Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 26 nr. 228
giugno 1996


Rivista Anarchica Online

La cura è la maschera dell'amore
di Filippo Trasatti

Tutti ci ricordiamo probabilmente di quei giorni della nostra infanzia in cui malati, con il morbillo o l'influenza, siamo stati costretti a rimanere in casa oppure addirittura a letto. La preoccupazione non era la malattia in se stessa, poco più di un nome e qualche disturbo, ma quella di non poter uscire a giocare, di dover rinunciare anche solo per qualche ora al mondo per il letto. E quando si ha fretta di vedere, toccare, comunicare l'immobilità forzata è insopportabile; è forse per questo che i bambini bruciano le malattie,che noi ci trasciniamo per giorni,in una vampata. E il medico? Un uomo di potere, metà stregone e indovino, metà papà buono (quand'era buono) che scrutava, palpava, capiva e sentenziava sul nostro futuro, il tutto nel giro di cinque minuti. Così almeno io, e credo molti della mia generazione, siamo cresciuti nella transizione tra il medico di famiglia tradizionale (una figura un po' mitica) che ormai andava scomparendo e il medico di massa che stava avanzando, travolto da folle di mutuati, sempre più distante dal corpo e dal paziente. Se si dovesse fare una storia senza grandi pretese del rapporto medico-paziente nella seconda metà del nostro secolo, credo che ci si potrebbe basare su tre indicatori grossolani, ma efficaci: la distanza che il primo pone tra sé e l'altro, il tempo della visita, la quantità e la qualità del contatto fisico. Proprio delle trasformazioni che ha subito la figura del medico nel corso del secolo, nell'epoca della massificazione e della razionalizzazione tecnica tratta il libro di Karl Jaspers, Il medico nell'età della tecnica, (Cortina, Milano 1995, 2a), con un'ottima introduzione di Umberto Galimberti, che raccoglie alcuni saggi scritti dal filosofo e psichiatra tedesco negli anni Cinquanta. Nonostante gli oltre quaranta anni di età, durante i quali i mutamenti e le conquiste nel mondo della medicina sono stati rapidissime e straordinariamente evidenti, i saggi di Jaspers non sono affatto invecchiati, perché toccano alcuni problemi che sono alla radice stessa della professione medica: la scissione corpo-anima, la comprensione della malattia, il rapporto tra salute e medicina, la critica delle terapie dell'anima.
La medicina, come una delle tante appendici gloriose della Scienza, non può essere in alcun modo criticata e coloro che ci provano si espongono a una ritorsione volgare e miope, che suona come una minaccia più o meno velata: vedrai quando ti ammalerai... No, costoro vorrebbero la pura e cieca obbedienza; il mito dell'esperto, della professionalità diventa un comodo schermo difensivo, per evitare ogni critica e ogni cambiamento. Per rompere questa crosta impenetrabile, qualcuno ha provato a lanciare un macigno. Ivan Illich cominciava così, con un apparente paradosso, il suo celebre libro sulla medicina: «la corporazione medica è diventata una grave minaccia per la salute». Jaspers è lontanissimo da questo stile provocatorio e irriverente; cita sì più volte la massima di Montaigne, quasi altrettanto cattiva: «se ti ammali non chiamare il medico: ti troveresti con due malattie»; ma lo fa prendendone le distanze, un'osservazione pungente valida per il passato. I progressi medici sono un dato di fatto che non si può trascurare, né tantomeno negare, ma da soli non danno il senso di che cosa è veramente la medicina. Jaspers vorrebbe riportare il medico alla sua antica vocazione, alla duplicità fondamentale che lo caratterizza: da un lato la conoscenza scientifica e l'abilità tecnica, dall'altro l'ethos umanitario. Tratteniamo il sorriso, e distogliamo il pensiero dai medici abbronzati, dai denti scintillanti, impegnati a macinar soldi per farsi la barca. Per fortuna non ci sono solo quelli e mi illudo che non siano solo i soldi la motivazione fondamentale che spinge alla professione medica. Magari non dichiarata, perché appunto oggi farebbe sorridere i più, questa motivazione umanitaria continua da qualche parte a sopravvivere. Mentre la scienza e la tecnica possono essere insegnate «l'umanità non è pianificabile. Si tramanda grazie alla sua personalità, impercettibilmente, istante dopo
istante, attraverso il suo modo di agire e di parlare, attraverso lo spirito che regna in una clinica, in quell'atmosfera silenziosa e pur tacitamente presente che è necessaria all'esercizio della professione medica ». (2) Il bravo medico che ha appreso le necessarie conoscenze scientifiche e tecniche può certamente diagnosticare la malattia, intervenire («il meno possibile, limitandosi a rimedi razionalmente giustificati», aggiunge Jaspers, impugnando il rasoio di Occam), ma curare implica qualcosa di più. La specializzazione, che da una parte ha permesso progressi tecnici considerevoli, ha portato progressivamente allo spostamento di attenzione in un percorso unidirezionale dall'individuo, al malato, dalla malattia alla patologia. Qualcosa di simile, notiamo solo per inciso, avviene nel campo dell'educazione, dove si vorrebbe un educatore sempre più tecnico, esperto di problemi didattici, di patologie dell'apprendimento. Ed è proprio da qui che nasce l'insoddisfazione, la sensazione che la medicina, nell'epoca dei suoi eclatanti successi sia in crisi. Sia ben chiaro, questa crisi è colta soltanto dai più avvertiti e non è neppure qualcosa di esclusivo del nostro tempo. «Da secoli, di pari passo con il progresso, si parla di crisi della medicina, di riforme, di superamento della medicina classica, di rifondazione dell'intera comprensione della malattia e della condizione medica».(45) Per risalire alle radici di questa crisi, bisognerebbe
