Rivista Anarchica Online
Clero che non merita il cloro
di Pino Cacucci
Non c'è solo il Vaticano. Ci sono anche sacerdoti (soprattutto in America Latina) sulla cui condotta umana Pino
Cacucci
invita a discutere. E allora discutiamone.
Ho sempre considerato il nostro anticlericalismo come un sano antidoto ai concetti di
gerarchia, obbedianza cieca,
rassegnazione, mentre l'istintiva rivolta al concetto di «religione», se intesa come fede che fornisce speranze a chi ha ben
poco da perdere, ammetto che ha subito notevoli «attenuazioni» da quando ho cominciato a conoscere di persona uomini
e donne che, professandola, dimostrano nella pratica quotidiana di meritare rispetto e non rifiuto precostituito. Mi riferisco
soprattutto a certi sacerdoti latinoamericani (e a qualche raro caso europeo), sulla cui condotta umana credo sia giusto
continuare a discuterne all'interno del movimento anarchico. Lasciamo subito da parte la questione della fede, che
comunque non andrebbe affrontata con superficiali assolutismi, e per la quale, oggi, la vecchia asserzione «oppio dei
popoli» comincia a suonare superata, dato che imperano lavaggi del cervello ancor più efficaci (la televisione,
allora,
dovrebbe fare le funzioni alternativamente di roipnol e prozac, al cui confronto l'oppio risulta un piacevole passatempo).
Mi riferisco invece agli uomini e donne di quella «chiesa dei poveri» che per il Vaticano del Grande Ipocrita polacco sono
nemici peggiori di qualsiasi altro, tanto che Wojtyla, nonostante i rifacimenti di facciata recenti, ha dedicato l'intero
mandato papale a denigrarla, attaccarla, smantellarla e disperderla. Se avere un avversario comune (il Vaticano) non
è
sufficiente per essere automaticamente «alleati», credo però valga la pena approfondire l'argomento. Nelle
recenti chiacchierate in pubblico, Diego Camacho - Abel Paz ha spesso sottolineato un aspetto del film Tierra y
Libertad (per carità, ne abbiamo parlato anche troppo, il mio è solo un esempio), quando i miliziani
fucilano il prete
fascista: «Lo uccidono perché ha sparato sui compagni, perché era un delatore, e non in quanto prete»
afferma Diego, «e
la propaganda reazionaria ci ha dipinto come assassini di preti e suore, evitando di raccontare quali crimini avessero
commesso prima di finire come sono finiti. Ma c'erano anche preti ben diversi, che noi anarchici rispettavamo...» E infatti,
la storia riscritta a uso e consumo dei vincitori, fascisti e stalinisti che fossero, si è sempre guadata dal raccontare
come
il Vaticano avversasse ferocemente quei sacerdoti, soprattutto dei Paesi Baschi, che si schierarono con i contadini e gli
operai contro le oligarchie e i militari. Preti che vennero uccisi dai franchisti, ma dei quali Roma non vuole neppure
ricordare il nome. Certo furono un'infima minoranza, di fronte al clero spagnolo che avallò e fomentò
repressioni e
persecuzioni prima, durante e dopo la guerra, ma non per questo vanno dimenticati. Per ignorarne l'esistenza, Pio XII
ricevette tremila falangisti in udienza solenne, sancendo ufficialmente da che parte stesse la sua Chiesa, mentre Wojtyla
si è prodigato a «beatificare» preti e suore «vittime degli eccessi repubblicani»: il primo benediceva i cannoni di
Mussolini,
e il secondo è andato a Santiago del Cile per abbracciare pubblicamente Pinochet. Ma veniamo a tempi
più vicini e a terre più lontane. La valanga di luoghi comuni che ha travolto la vera memoria del 68,
dimentica cosa sia stato il «68 della Chiesa», cioè quel Concilio Vaticano II voluto da un papa anomalo, Giovanni
XXIII,
che «spalancò le finestre e fece irrompere aria nuova», a detta di alcuni vescovi e cardinali che avrebbero, da
lì in avanti,
aperto la strada alla cosiddetta Teologia della Liberazione. Contemporaneamente, dovrebbero farci riflettere certe
asserzioni, come quella del reazionario cardinale Ottaviani, a capo
degli integralisti, che dichiarò: «Preferirei morire prima della fine del Concilio, perché solo così
morirei come cardinale
della Santa Chiesa Romana e non come funzionario di una Chiesa filocomunista!» Ovviamente, il vecchio Ottaviani usava
la parola «comunismo» allo stesso modo in cui certi utili idioti dell'odierno politicantame dicono «anarchia» intendendo
caos e disordine...
