Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 26 nr. 224
febbraio 1996


Rivista Anarchica Online

Anarchici sul fronte del cinema
di Paolo Gobetti

Cinque anni fa, sulla rivista Il nuovo spettatore di cui era direttore, Paolo Gobetti pubblicava questa panoramica della cinematografia libertaria durante la Rivoluzione Spagnola del '36. La ripubblichiamo anche come omaggio alla memoria dell'amico appena scomparso.

Nello scompartimento del treno di Zéro de conduite, in quel meraviglioso dialogo senza parole dei due ragazzi Caussat e Bruel che vanno in collegio, c'è forse la a, l'alfa di un cinema anarchico: nei ragazzi che, dopo il sogno di libertà nella notte della battaglia dei piumini nel dormitorio, si trovano sui tetti del collegio a gettare sassi contro il preside e le autorità che lo attorniano, con l'indimenticabile inno della libertà di Vigò e Maurice Jaubert, c'è invece la z, l'omega di un cinema che non ha avuto domani. Ma che ci può essere di più costituzionalmente irrealizzabile, per definizione utopico, di un cinema davvero libertario?
Solo i commercianti, usi a contare seralmente i soldi ritirati al botteghino, possono tracciare (e teorizzare) bilanci del cinema americano, il cinema di consumo per eccellenza. Solo forse gli stalinisti possono tirare le somme dei vari realismi (neo, socialisti, poetici o veri: e mettiamoci pure il verismo!) con la loro predisposizione all'ordine, alla burocrazia, alla statistica, alla schedatura (tutte caratteristiche per altro tipiche tanto degli stati di polizia quanto di quelli democratici: e già, infatti sono Stati; abbiam detto poco!).
Ma il cinema anarchico, quand'anche c'è (o ci fosse) è destinato a fare a meno degli storici: perché se fossero veri anarchici si contraddirebbero in partenza; e se invece non lo sono non possono che esserne gli affossatori. (L'unica volta che ho letto la definizione di montaggio anarco sindacalista è stato sull'Unità, ed era chiaramente usato con intento molto critico: l'autore l'usava addirittura come un insulto!).
In questo breve scritto non voglio quindi, non ho certo la presunzione, di fare una, sia pur condensatissima, storia del cinema anarchico, ma semplicemente una qualche osservazione (e questa sì che vorrei anarchica) su quel momento memorabile e irripetibile, in cui i lavoratori dell'industria dello spettacolo di Barcellona, all'indomani della grande battaglia contro il colpo di stato militare, fascista e confessionale del 18 luglio 1936, si sve
gliarono con il potere in mano. O meglio, nessuno avrà più il potere, senza volerlo prendere, occuparono un posto che era rimasto vuoto. Le organizzazioni sindacali (era la gloriosa Confederation National del Trabajo - Cnt) socializzarono le imprese (con la rivoluzione non c'erano più padroni) e cercarono di mettere in moto tutto: vita, produzione, società, idee, attività. Un mondo apparentemente rovesciato, che in realtà poteva incominciare a camminare diritto.
In quei giorni i lavoratori della Catalogna, di Barcellona e dell'Aragona, con la loro fulminea rivoluzione avevano cancellato, la precedente organizzazione sociale, qualsiasi struttura statale. A quel tempo della Cnt facevano parte più di un milione, operai, contadini, artigiani. Companys, che fu poi presidente della Catalogna, (e che i franchisti fucilarono poi brutalmente), il 19 luglio, alla Generalitat della Regione, dove si riunirono i comité rivoluzionari, offrì agli anarchici le chiavi della città, della regione: ma solo come qualcosa da abbattere. E si diede inizio a un colossale esperimento di società gestita direttamente dai sindacati (anarchici), da chi lavorava, per chi lavorava. In condizioni disastrose perché mancava tutto e c'era la guerra: i carri armati di Mussolini, gli Junkers di Hitler, i marocchini del generale Franco, appoggiati da chiesa, possidenti e industriali, avanzavano da sud con i loro plotoni di esecuzione (non risparmiano neanche Garcia Lorca) appoggiandosi alla "quinta colonna", che, spiace ricordarlo, si annidava in conventi e chiese, e sparava dai campanili.

