ha deluso le aspettative della gente e quest'anno, con le nuove elezioni, è stato eletto il vecchio leader, opportunamente riciclato. Potrebbe sembrare una "restaurazione", ma resta un esempio di democrazia perché la gente ha potuto scegliere liberamente. Qualcosa del genere sta avvenendo nel Mali, nello Zambia, in Congo; nel Togo invece la trasformazione è attualmente bloccata.
Dopo l'89 si sono riciclati anche altri regimi: in Kenia le riforme istituzionali erano già avviate, sotto la pressione internazionale, ma l'opposizione non ha saputo trovare un accordo e si è presentata alle elezioni frantumata, consentendo così la conservazione del potere ai vecchi esponenti del regime.