Cristiani di base
Dopo Giovanni XXIII, ben poco sarebbe rimasto in piedi delle iniziali spinte prodotte dal Concilio Vaticano II in
Europa,
ma molto avrebbe attecchito invece nell'America Latina. Aver sancito che la ribellione contro l'oppressione e lo
sfruttamento è giusta e condivisibile, portò alcuni sacerdoti al passo estremo di impugnare le armi contro
dittature e
oligarchie. Il sacerdote Camilo Torres, in Colombia, si unì alla guerriglia quando capì che all'orrore non
si può rispondere
offrendo l'altra guancia, e affermava: «Sappiamo che la fame è mortale, e se lo sappiamo, ha senso perdere tempo
a
discutere se l'anima è immortale?» Finì ammazzato dall'esercito, combattendo per un ideale per lui
identificabile nel vero
cristianesimo, e che, sicuramente, rifiutava l'autoritarismo in ogni sua forma. Ecco il punto: se tra le molteplici insurrezioni
e guerriglie latinoamericane della seconda metà del secolo, alcune hanno avuto connotati, almeno iniziali, di indole
libertaria e antiautoritaria, lo si deve non solo all'apporto di militanti coscienti e avversi ai vari partiti comunisti, ma anche
(o soprattutto) alla presenza di cristiani di base, o come li si voglia definire, che hanno contribuito a contrastare l'attrazione
totalitaria, i vagheggiamenti della «dittatura del proletariato», i dogmi importati da Mosca senza chiedersi quanto fosse
diversa la realtà in cui li si voleva trapiantare e applicare. Lo stesso fu per il sandinismo nicaraguense: c'erano
settori del
Frente apertamente marxisti-leninisti, ma altri (e a loro è dovuta l'indubbia apertura dei primi tempi) che si
rifacevano al
cristianesimo e contrastavano le involuzioni autoritarie. Non a caso, nel suo scellerato viaggio a Managua, Karol Wojtyla
per prima cosa sospese a divinis Ernesto Cardenal, sacerdote, poeta, e ministro della cultura, senza perdere tempo, al punto
che lo «bollò» davanti a tutti nello stesso aeroporto Augusto Sandino, appena messo piede a terra. Poi,
andò in piazza, dove
migliaia di madri chiedevano una parola in ricordo dei figli uccisi dai mercenari finanziati dagli Stati Uniti, e Wojtyla, da
despota sordo e cieco, urlò quel «Callense!» (state zitte!) che mise fine burrascosamente alla sua «visita pastorale»
in
Nicaragua. Ho conosciuto Cardenal, e ho scoperto in lui un libertario di rara sensibilità umana e politica. La
comunità
dell'isola di Solentiname, di cui è stato promotore e strenuo difensore, si basava sui principi «da ciascuno secondo
le sue
possibilità e a ciascuno secondo i suoi bisogni». Se al Nicaragua fosse stato lasciato il tempo di scegliere la propria
strada,
senza l'aggressione militare ed economica di cui è stato vittima, sono convinto che persone come lui (tante)
avrebbero
imposto un cammino ben diverso al sandinismo, evitandogli le condizioni di sbandamento e lotte intestine in cui versa.