le pesetas bruciate

Ma a Barcellona - chi ha vissuto quei momenti incredibili, ricorda quel mare di bandiere rosse, di entusiasmo rosso che saliva come rabbia, come una rifrazione di calore, da tutta la città, dalle Ramblas a Montjuich - la rivoluzione andava avanti: ha osato l'utopia: nelle piazze, davanti alle banche, la gente bruciava i soldi, le pesetas. Un mercato, forse primitivo, ma davvero libero regolava gli scambi: il primo valore non erano i beni, ma la persona umana.
In questa situazione non può essere difficile immaginare quale fosse lo stato d'animo con cui i lavoratori dello spettacolo hanno affrontato il compito di inventare il nuovo cinema tra entusiasmo, illusioni, confusione. Tra il 1932 e il 1936 erano stati girati a Barcellona, da varie società, 57 film (a Madrid ancora meno, 48). Pellicole soprattutto musicali, o folcloristiche o clericali, e qualche commedia. Non si tratta di una grande industria, il che pone difficoltà, esiguità di mezzi e di attrezzature, ma d'altro canto, offre forse maggior libertà, maggior stimolo all'invenzione.Manco a dirlo la maggior parte dei registi si trova dall'altra parte: sono parecchi quelli che continuano la loro carriera negli studi di Berlino e di Roma. Ma i lavoratori devono intanto risolvere vari problemi immediati. Il primo, quello della riapertura delle 114 sale cinematografiche della città: già il 16 agosto il sindaco annuncia su Solidaridad obrera, il quotidiano della Cnt un "progetto di strutturazione economica" approvato in assemblea e il 9 riprendono le proiezioni: i lavoratori veglieranno a che non vengano proiettati film di netta tendenza reazionaria che discreditino i principi di libertà e umanità difesi dalla Cnt. I diritti dei lavoratori erano opportunatamente garantiti, ma anche i proprietari o esercenti erano tutelati: avevano diritto a un salario che poteva arrivare al doppio di quello di un operaio.
L'altro problema, e chiaramente non il minore, è quello della guerra. In questo clima di mobilitazione, prima di pensare ai film a soggetto, c'è da soddisfare l'esigenza primaria di informazione e di lotta: documentare gli avvenimenti della rivoluzione
e del fronte. Prima ancora che si costituisca l'organizzazione del Sie (Sindacato de la Industria del Espetàculo) che realizzerà tutte le pellicole anarchiche di Barcellona, sin dal luglio la Cnt mette in circolazione un documento che all'inizio si presenta semplicemente come "movimiento revolucionario" con l'immagine di una ardita combattente che brandisce un fucile, prodotto dalla Oficina de Informacion y propaganda de la Cnt-Fai(1). Poi diventerà ufficialmente Reportaje del movimiento revolucionario en Barcelona. Sono riprese, effettuate da Ricardo Alonso, nei quattro giorni 19-23 luglio, montate da Antonio Cànovas e con la direzione di Mateo Santos, e documentano , a caldo, l'atmosfera di quei giorni: da una parte la rabbia e l'odio per gli autori del sanguinoso tentativo di colpo di stato, i militari "faziosi", i borghesi e i rappresentanti della Chiesa che da conventi e chiese trasformati in fortezze aprono il fuoco contro la gente "per odio frenetico delle libertà"; dall'altra l'entusiasmo della città, la liberazione dei detenuti e la partenza per il fronte aragonese delle prime colonne anarchiche guidate da Durruti e Perez Farràs. È un documento, purtroppo oggi monco (ne restano 20'91"), ma estremamente interessante, e che val la pena di studiare attentamente, e di rivedere. Sono le prime immagini senza "censura borghese": l'operatore certo si sente sbalestrato, tra l'eccitazione, l'entusiasmo, la difficoltà di essere ovunque e il desiderio di riprendere tutto. Così si affida all'istinto, al caso. Alcune immagini sono straordinarie. Si sente che l'improvvisazione può far meglio di tecnica, preparazione, regole quando ci si muove in accordo con l'avvenimento che si riprende. La qualità delle inquadrature dipende dal mestiere, ma la capacità di scelta dipende dalla coincidenza di quel che si sente con quel che accade.
I miliziani hanno occupato gli studi cinematografici della Orphea-Film e di Trilla, che diventano semplicemente Studio n.1 e Studio n.2. In via Caspe 25 si istalla un comitato di produzione che, come riferisce ancora Solidaridad obrera, intende dare al cinema "un orientamento sociale e innovatore, in sintonia con le aspirazioni delle masse che hanno lanciato la grande epopea che si sta vivendo nella Penisola".
Una cinquantina di persone è impegnata oltre che alla realizzazione dei film, nella creazione di una biblioteca specializzata, corsi di cinema, un comitato di propaganda. Aderisce all'impresa anche un operatore svizzero che già lavorava in quegli studi da cinque anni, Adrien Porchet. E lo portano a girare al fronte, sull'Ebro. I suoi ricordi, in un'intervista concessa nell'ottobre 1981 a Michel Froidevaux (che stava preparando uno studio sulle collettivizzazioni) aiutano a ricostruire l'atmosfera del tempo:
Lavoravamo in 35mm. Avevo una Debrie da 120m e due piccole Bell & Howell da 30m a mano, ed eran quelle che usavano di più... Le bobine venivano inviate a Barcellona per lo sviluppo. Per il suono c'erano dei furgoni di registrazione, ma il tecnico del suono della Fox che se ne occupava aveva dichiarato di poter garantire la sonorizzazione solo a patto che gli stendessimo un cavo dal fronte a Barcellona: così è chiaro che abbiam dovuto girare senza il suono! Quel che era davvero duro era il dover filmare, con la cinepresa in spalla, i compagni miliziani feriti, o morti. Io stesso sono stato ferito da schegge di cannonate a Siétamo... Quando, nel novembre 36, Durruti è andato a difendere Madrid con una parte della sua Colonna, son ritornato a vivere a Barcellona (2).

