Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 27 nr. 233
febbraio 1997


Rivista Anarchica Online

Liberarete
a cura di Marco Cagnotti(cagnotti@venus.it)

Un mezzo come gli altri

Dopo la lettera di David Koven comparsa su "A" del luglio scorso, l'intervento di Troglodita Tribe comparso sul numero di ottobre e la lettera di Carlo Bellisai sul numero scorso, e dopo ampie discussioni sia di persona che via posta elettronica con più di un compagno, mi sono fatto l'idea che la comunicazione telematica venga vissuta in maniera ambivalente nel movimento anarchico. Da un lato ci sono i fanatici assoluti, quelli che davvero vedono il cyberspazio come un luogo virtuale nel quale esprimere liberamente le proprie potenzialità, con il mito un po' romantico dell'hacker ribelle che trascorre le notti violando i sistemi di sicurezza di multinazionali ed enti governativi, per il semplice gusto di farlo o con il preciso intento di compiere atti di sabotaggio. Dall'altro troviamo i refrattari a oltranza, che in nome di un bucolico "ritorno alla natura" vedono come il fumo negli occhi tutto ciò che è artificiale e, a sentir loro, alienante. Il computer è l'ultimo dei ritrovati tecnologici… come non avversarlo? Eccoli quindi dipingere a tinte fosche la futura società telematica, formata da poveri individui solitari rinchiusi a rincoglionirsi per giorni e giorni davanti a un monitor, incapaci di godersi una passeggiata nel sole o una grigliata fra amici.
Ebbene, devo deludere tutti: alla stragrande maggioranza delle persone che bazzicano nella Rete, e per le quali il computer è uno strumento di lavoro, di svago e di comunicazione con il mondo, entrambi questi scenari sono totalmente estranei. Né scorridori notturni dei server del Potere (vuoi per ignoranza tecnologica, vuoi per convinzione dell'inutilità del gesto), né rincretiniti afasici capaci solo di comunicare per posta elettronica. Piuttosto semplici utenti di molti mezzi di comunicazione differenti fra loro che, dalla voce e dai gesti fino alla telematica passando per telefonate, libri e giornali, hanno pregi e difetti, vantaggi e limiti peculiari: se si perde qualcosa da una parte, si guadagna qualcos'altro da un'altra. L'essenziale è saper scegliere il mezzo più adatto allo scopo che si vuole ottenere e al pubblico che si vuole raggiungere. E, soprattutto, usare gli strumenti senza farsi strumentalizzare.
Se il mio fine è diffondere le mie idee, posso convocare i miei vicini una sera a casa mia, ed esporre loro i miei pensieri. Con la voce, ma sottolineando le parole anche con l'espressione del volto e con il gesticolare delle mani, e inoltre sottoponendomi a un confronto diretto, rapido e continuo con le idee altrui. Molto stimolante, molto profondo… Peccato che così facendo non andrei oltre le dieci persone al massimo. Oppure posso tenere un comizio in piazza, ma così si perderebbe un po' l'interattività, con me che parlo dal palco e gli altri sotto ad ascoltare. E allora prendo e scrivo, e mi faccio pubblicare su una rivista. Beh, così l'interattività sparisce definitivamente, senza contare che se ne va anche la ricchezza della comunicazione non verbale. Però raggiungo migliaia di persone, anche molto lontane nello spazio e nel tempo. Se devo parlare a qualcuno che abita a seicento chilometri di distanza, e ciò che devo dirgli non è tragicamente importante, alzo la cornetta del telefono e lo chiamo. Ovviamente rinuncio alla possibilità di sottolineare le parole con gesti e smorfie, o con carezze e cazzotti se necessario, ma in compenso annullo la distanza che ci separa.
La Rete non è più artificiale né più alienante del telefono o di un libro. É solo diversa, meno banale nel suo uso, meno diretta ma più flessibile e più veloce. E, se vogliamo vivere e comunicare in un mondo un po' più grande del condominio in cui abitiamo, non possiamo prescindere da telefono, giornali e comunicazione telematica. Lo so anch'io che ritrovarsi in un'osteria a discutere di politica davanti a polenta e spezzatino è molto meglio che essere iscritti a una lista di discussione sull'anarchia. Ci arrivo da solo a capire che un foglio ricco di disegni fatti a mano comunica molte più cose di un messaggio di posta elettronica. Lo comprendo anch'io che stampare una rivista, fatta di carta da poter toccare, stringere, stropicciare, leggere al gabinetto ed eventualmente stracciare è molto più stimolante che non diffondere informazioni attraverso il Web. Però molti miei amici sono lontani, e non è che possiamo riunirci una volta alla settimana dalla signora Peppa a discutere e litigare sui massimi sistemi del mondo. E poi se è accaduto un fatto importante che merita di essere raccontato, oppure se un compagno è stato arrestato e in poche ore bisogna organizzare un sit-in di protesta, o ancora se un attivista in Guatemala è stato assassinato ed è necessario dare rapidamente il proprio sostegno ed esprimere la propria condanna, una lettera tradizionale è troppo lenta e un giro di telefonate troppo costoso. Infine, non ho i soldi per andare in tipografia, e per la verità neppure per fare montagne di fotocopie da distribuire in giro. Quindi… beh, ci sono solo la posta elettronica, le liste e i gruppi di discussione, e il Web. Con tutti i loro limiti, naturalmente, ma pure con i loro non trascurabili vantaggi.
La verità, come spesso accade, sta a metà strada fra gli opposti estremismi. La tecnologia è qualcosa che la società dei consumi ci offre. In sé non è né buona né cattiva. Dipende dall'uso che noi facciamo di essa. Dipende, soprattutto, se siamo noi a usare lei o lei a usare noi. É vero: trascorro diverse ore al giorno davanti al computer per lavorare e per mantenere i contatti con i miei corrispondenti lontani. Però ho anche una sostanziosa corrispondenza cartacea. E spesso, nel tardo pomeriggio, esco con la mia compagna per fare un giro in centro, e nelle fredde serate invernali mi godo i limpidi tramonti che incendiano l'orizzonte. E almeno una volta alla settimana vado con i miei amici a mangiare polenta e spezzatino e a parlare di anarchia dalla Peppa nell'Oltrepo.