Facile giudicare con il senno del poi, certo. Ma anche il movimento anarchico dovrebbe riflettere in modo più
approfondito
su cosa sia stato il fenomeno sandinista ai suoi albori. Mai, prima, in America Latina una rivoluzione è stata
così vicina
agli ideali libertari (con l'eccezione di alcuni aspetti della rivoluzione messicana), e con tante similitudini con la Spagna
pre-guerra civile, quella delle comuni agricole, che cercava di cambiare non un governo o le sole condizioni economiche,
ma i rapporti tra gli esseri umani, sognando l'avvento di quello che il sandinismo definiva El Hombre Nuevo, così
come
Durruti parlava del «mondo nuovo che ci portiamo nel cuore». Ho conosciuto quel Nicaragua, e vedendo come sia ridotto
oggi, rimpiango il molto che, allora, era ancora possibile fare. Fu l'unico paese a mettere in discussione la
«necessità del
carcere», trasformando le prigioni in fattorie aperte, gestite come cooperative dove i semi-detenuti si dividevano il ricavato
dei lavori, e mi capitò spesso di vedere folti gruppi di «condannati» andare a fare il bagno nel Gran Lago,
accompagnati
da una sola guardia, e disarmata. Del resto, la prima misura presa dal «governo di ricostruzione» fu l'abolizione non solo
della pena di morte, ma anche dell'ergastolo, introducendo misure che avrebbero comunque ridotto enormemente l'uso
di celle e sbarre. Certo, allo stesso tempo, c'erano i giovanotti tornati dalla Germania Est, i funzionari istruiti alla becera
scuola di Honecker, pronti a «depurare» le Brigate Internazionali (composte principalmente da latinoamericani, come la
Simón Bolívar, ma anche da europei) dagli «elementi anarchici e trotzkisti, avventurieri e irresponsabili»,
secondo una
versione aggiornata dell'editto della Pravda 1937. Erano i militanti «comunisti» rimasti al riparo quando gli altri si facevano
ammazzare sulle montagne, rientrati per «rimettere le cose a posto», nei quali riponevano tutte le loro speranze i partiti
comunisti delle due Europe. Ma se non ebbero vita facile, fu grazie all'unione di intenti tra libertari laici e preti militanti,
come quei giornalisti del Nuevo Diario, pronti a denunciare senza peli sulla lingua, a mettere sempre in piazza ogni stortura,
e nella cui redazione ricordo di aver visto uno strano quadro: raffigurava un Gesù Cristo con lo sguardo fiero, il
fucile in
spalla e la cartucciera a tracolla. Erano i dettagli che facevano imbestialire Wojtyla esattamente quanto le messe
«politiche»
di certi sacerdoti creavano problemi ai giovanotti venuti dall'Est: in un barrio di Managua, c'era un prete che aveva
costruito il suo altare con il lastricato delle strade divelto nei giorni dell'insurrezione contro Somoza, a ricordo delle vittime
e come monito ai nuovi pretendenti al trono. In quelle messe, i contadini si sentivano invitare a non abbassare la guardia
sia verso i carnefici di ieri che verso gli autoritarismi del presente. E non dimentichiamoci che, nelle elezioni in cui i
sandinisti sono stati sconfitti, il minuscolo Partito Comunista Nicaraguense si è presentato con il «polo» di centro
destra,
la UNO di Violeta Chamorro, un particolare che la dice lunga al riguardo... Passando a un altro esempio, il Salvador,
sappiamo bene quali nefandezze siano avvenute nel nome della rivoluzione, facendo rivoltare nella tomba il povero
Farabundo Martí, che certo fu attratto dalla sirena moscovita, ma prima di morire, mise per iscritto tutta la sua
amarezza
per come il Comintern si comportò con Sandino, avversandolo e definendolo «caudillo e lacché
dell'imperialismo», tutto
perché il rivoluzionario nicaraguense non solo prese le distanze dallo stalinismo, ma addirittura arrivò allo
scontro armato
con alcuni dei suoi agenti. All'interno dell'FMLN salvadoregno ci sono stati gli artefici dell'assassinio del poeta e
combattente rivoluzionario Roque Dalton, e a poco servirebbe come scusante il fatto che, sembra, siano caduti in una
trappola architettata dalla CIA, che fece loro credere di aver corrotto Dalton inducendolo al doppio gioco. La pratica
dell'eliminazione fisica dei sospetti «traditori» pesa come una macchia indelebile sulla loro storia. Ma questo non deve
offuscare quella parte dell'opposizione armata alla dittatura (camuffata da democrazia con tanto di elezioni farsa) che in
Salvador ha mantenuto connotati libertari, quasi sempre legati al cristianesimo di base e alla Teologia della Liberazione.
Il vescovo Oscar Arnulfo Romero, scelto dal Vaticano proprio su richiesta dell'oligarchia salvadoregna, che lo considerava
un prelato malleabile e disposto a chiudere entrambi gli occhi, ebbe il coraggio di sfidare così apertamente il
governo di
Napoleón Duarte (Democrazia Cristiana, il suo partito), denunciandone i crimini, che i sicari del maggiore
D'Aubuisson
dovettero porre rimedio all'errore sparandogli al cuore mentre diceva messa. E in seguito, i militari avrebbero fatto strage
dei gesuiti docenti dell'Universidad Centro Americana di San Salvador, ravvisando in essi una fonte di sovversione
intollerabile. Dal loro punto di vista avevano concrete motivazioni: nelle file dell'FMLN combattevano anche sacerdoti,
come ad esempio il padre Rogelio Ponseele.