senza bisogno di capi

L'impresa di inventare, anche con la pellicola, un mondo nuovo trascina tutti e compie miracoli. Le varie prove maturano le capacità di operatori e registi. Attraverso Los aguiluchos de la Fai por tierras de Aragòn (tre reportages sulla presa di Bujalaroz, la lotta a Pina de Ebro e a Siétamo), La batalla de Farlete, Barcelona trabaja para el frente si mette a punto, oltre all'organizzazione tecnica, un modo di presentare gli avvenimenti, uno stile nel riprendere le situazioni e sottolineare problemi che mi pare diano un carattere particolare a questa produzione. Abbiamo visto, prima e poi centinaia di documentari di guerra, dalle personali interpretazioni di Ivens, alle notizie cinematografiche dei cinegiornali tedeschi (Ufa e Deutsche Wochenschau), dei Luce italiani, a quelle Pathé, Universal, Metro, ecc., per non parlare dei reportage televisivi di questi ultimi decenni: ma non mi pare che si siano raggiunti mai risultati come quelli che l'équipe della Sie (Adrien Porchet, Felix Marquet, Miguel Mutino come operatori, Juan Palleja come montatore) ottiene documenti come La columna de hierro, Division heroica, El cerco de Huesca. Tutto molto semplice, un racconto diretto, piacevole, essenziale, qualche enfasi di troppo nel commento (ma bisogna anche tener conto del momento). Sono i testi che dovrebbero essere proposti agli studenti di una qualsiasi scuola per operatori cinematografici (o televisivi) di attualità. Che cosa scegliere per raccontare storie che non sono travolgenti, che non sono scoop (certo non andrebbe bene a Mixer!), a volte non sono particolarmente drammatiche (la guerra è drammatica, ma la vita dei combattimenti è umana, quotidiana). Ma sono sempre commoventi, perché inducono a partecipare ai piccoli fatti di uomini impegnati a difendere le loro idee, la loro dignità, la loro individualità. Senza bisogno di capi, di strutture coercitive, di formale disciplina, di emblemi altri che la mitica bandiera rosso e nera. Queste caratteristiche, diciamo così, ideali, si possono ritrovare anche nella struttura formale del prodotto, potrebbe osservare il semiologo: preferenza per i campi lunghi, mancanza di enfasi nel montaggio, scarso uso nel commento della "connotazione", comunque sempre diretta, a differenza dell'abuso di quella indiretta di nazisti e fascisti. Un altro gruppo di documentari cerca invece una strada diversa, inserendo elementi narrativi a soggetto: si va da El frente y la retaguardia di Joaquin Giner, a En la brecha di Roman Quadreny (ma soggettisti di entrambi sono Roman Olivares e C. M. Baena), Bajo el signo libertario, di Les, coordinatore Juan Pallejà (che abbiamo visto montare in documentari precedenti), e infine La silla vacia diretto da Valentín R. Gonzales, fotografia di Felix Marquet. Dall'altra parte col passar del tempo i cineasti anarchici si rendono sempre meglio conto che il loro compito non è solo di documentare - anche se il documento del movimento rivoluzionario è una di quelle testimonianze irripetibili che vanno al di là del semplice servizio della registrazione, - ma di partecipare alla lotta con l'elaborazione di un racconto cinematografico, che deve aiutare a capire le ragioni della lotta, le caratteristiche degli ideali per cui ci si batte.

