Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 26 nr. 224
febbraio 1996


Rivista Anarchica Online

Clero che non merita il cloro
di Pino Cacucci

Non c'è solo il Vaticano. Ci sono anche sacerdoti (soprattutto in America Latina) sulla cui condotta umana Pino Cacucci invita a discutere. E allora discutiamone.

Ho sempre considerato il nostro anticlericalismo come un sano antidoto ai concetti di gerarchia, obbedianza cieca, rassegnazione, mentre l'istintiva rivolta al concetto di «religione», se intesa come fede che fornisce speranze a chi ha ben poco da perdere, ammetto che ha subito notevoli «attenuazioni» da quando ho cominciato a conoscere di persona uomini e donne che, professandola, dimostrano nella pratica quotidiana di meritare rispetto e non rifiuto precostituito. Mi riferisco soprattutto a certi sacerdoti latinoamericani (e a qualche raro caso europeo), sulla cui condotta umana credo sia giusto continuare a discuterne all'interno del movimento anarchico. Lasciamo subito da parte la questione della fede, che comunque non andrebbe affrontata con superficiali assolutismi, e per la quale, oggi, la vecchia asserzione «oppio dei popoli» comincia a suonare superata, dato che imperano lavaggi del cervello ancor più efficaci (la televisione, allora, dovrebbe fare le funzioni alternativamente di roipnol e prozac, al cui confronto l'oppio risulta un piacevole passatempo). Mi riferisco invece agli uomini e donne di quella «chiesa dei poveri» che per il Vaticano del Grande Ipocrita polacco sono nemici peggiori di qualsiasi altro, tanto che Wojtyla, nonostante i rifacimenti di facciata recenti, ha dedicato l'intero mandato papale a denigrarla, attaccarla, smantellarla e disperderla. Se avere un avversario comune (il Vaticano) non è sufficiente per essere automaticamente «alleati», credo però valga la pena approfondire l'argomento.
Nelle recenti chiacchierate in pubblico, Diego Camacho - Abel Paz ha spesso sottolineato un aspetto del film Tierra y Libertad (per carità, ne abbiamo parlato anche troppo, il mio è solo un esempio), quando i miliziani fucilano il prete fascista: «Lo uccidono perché ha sparato sui compagni, perché era un delatore, e non in quanto prete» afferma Diego, «e la propaganda reazionaria ci ha dipinto come assassini di preti e suore, evitando di raccontare quali crimini avessero commesso prima di finire come sono finiti. Ma c'erano anche preti ben diversi, che noi anarchici rispettavamo...» E infatti, la storia riscritta a uso e consumo dei vincitori, fascisti e stalinisti che fossero, si è sempre guadata dal raccontare come il Vaticano avversasse ferocemente quei sacerdoti, soprattutto dei Paesi Baschi, che si schierarono con i contadini e gli operai contro le oligarchie e i militari. Preti che vennero uccisi dai franchisti, ma dei quali Roma non vuole neppure ricordare il nome. Certo furono un'infima minoranza, di fronte al clero spagnolo che avallò e fomentò repressioni e persecuzioni prima, durante e dopo la guerra, ma non per questo vanno dimenticati. Per ignorarne l'esistenza, Pio XII ricevette tremila falangisti in udienza solenne, sancendo ufficialmente da che parte stesse la sua Chiesa, mentre Wojtyla si è prodigato a «beatificare» preti e suore «vittime degli eccessi repubblicani»: il primo benediceva i cannoni di Mussolini, e il secondo è andato a Santiago del Cile per abbracciare pubblicamente Pinochet.
Ma veniamo a tempi più vicini e a terre più lontane. La valanga di luoghi comuni che ha travolto la vera memoria del 68, dimentica cosa sia stato il «68 della Chiesa», cioè quel Concilio Vaticano II voluto da un papa anomalo, Giovanni XXIII, che «spalancò le finestre e fece irrompere aria nuova», a detta di alcuni vescovi e cardinali che avrebbero, da lì in avanti, aperto la strada alla cosiddetta Teologia della Liberazione.
Contemporaneamente, dovrebbero farci riflettere certe asserzioni, come quella del reazionario cardinale Ottaviani, a capo degli integralisti, che dichiarò: «Preferirei morire prima della fine del Concilio, perché solo così morirei come cardinale della Santa Chiesa Romana e non come funzionario di una Chiesa filocomunista!» Ovviamente, il vecchio Ottaviani usava la parola «comunismo» allo stesso modo in cui certi utili idioti dell'odierno politicantame dicono «anarchia» intendendo caos e disordine...