In Chiapas
Un elenco di preti e suore assassinati in America Latina perché hanno minacciato i privilegi delle oligarchie
e gli interessi
di Washington, sarebbe immensamente lungo. Quella che è stata ribattezzata «la Chiesa dei martiri» non voleva
essere il
vero argomento di questa riflessione, bensì la necessità di confrontarci sul perché cristianesimo
e spirito antiautoritario,
in quelle terre, si muovano insieme perseguendo fini comuni. Arrivando al Messico, e all'insurrezione del Chiapas, i
connotati libertari del neozapatismo sono dovuti soprattutto a ciò che Emiliano Zapata ha rappresentato nella storia
e
tentato di portare a termine a prezzo della sua vita. Ma non possiamo ignorare l'apporto dei tanti catechisti sconosciuti,
inviati nelle comunità dalla diocesi di San Cristóbal retta da Samuel Ruiz, alla diffusione di una coscienza
divenuta oggi
inarrestabile. Da quando la chiesa del Chiapas (non tutta, ma la maggioranza) ha smesso di propagandare la rassegnazione,
giustificando e avallando la ribellione quando la dignità viene negata, e addirittura promuovendola quando il potere
è sordo
e i latifondisti ricorrono agli eserciti privati per strappare le terre ai contadini, allora è cominciato a sorgere un
fenomeno
che avrebbe assunto proporzioni straordinariamente vaste. Intendiamoci, gli indios in questi cinque secoli si sono ribellati
innumerevoli volte, e la Chiesa non li difendeva di certo, ma solo adesso, che l'altra chiesa, quella in aperto contrasto con
le gerarchie romane, dà loro sostegno in ogni senso, hanno finalmente trovato un'unità da sempre cercata
e mai ottenuta.
E il Vaticano, a conferma del fatto che non si può mai, parlando della realtà latinoamericana, considerare
il mondo cattolico
univoco e uniforme, scatena i suoi «generali» contro i ribelli al Nuovo Ordine Mondiale. Il nunzio apostolico Girolamo
Prigione arrivò a Città del Messico dopo una fruttuosa carriera presso le più sanguinarie dittature
latinoamericane, alle quali
aveva sempre fornito colpevole silenzio o addirittura aperto appoggio, e fin dall'inizio del suo nuovo incarico si sarebbe
dedicato ossessivamente a perseguitare Samuel Ruiz chiedendone la rimozione. Solo le mobilitazioni di massa degli indios
chiapanechi hanno costretto il Vaticano a recedere dai consigli di monsignor Prigione. Ma vale la pena spendere qualche
parola per definire meglio la figura di questo campione del papato. Per esempio, nel 1974 venne mandato in Ghana,
probabilmente uno dei ricordi peggiori della sua brillante carriera: il governo del paese africano avrebbe finito per
dichiararlo «persona non grata» dopo averlo accusato di traffico di valuta e contrabbando di avorio. Un'altra macchia
infamante, il cardinale nativo di Castellazzo Bormida l'avrebbe rimediata nel 1985, poco dopo il devastante terremoto di
Città del Messico: trafugamento di una grossa somma in dollari inviata dai cattolici di New York per le vittime
del sisma.
Secondo una ricostruzione della rivista Impacto, pubblicata nel marzo del 1991, Girolamo Prigione aveva utilizzato padre
Kurgoz, noto per i suoi legami «lavorativi» con la CIA, depositando 170.000 dollari in un conto segreto negli Stati Uniti.
Del Messico dice «Qui mi trovo benissimo, e non ho alcuna intenzione di andarmene», ma da qualche tempo Prigione deve
fare i conti con i problemi che gli creano i giornalisti, per lui ben più pericolosi dei fastidi provocati dai diseredati.