si respira fantasia

E sempre le riprese di attualità si evolvono in questi casi in documenti che non rifuggono da elementi costruttivi necessariamente (magari grossolanamente) a soggetto. Pensiamo agli agitkj sovietici del tempo della guerra civile, pensiamo ai documenti di Ivens (in cui è sempre ben presente la personalità e il pensiero dell'autore), per non dire poi del lavoro di Jean Renoir - è proprio di quegli anni - La vie est à nous, metà documento e metà costruito. È la caratteristica prima dei film "militanti". E questi che stiamo esaminando lo sono a pieno diritto: anzi sarebbe bene sottolineare la differenza sostanziale tra questi cine-tracts e le classiche pellicole di propaganda: fasciste, naziste, staliniste, grevi di banalità, ripetizioni, schematismi, artifici e in definitiva di menzogne. Qui invece, come in generale nei film militanti, si respira fantasia, c'è sforzo di ricerca, di invenzione: anche se spesso si rimane alle buone intenzioni, sincere ingenue, ma poco realizzate
Forse, dei film citati, quello più significativo, non tanto nel tema (un giovane ambizioso che alla vista di un ferito di ritorno dal fronte, si arruola volontario nelle milizie, e finisce per cadere in combattimento) quando nell'integrazione della recitazione di un attore (José Pal Latorre) con le riprese documentarie, è La silla vacia di Valentín R. Gonzalez. Quello che è singolare è che in effetti l'elemento di finzione, in apertura abbastanza vistoso (o forse non ben giustificato), scompare poi e tutta l'attenzione viene presa dal racconto documentario della lotta sul fronte d'Aragona.
Ricordiamo qualche cifra: gli anarchici di Barcellona realizzano 17 film sulla guerra nel 1936, 25 nel 1937 e 6 nel 1938, quelli di Madrid 4 nel '36 e 10 nel '37; a questi vanno aggiunte altre pellicole allora definite di propaganda: 7 a Barcellona e 2 a Madrid, tutte nel 1937; a queste Roman Gubern, aggiunge 4 pellicole di complemento sempre girate a Barcellona nel 1937. Queste cifre dimostrano la ricchezza e varietà di questa produzione prima che l'andamento della guerra e la politica governativa (e soprattutto quella comunista) non riducono sostanzialmente la presenza di questo campo degli anarchici: il consigliere dell'Economia della Generalità della Catalogna, il comunista Juan Comorera, decreta nel giugno 1937 che il dipartimento dei servizi pubblici (da cui dipende lo Spettacolo) cessa di essere autonomo e passa sotto il controllo del dipartimento dell'Economia; il 19 gennaio 1938 con un nuovo decreto decide la fine della socializzazione dei teatri e dei cinema. Un anno prima della vittoria finale di Franco la rivoluzione è già stata definitivamente liquidata. Nei due anni della loro rivoluzione gli anarchici riescono però a produrre settantacinque film più cinque lungometraggi a soggetto, di cui dobbiamo ancora occuparci.
