Rivista Anarchica Online
L'ambiguità del testo
Caro Felice Accame Ho avuto recentemente il piacere di leggere la tua rubrica su «A» numero 222 (il film in questione
è «da morire»
nell'originale inglese «To die for» nov. 95 n.d.r.), e di apprezzare molto quanto hai scritto, pur non avendo visto né
il film
né Nicole Kidman. Tuttavia sono certo che non me ne vorrai se aggiungo alla tua analisi una precisazione che mi
sembra
indispensabile, risultando obiettivamente a maggior carico degli autori della traduzione del titolo del film di Van Sant. Il
titolo medesimo, infatti, estrapolato da qualsivoglia contesto, si presta a una interpretazione semantica ambigua tipica della
lingua inglese. Per l'appunto il termine «to» possiede il significato di base della corrispondente preposizione italiana (quale
che debba essere quella impiegata nella traduzione a seconda dei casi), ma funge anche da indicatore sintattico del verbo
all'infinito presente («to die, to sleep, maybe to dream»). Ed è in questa sua seconda funzione che tu hai
correttamente
interpretato il sintagma «to die for» come «morire per». D'altronde lo stesso sintagma, cambiando prospettiva rispetto al
«to» per passare da una sintattica a una morfologica, può essere, altrettanto correttamente, interpretato come «da
morirne». Quest'ultima prospettiva di traduzione, rafforza, a mio avviso, anziché indebolire, l'intento della tua
analisi, che è quello
di mostrare come la sospensione in incompletezza del testo del titolo rimanda a un implicito il cui scopo è di fare
sgorgare
alla coscienza del recettore di comunicazione (nonché probabile e, in tal modo, adescato, fruitore del film) il pezzo
mancante, ovvero la bellezza della protagonista. Per altro il traduttore compie una duplice manipolazione resa lecita dalla
lingua e dalle capacità integrative del parlante nativo, in quanto, eliminando la particella pronominale enclitica (il
suffisso
«ne»), che per la sua natura di pronome rimanda ad altro attraverso il meccanismo dell'anafora, e che senza un riferimento
particolare testuale rimane genericamente indirizzata, la sostituisce con l'immagine del cartellone, che invece è
particolare
e univoca. Così facendo scambia di posto un implicito che poteva rimanere ambiguo, con un esplicito, in modo
che non
ci sia il rischio di sbagliarsi. In sostanza elimina un'anafora generica, apparentemente diminuendo il testo, ma al contrario
giustapponendo ad esso quello che nelle sue intenzioni deve essere il preciso riferimento del rimando. Tale aumento celato
è ottenuto appunto facendo «sforare» il testo dall'ambito linguistico a quello del sensorio specifico. In tal modo,
l'ambiguità del testo originale inglese, legata al duplice obbligo dell'uso di «to», e nel quale la funzione anaforica
era svolta
dall'altra preposizione, «for», viene ad essere perduta, contrariamente a quanto si potrebbe a prima vista pensare. Mi
sembra perciò di poter affermare che ci troviamo in questo caso in presenza, addirittura, di un «finto implicito»
(circostanza
meno rara di quanto di solito si supponga), e perciò di una patente manipolazione. E nulla impedisce che, tutto
sommato,
di fronte a un rimando visuale analogo, se non identico, anche nella versione inglese del cartellone, la stessa fattispecie
manipolatoria si configuri anche nei confronti del fruitore d'Albione o di Caboto. Ciò detto, Fraterni saluti.
Carlo E. Menga (Reggio Calabria)
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