Il colpo
più duro glielo hanno inferto pubblicando la notizia di un suo incontro segreto con i fratelli Arellano Felix, potenti
boss
del Cartello di Guadalajara, che si sarebbero recati addirittura nella sua residenza privata, nonostante fossero i
narcotrafficanti più ricercati del paese. Prigione non ha potuto smentire, e con innocente candore ha dichiarato:
«Volevano
confessarsi, non potevo certo rifiutarmi...» Gli Arellano Felix, per inciso, sono accusati dell'omicidio di Juan Jesus Posada
Ocampo, il cardinale di Guadalajara crivellato di pallottole all'aeroporto e la cui valigetta è misteriosamente
scomparsa
dall'auto. Il settimanale Proceso del 17 ottobre ha pubblicato una circostanziata ricostruzione del suo attivismo in campo
economico: il nunzio sarebbe stato addirittura il consigliere finanziario del magnate Carlos Cabal Peniche riguardo le sue
piantagioni di banane, che Prigione perlustrava in elicottero privato: anche adesso che Cabal Peniche è finito in
galera per
bancarotta fraudolenta, il Vaticano continua a tacere. Intanto, Girolamo Prigione, con l'arroganza usuale, rilascia
dichiarazioni contro «quei vescovi che confondono la teologia con la lotta di classe». Rispetto a certe «confusioni»,
Samuel
Ruiz si è preso una divertente rivincita durante un'assemblea episcopale: leggendo un documento della sua
commissione,
aveva posto particolare enfasi su un preciso passo che riguardava gli sfruttati e gli emarginati, causando la bocciatura di
molti altri vescovi che lo avevano ritenuto «sovversivo». A quel punto, don Samuel ha rivelato che si trattava di una
citazione del profeta Isaia dal Vecchio Testamento. Per le gerarchie reazionarie, persino i vangeli andrebbero censurati.
Dunque, essendo Ruiz un vescovo e Prigione un nunzio, e conoscendone i rispettivi comportamenti, sarebbe
quantomeno
miope considerarli entrambi come due esponenti di una gerarchia da avversare in blocco. Le diversità e le
distinzioni
andrebbero sempre colte e approfondite. Generalizzare, dovrebbe rimanere una prerogativa dell'autoritarismo. E nel
variegatissimo «universo clero», ci sono molti
individui degni di attenzione e rispetto, anche, ma non solo, perché essi stessi sono avversi al dispotismo del
Vaticano.
Stop Malathion!
La presente denuncia è diretta alla Commissione Nazionale dei Diritti Umani, ai gruppi ecologisti, ai mezzi
di
comunicazione, ai Partecipanti al Dialogo per la Pace e, principalmente, ai deputati Convenzionalisti affinchè
ciascuno
dalla propria tribuna denunci l'avvelenamento che la Segreteria dell'Agricoltura, Allevamento e Sviluppo Rurale sta
operando nella Selva Lacandona. Tiempo non ha altra forma che questa di estendere la denuncia
perchè se ne facciano
immediatamente carico, poichè ogni giorno che passa si aggrava la situazione. Da più di cinque mesi si
è scoperto che nella
Foresta Lacandona si stava spandendo per via aerea e terrestre Malathion, in quantità indiscriminate
e senza controllo.
Questo pesticida produce serie infermità agli esseri umani, tra queste il cancro. In agosto di quest'anno la Sagdr
dichiarò
in "quarantena per sei mesi" nove municipi del Chiapas, tra la zona nord, la foresta e la frontiera, proibendo il trasporto
di frutta, con il prestesto dell'apparizione della mosca del Mediterraneo. Nessuna istituzione ha valutato l'impatto e i danni
che sta causando sull'ambiente e gli abitanti della foresta l'intossicazione che sta operando il governo messicano con
l'appoggio del Dipartimento dell'Agricoltura degli Stati Uniti. Questa è una supplica ed allo stesso tempo un'allerta
perchè
si sospenda immediatamente questo metodi di eliminazione della mosca Mediterranea nella Selva Lacandona, dato che
già
da tempo si sta utilizzando il metodo delle mosche sterili per controllarne la diffusione. L'impatto dannoso del
Malathion
è già ben noto, per cui non siamo noi quelli che devono provarlo. Le autorità sanitarie ed
ecologiche devono garantirci che
non si continuerà a combattere questo flagello a prezzo della vita degli abitanti della foresta.
Tratto dal quotidiano ribelle Tiempo del 18 novembre 1995, San Cristobal de las Casas, Chiapas,
Messico.
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