Il passaggio a questa produzione comporta un curiosissimo mediometraggio (30 minuti) Nosotros somos asi! del già citato Valentín R. Gonzáles, realizzato al Laboratorio n.2 del Sie. Siamo su un palcoscenico in cui si esibisce un gruppo di bambini, è il gruppo infantile Sie.
Non si sa (il film non lo precisa) se siamo in un Ateneo dove si stimola la creatività dei fanciulli, con una parte che si esibisce davanti gli altri che fan gli spettatori. Quello che sorprende è per esempio il numero di una ragazzina visibilmente modellata su Shirley Temple che balla un tip tap indiavolato sopra una specie di tamburo (l'orchesta è la Demon's Jazz de Sie). Anche se la rivoluzione è già avvenuta, per i ragazzini non si sa bene che cosa dovrebbe significare: cantare e ballare e non studiare più matematica? Il film tira un po' avanti così, sembrerebbe girare un po' a vuoto (mi pare che proprio la tipica: il tempo non è più denaro, e per capire le cose ci vuol sempre il suo tempo); poi pian piano si fa luce la morale, anche questa in lenta evoluzione. C'è un bambino ricco, che vive in una bella casa con il pianoforte, che con i compagni con una certa superiorità e che si adatta a suonare con loro con una certa condiscendenza. Ma ecco che il padre viene accusato dal comitato rivoluzionario di essere un traditore e di fare il doppio gioco. Viene messa a soqquadro la sua casa e arrestato. Ma la solidarietà dei ragazzi va al di là delle severe regole rivoluzionarie. La giustizia non ha bisogno di crudeltà, e la verità può essere più complessa di quel che sembra. Meglio dei grandi queste cose capiscono i ragazzi, che non fanno mancare al loro compagno l'amicizia e l'appoggio anche materiale. Il ragazzo commosso si integra nella collettività e questo aiuterà anche il padre. "Così siamo noi, i rivoluzionari".
Operina curiosa, piena di contraddizioni, ingenuità, divagazioni. La morale è messa lì, senza troppe cerimonie, ma i tempi sono naturali, molte cose suggerite, senza neanche troppe preoccupazioni di efficacia. Ecco, è forse questo il tratto un po' insolito che ci colpisce, al confronto di tante pellicole, certamente più valide, ma ossessionate dall'efficacia immediata a tutti i costi, tipicamente comunista. (A parte che il pc spagnolo in quegli anni non si sogna neanche di affrontare film a soggetto; i cortometraggi raramente sono impegnati a una propaganda, a una "militanza" un po' più complessa e costruita: rimaniamo spesso a livello de Il compagno fucile - esemplare pellicola didattica sul funzionamento del fucile, analoga a quella fatta dal servizio dell'Esercito italiano, tanti anni prima sul "modello 91" - o di Por la unidad hacia la victoria di F.G. Mantilla, pure interessante come reportage sulla riunione plenaria del Comitato centrale del partito comunista, a Valenza, nel marzo 1937 con i discorsi di Diaz, Dolores Ibarruri, Camillo, Duclos, ecc., o di Nuovos amigo sulla visita ai pionieri sovietici ad Artek).

