Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 26 nr. 232
dicembre 1996 - gennaio 1997


Rivista Anarchica Online

A nous la libertè
diario a cura di Felice Accame

Rapide identità

Nel Quo vadis? di Mervyn Le Roy (1951), San Pietro (interpretato dal vecchio Finlay Currie), sull'impervio cammino della fede, al limitare di un bosco incontra e riconosce la luce di Dio. Ha appena lasciato Roma dove le cose non promettevano nulla di buono e, incerto e dubbioso sul da farsi, nellíestasi della visione, domanda: «Quo vadis?». Che subito traduce: «Dove vado?».
Questa concezione di un Dio poco versato nelle lingue ed un poco tardo di comprendonio mi ricorda quella di certi registi nei confronti del loro pubblico. Emmerich sembra il San Pietro del Quo vadis? allorquando, dirigendo il roboante e neoecumenico Independence Day, caratterizza i suoi personaggi garantendoci sui loro irrimediabili destini. Così, è ben chiaro a tutti che chi propende al Bene sarà salvato e chi non rifugge dal Male non vedrà la fine del film.
Valga per tutti il caso del personaggio positivo (Jeff Goldblum): è a Brooklyn e gioca a scacchi con il padre, allíaperto; va in bicicletta; indossa una camicia scozzese di flanellina e tiene slacciati i primi due bottoni in alto; dopo aver bevuto, getta la lattina nell'apposito contenitore che promette radiosi ricicli e, appena in ufficio, la prima mansione cui adempie è quella di spruzzare le foglioline di una pianticella che coltiva amorevolmente. Tutto ciò costituisce le ragioni della sua disinteressata intelligenza grazie alla quale, unico terrestre, capisce che la diminuzione progressiva di un segnale proveniente da una mastodontica astronave aliena è, in realtà, un conto alla rovescia, e, grazie alla quale, viene ancora a lui ed a lui solo l'idea di abbattere temporaneamente lo schermo magnetico protettivo degli alieni inserendo un virus informatico nel loro sistema di controllo. A costui, dunque, alla finfine, si deve quella salvezza dell'umanità cui concorre la migliore società interclassista - una società che abbraccia l'ubriacone reduce dal Viet-Nam con tre figli sanguemisti a carico, il militare nero, l'ecologo, la moglie che antepone la carriera alla famiglia e il Presidente stesso degli Stati Uniti d'America.
Quasi al centenario della Guerra dei mondi di Herbert George Wells, dunque, questa rappresentazione degli alieni in salsa di seppioline bavose, dentute e tentacolari continua ad invadere la Terra con il pretesto di succhiarle le sue preziose risorse e, com'è come non è, rimedia un fracco di legnate. Fatto è che tanta tecnologia e tanta organizzazione nulla possono contro l'arguzia e la buona volontà dell'Uomo - animale cui piace consolarsi con racconti del genere.
Sulla tecnica di connotazione dei personaggi si gioca, a ben vedere, la credibilità narrativa di un film. Ma il problema non sta tanto nei caratteri attribuiti, quanto piuttosto nei tempi e nelle occasioni scelte per attribuirli. Emmerich, per tornare all'esempio, accumula i tratti positivi del suo eroe in poco più di un minuto e, a patrimonio attribuito, non gli passa neppure per l'anticamera del cervello di aggiungergliene altri per via. Così i personaggi della vicenda sono, nella realtà percettiva dello spettatore, scatole chiuse, definite in quattro e quattrotto e prive di qualsiasi umanità perché private della facoltà di distribuirsi nel tempo e secondo le circostanze. Anche questo può essere un criterio per dividere, come diceva Sant'Agostino, «il grano dalla pula».

P.S.: Nel discorso decisivo alle truppe - nel giorno dell'ultima battaglia contro il nemico - il Presidente degli Stati Uniti dice ìcombattereteî e fa pensare, more solito, ad una riedizione del noto ìarmatevi e partiteî. Invece, poco dopo, nell'enfasi populista, si ricorda del proprio brevetto di pilota e schizza in cielo a fronteggiare i barbari di persona. E' una buona mossa politica che gli tornerà utile per le prossime elezioni. Fa il paio con quella di mostrare il popolo iracheno pronto a combattere, a fianco degli USA. Ancora della serie: «per chi non avesse capito». I confini fra il cinema e la propaganda - anche la più becera -, com'è noto, sono vaghi e malfermi.