ricostruire la storia dello sguardo medico nella clinica occidentale, come hanno fatto da punti di vista diversi Illich e Foucault. Il passaggio dal corpo vivo, al corpo morto come modello per il corpo vivo; le metafore del corpo-macchina e quella più aggiornata del corpo-computer hanno profondamente modificato la percezione della malattia, non solo nel medico e nella medicina, ma anche nel paziente. Le persone imparano a interpretare il proprio corpo attraverso gli sguardi degli altri, in particolare quelli del medico, dell'esperto che scrive sulle riviste in rapida espansione che parlano di salute. Il salutismo come modello di vita non è solo un mito di cartapesta per i mass-media.
Anche nella definizione di salute dell'Organizzazione mondiale della sanità (Oms) sentiamo che c'è qualcosa che non va: «uno stato di completo benessere fisico, spirituale, sociale», molto meglio del nirvana buddista! Più ampliamo il concetto di malattia, più persone peschiamo nella rete; al limite la salute si trasforma in un ideale irraggiungibile verso il quale tutti, in quanto in qualche modo malati, cercano di dirigersi. Jaspers propone sì un ampliamento dello sguardo medico, ma ripiegandolo verso l'interno, senza trionfalismi, con un senso dei limiti, che dà la misura profonda dell'umanità comune. «Questo sguardo medico ha il senso della situazione. Si preoccupa della naturalità dell'uomo nel suo ambiente. Non permette che la visita del malato si risolva in una congerie di risultati di indagini di laboratorio, ma è in grado di valutare tutto questo, di utilizzarlo e di tenerlo sotto controllo.
(...) Torna a caratterizzarlo qualcosa dell'atteggiamento ippocratico, che tiene presente il corso della vita ed è in grado di plasmare il rapporto del malato con la sua malattia. Conosce il significato permanente delle disposizioni igieniche e dietetiche. Con l'andare del tempo riesce ad avere col malato quel rapporto personale la cui trasparenza rende più facile il morire». (10) E' quello che Platone definiva (aristocraticamente) «medico libero per i liberi» in contrapposizione al «medico schiavo per gli schiavi». Questo è il senso della cura che non si limita a spiegare ed eliminare la patologia, ma si preoccupa di comprendere e di dare un contesto e un senso all'individuo che ha una malattia, qualsiasi essa sia. Altrimenti il divorzio dal corpo, com'è nella maggior parte dei casi, diventa inevitabile: il corpo diventa solamente un ostacolo, il centro del dolore, l'ospite delle patologie che dobbiamo rimuovere, cioè corpo iatrogeno.
In questo mutamento di prospettiva però si cela anche il pericolo più grande, che Jaspers individua, ma a cui non dà rilievo adeguato, e che oggi con il diffondersi della medicina psicosomatica è diventato più evidente.
Viktor von Weizsncker, uno dei padri della moderna medicina psicosomatica, ha cercato di ricondurre ad un unico campo unitario, ciò che era stato separato: l'organico e lo psichico. In una formula citata da Jaspers può essere riassunta la sua visione psicosomatica: «ogni processo organico, come ad esempio un'infiammazione, l'ipertensione, il dimagrimento, l'edema, dev'essere inteso come simbolo, non come funzione». (19) Ciò significa che la malattia non è solo perturbazione di tessuti e organi, ma ha anche un senso che sta al malato e al medico insieme cogliere e comprendere. Il linguaggio organico va decifrato e con l'aiuto del medico interprete, tradotto nel linguaggio dell'anima. Ed ecco il passaggio decisivo, lo scivolamento pericoloso cui accennavo. La malattia, tradotta nel linguaggio dell'anima, ci dà un elemento per la comprensione della nostra vita; essa ci dà un segnale che dobbiamo interpretare, che serve al nostro cambiamento, è un bene per noi in quanto ci spinge a rivedere ciò che non va. La malattia, per usare un'espressione di Susan Sontag, diventa allora «metafora» che rimanda alla malattia morale, alla nostra responsabilità verso gli altri, noi stessi e il mondo. Noi siamo in fondo colpevoli per le nostre malattie, per azioni e omissioni, in misura direttamente proporzionale secondo la gravità. Allora se un
raffreddore presuppone un peccato veniale, l'Aids o il cancro rivelano in realtà il nostro peccato mortale contro la vita.
Questo è l'assurdo, o forse non come sembra: una concezione «umanizzante» della medicina, si risolve in una ritorsione delle responsabilità e delle colpe contro l'individuo, che resta ancor più solo a dibattersi tra il male fisico e il «male morale». Siamo alla più bieca utilizzazione del dolore a fini terapeutici, per la sua rigenerazione
spirituale. Dobbiamo certamente dare un senso alla malattia, o meglio imparare a convivere in modo diverso con le malattie, ma senza sovraccaricarle di un assurdo valore morale punitivo, con un determinismo becero ammantato di terminologia psicoterapeutica. Cambiare l'immagine e l'immaginario della malattia non è cosa da poco: significa confrontarsi con il limite, con il nostro atteggiamento superficiale verso la morte, toccare le nostre ansie e paure più radicate; implica una rivoluzione culturale e sociale, altro che psicosomatica.