inclinazione al populismo

Passiamo ora ai lungometraggi a soggetto, che hanno una consistenza modesta: sia quantitativamente (5 in tutto), sia qualitativamente. Il più conosciuto è forse Aurora de esperanza. Vi si è messa al lavoro l'équipe del Sie che si è irrobustita nel lavoro documentario, con la direzione dell'esordiente Antonio Sau: ritroviamo Porchet, Marquet, Palleja. Vi si ritrova essenzialmente il populismo che è stata l'inclinazione più diffusa dell'anarchismo in campo letterario. Sono i tipici romanzi che piangono sulle sciagure del popolo, affamato, disoccupato, osteggiato, come quelli della madre Federica Montseny e che hanno fatto piangere e indignare generazioni letterarie; e in tutti c'è la promessa del riscatto, la prospettiva della speranza. Chissà perché non c'è un bel classico anarchico che vada oltre queste premesse e queste speranze per diventare un'autentica opera d'arte? Dello stesso stampo le non poche opere teatrali che hanno per decenni invaso i palcoscenici degli Atenei senza che anche in questo campo si facesse un passo avanti. Da questo punto di vista i due film drammatici che prendiamo in esame (l'altro è Barrios bajos) cercavano già di andare un po' oltre. Il cinema forse poteva essere davvero il linguaggio adatto per un'arte anarchica, come già lo era stato per il comunismo rivoluzionario sovietico. Dalla rivoluzione d'ottobre a Sciopero e Le straordinarie avventure di Mr. West, passano quasi sette anni. Al cinema delle Sie e del Friep (3) di Madrid, sono stati concessi solo pochi mesi.Aurora de esperanza è il tipico film non riuscito, pieno di suggerimenti, d'esordio, con tutta una serie di problemi, oltre che tematici di narrazione e di struttura cinematografica, posti, affrontati, ma non risolti. E non è poco. Ricordiamo ancora una volta qual era la situazione del cinema barcellonese all'epoca: poco più di 4 anni di produzione regolare di film sonori, - meno di una sessantina: lo stesso Buñuel, quando aveva voluto dimostrare il suo genio cinematografico, aveva dovuto andare a lavorare a Parigi.In queste condizioni Aurora de esperanza non è affatto un film minore: la prima parte, con la descrizione minuziosa prima di un ambiente operaio che aspira a un modesto benessere (la casa decorosa, persino le brevi vacanze), e poi del progressivo crollo di tutte le aspirazioni sotto i colpi implacabili della peste del secolo, la disoccupazione, richiama a un verismo abbastanza corretto, contenuto e pulito, con qualche caduta nella maniera e nel prevedibile, ma che non sfigura al confronto con tanti altri esempi di quel periodo, nel cinema francese, italiano, o americano: certo si sente l'imitazione. Poi nelle seconda parte e nel finale l'ispirazione cambia e si guarda piuttosto al cinema sovietico (o a quello tedesco immediatamente pre-hitleriano; Kuhle wampe, per esempio). L'ambizione è di raggiungere i toni epici: ma si rimane a metà; alcune scene non sono prive di efficacia, ma manca forse la piena convinzione. La soluzione - la rivoluzione - arriva un po' imprevista (anziché scontata). Oggi fa un po' sorridere che la sollevazione dei generali di Franco sia l'occasione per la soluzione dei problemi dei disoccupati. Forse nel '36 ci si badava di meno. O forse no: e infatti il film ebbe un successo limitato. Ma come soggetto di riflessione è ricchissimo di elementi e di spunti.Chiaramente Sau e i suoi collaboratori si sono messi a tavolino e han cercato di costruire la loro pellicola. Ma non han trovato l'ispirazione. Hanno imitato, correttamente, esempi più o meno validi: e han messo insieme uno spettacolo che, se non altro, rispecchia le incertezze, le aspirazioni, l'atmosfera piena di contraddizioni, inquietudine ed entusiasmo del momento. E' un primo esperimento, che pur restando assai al di qua di quanto si raggiunge nel campo del documentario, è coraggioso e pieno di insegnamenti. Con Barrios bajos il discorso è diverso. Certo meno ambizioso, il film di Pedro Puche sceglie decisamente l'imitazione dei film di bassifondi tipici del cinema francese del tempo. A parte qualche oscurità, e un troppo facile ottimismo (o pessimismo), muovendovi entro gli schemi del genere, opportunatamente adattato allo spirito del '37, il film è abbastanza compatto, narrato correttamente e non manca di interesse nella attenta descrizione del bar in cui si svolge la vicenda, e dei tipi che lo frequentano. Anche qui non si riesce a uscire dalle convenzioni del genere e lo spirito anarchico rimane nelle intenzioni e nella tesi della superiorità morale dei cosidetti reietti della società. Anche nella struttura il film risente dell'origine teatrale del testo, che aveva conosciuto un notevole successo sui palcoscenici di Barcellona.

qualcosa di nuovo

Comunque si ha la sensazione che anche i cineasti del Sie non siano molto convinti da queste prove. E l'attenzione dal melodramma si porta ad altri generi. A parte il discutibile esperimento di tradurre sullo schermo la commedia di Jacinto Benavente No quiero... no quiero! in cui blandamente si critca la grande borghesia, per opera di un regista non certo progressista come Francisco Elias (e si pensi che il film continua a essere proiettato nella Spagna franchista nel 1940 senza intralci!), ci sarebbe da occuparci di 2 film comici. Il primo, Nuestro culpable di Fernando Mignoni, prodotto a Madrid dalla Cnt, pare una commedia riuscita, coi toni leggeri e umoristici che ricordano René Clair, sulla semplicissima morale che i più grandi ladri difficilmente si trovano in prigione; messa in ridicolo dunque la morale borghese, con il rapitore che si fa giocare dall'amante del banchiere e finisce in prigione dove però, grazie al banchiere, fa una vita da gran signore. Alla fine però milioni e ladri s'involeranno per davvero! Pare, però, che la critica del tempo lo abbia stroncato per il tono allegro, poco adatto alla situazione drammatica del paese. E' un film che ci auguriamo di poter vedere al più presto, perché potrebbe fornire un contributo importante, e significativo, al nostro bilancio.L'altro, Paquete, el fotografo publico numero uno, scritto e diretto da Ignacio Farrés Iquino e prodotto dalla Fai è del 1938; durava una cinquantina di minuti e descriveva le peripezie di un fotografo ambulante che si serve di tutti i trucchi possibili per aumentare la sua clientela. Purtroppo non si è conservato e non si sa molto altro, salvo che anche grazie alla buona interpretazione degli attori, alla sua grazia e originalità, ebbe un notevole successo commerciale negli ultimi mesi della guerra. Ugualmente del 1938 è un altro documentario di montaggio Amancer sobre España, lungometraggio, (la copia incompleta della Filmoteca è di 45 minuti) prodotto dalla Sia (Solidaridad internacional antifascista) a Barcellona, diretto da Luis Frank e Juan Palleja. Sarebbe interessante paragonarlo a quelli del periodo più felice della produzione Sie.Neanche due anni, e l'entusiasmo del luglio del '36 è svanito: è scomparsa la speranza (non solo dell'aurora) concreta di mettere le basi di una nuova società, costruita sulla socializzazione, la collettivizzazioni del sindacato e delle comuni, in linea con le utopie del comunismo libertario. In questa disperazione (non è qui il momento di indicare le maggiori responsabilità del fallimento) anche il cinema anarchico, prima ancora di nascere, chiude i suoi esperimenti, le sue esperienze, i suoi tentativi, gli abbozzi che dovrebbe dagli vita. C'erano le premesse, le premesse di qualcosa di nuovo. L'unico canto vero di un modo di vivere, di amare, di essere felici e infelici, nuovo, libertario rimane (anch'esso senza domani) L'Atalante. Ancora Vigo, per finire.

1. Fai sta per Federacion Anarquista Ibérica (vedi N.S. n.11).
2. Citato in Cinéma et anarchie, Ginevra 1984.
3. Federacion regional de la industria cinematografica y de espectaculos publicos de la Cnt.

Paolo Gobetti: un ricordo

Sabato 25 novembre è morto a Torino Paolo Gobetti. Paolo nasce nella nostra città il 28 dicembre 1925 da Piero e Ada. Il padre è una delle più significative figure della cultura antifascista torinese, fondatore ed editore, tra l'altro, del periodico "Rivoluzione liberale" e collaboratore dell'"Ordine Nuovo" di Gramsci, duramente bastonato dai fascisti alla fine del '25 e morto in esilio a Parigi nel febbraio del '26.
Paolo non conosce dunque suo padre, ma cresce nell'ambiente di quella cultura politica del "socialismo liberale" (di cui Piero, appunto, è stato l'ispiratore primo) che, collegandosi con i movimenti emancipativi della classe operaia, sfocerà nel lavoro teorico-pratico di "Giustizia e Libertà" e nella costituzione delle bande partigiane "G.L.", cui il giovanissimo Paolo aderirà assieme alla madre, partecipando alla lotta armata in Val di Susa. L'esperienza partigiana segnerà fortemente tutta la sua vita: "Era quel momento di utopia che nella vita capita, appunto, una sola volta. Però se capita quella volta poi te lo ricordi per tutto il resto. Forse è quello che ti dà il senso a tutti i movimenti e agli anni successivi" (1).
Nell'immediato dopoguerra aderisce al PCI, diventando critico cinematografico dell'Unità di Torino, poi collaboratore di "Cinema Nuovo" e fondando infine nel 1959 "Il nuovo spettatore cnematografico". Nel 1956, l'anno della rivoluzione ungherese, aveva espresso pubblicamente il suo dissenso rispetto alle posizioni del PCI, votando contro la mozione congressuale del Partito e scrivendo la "Confessione di un critico comunista", in cui si affermava: "La libertà è la condizione prima della creazione artistica. Ma non solo la libertà dalla censura, la libertà dalle imposizioni dei produttori; soprattutto la libertà di pensare senza schemi, di rivedere continuamente le proprie opinioni, le proprie convinzioni confrontandole con l'infinità varietà e ricchezza della vita". Nel 1962, l'anno della "rivolta di Piazza Statuto", realizza "Scioperi a Torino", sulle lotte operaie alla Michelin, alla Lancia e alla Fiat, prima esperienza italiana di cinema militante (con la collaborazione di Franco Fortini, Goffredo Fofi, Sergio Liberovici): la macchina da presa è tenuta in spalla, il suono è registrato in presa diretta.
Nel 1966 fonda l'Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza (ANCR), che raccoglie documenti cinematografici sull'antifascismo e sulla resistenza italiana ed europea, materialmente salvando immagini di enorme valore documentario (tra cui l'unico filmato esistente di Malatesta e il discorso di Duccio Galimberti a Paralup, Valle Stura, Cuneo, "culla" di uno dei primissimi nuclei partigiani). In quest'ambito nascono i filmati "Lotta partigiana" del 1975, "Prime bande" del 1983, "Racconto interrotto" del 1992, ritratto del padre Piero.
In occasione della Biennale di Venezia del 1976, avvia ricerche e lavori sulla rivoluzione spagnola, che lo avvicinano all'esperienza e alla storia del movimento anarchico. Sarà questo per Paolo un incontro decisamente significativo: la "rivoluzione spagnola (...): quel momento culminante in cui la fedeltà agli ideali (...) Non viene a patti, a compromessi, non si piega alle esigenze ignobili della 'ragion di stato', e dà quella che è forse la lezione più bella di tutta la storia del nostro secolo" (2).
Dall'incontro con la storia dell'anarchismo spagnolo nasceranno i video "L'esperienza delle collettività anarchiche spagnole" e "Gli anarchici italiani in Spagna tra guerra e rivoluzione" (quest'ultimo in collaborazione con Claudio Venza e col Centro Studi Libertari), realizzati sulla base di ben quattrocento ore di interviste in video a militanti anarchici italiani e spagnoli, oggi in gran parte scomparsi.
Si tratta in un fondamentale patrimonio della memoria storica del movimento anarchico. La disponibilità di Paolo verso di noi si è del resto manifestata in molte occasioni: presenza in convegni e dibattiti, collaborazione alla realizzazione di mostre e rassegne video (con prestito di preziosi materiali).
Lo ricordiamo come un uomo libero, come il compagno che, fuori ed oltre i vincoli del ruolo e dell'ufficialità, sapeva entrare in un rapporto autentico con gli interlocutori più diversi, dai vecchi militanti ai giovani dei centri sociali.
Paolo è sepolto in montagna, la montagna delle sue passioni: la lotta partigiana e l'alpinismo. Come ha scritto nell'83: "E' difficile descrivere la gioia di trovarsi in giro per le montagne; con un fucile in mano, in un mondo in cui non esiste più un'organizzazione statale, in cui non esiste più il potere (che è sempre degli altri), (...) Ti senti vicino ad altri giovani che credono come te alla possibilità di costruire qualcosa che vada meglio, che istituzionalizzi la mancanza di potere" (3).

I compagni del Circolo "C. Berneri" di Torino

1) P. Gobetti, L'Utopia, in "Il nuovo spettatore. Le prime bande", Torino, 1983, p. 83
2) P. Gobetti, Presentazione a U. Tommasini, l'anarchico triestino, Milano, ed. Antistato, 1984, p.8
3) P. Gobetti, Prefazione a Le prime bande, cit., p.10