Cristiani di base

Dopo Giovanni XXIII, ben poco sarebbe rimasto in piedi delle iniziali spinte prodotte dal Concilio Vaticano II in Europa, ma molto avrebbe attecchito invece nell'America Latina. Aver sancito che la ribellione contro l'oppressione e lo sfruttamento è giusta e condivisibile, portò alcuni sacerdoti al passo estremo di impugnare le armi contro dittature e oligarchie. Il sacerdote Camilo Torres, in Colombia, si unì alla guerriglia quando capì che all'orrore non si può rispondere offrendo l'altra guancia, e affermava: «Sappiamo che la fame è mortale, e se lo sappiamo, ha senso perdere tempo a discutere se l'anima è immortale?» Finì ammazzato dall'esercito, combattendo per un ideale per lui identificabile nel vero cristianesimo, e che, sicuramente, rifiutava l'autoritarismo in ogni sua forma. Ecco il punto: se tra le molteplici insurrezioni e guerriglie latinoamericane della seconda metà del secolo, alcune hanno avuto connotati, almeno iniziali, di indole libertaria e antiautoritaria, lo si deve non solo all'apporto di militanti coscienti e avversi ai vari partiti comunisti, ma anche (o soprattutto) alla presenza di cristiani di base, o come li si voglia definire, che hanno contribuito a contrastare l'attrazione totalitaria, i vagheggiamenti della «dittatura del proletariato», i dogmi importati da Mosca senza chiedersi quanto fosse diversa la realtà in cui li si voleva trapiantare e applicare. Lo stesso fu per il sandinismo nicaraguense: c'erano settori del Frente apertamente marxisti-leninisti, ma altri (e a loro è dovuta l'indubbia apertura dei primi tempi) che si rifacevano al cristianesimo e contrastavano le involuzioni autoritarie. Non a caso, nel suo scellerato viaggio a Managua, Karol Wojtyla per prima cosa sospese a divinis Ernesto Cardenal, sacerdote, poeta, e ministro della cultura, senza perdere tempo, al punto che lo «bollò» davanti a tutti nello stesso aeroporto Augusto Sandino, appena messo piede a terra. Poi, andò in piazza, dove migliaia di madri chiedevano una parola in ricordo dei figli uccisi dai mercenari finanziati dagli Stati Uniti, e Wojtyla, da despota sordo e cieco, urlò quel «Callense!» (state zitte!) che mise fine burrascosamente alla sua «visita pastorale» in Nicaragua. Ho conosciuto Cardenal, e ho scoperto in lui un libertario di rara sensibilità umana e politica. La comunità dell'isola di Solentiname, di cui è stato promotore e strenuo difensore, si basava sui principi «da ciascuno secondo le sue possibilità e a ciascuno secondo i suoi bisogni». Se al Nicaragua fosse stato lasciato il tempo di scegliere la propria strada, senza l'aggressione militare ed economica di cui è stato vittima, sono convinto che persone come lui (tante) avrebbero imposto un cammino ben diverso al sandinismo, evitandogli le condizioni di sbandamento e lotte intestine in cui versa. Facile giudicare con il senno del poi, certo. Ma anche il movimento anarchico dovrebbe riflettere in modo più approfondito su cosa sia stato il fenomeno sandinista ai suoi albori. Mai, prima, in America Latina una rivoluzione è stata così vicina agli ideali libertari (con l'eccezione di alcuni aspetti della rivoluzione messicana), e con tante similitudini con la Spagna pre-guerra civile, quella delle comuni agricole, che cercava di cambiare non un governo o le sole condizioni economiche, ma i rapporti tra gli esseri umani, sognando l'avvento di quello che il sandinismo definiva El Hombre Nuevo, così come Durruti parlava del «mondo nuovo che ci portiamo nel cuore». Ho conosciuto quel Nicaragua, e vedendo come sia ridotto oggi, rimpiango il molto che, allora, era ancora possibile fare. Fu l'unico paese a mettere in discussione la «necessità del carcere», trasformando le prigioni in fattorie aperte, gestite come cooperative dove i semi-detenuti si dividevano il ricavato dei lavori, e mi capitò spesso di vedere folti gruppi di «condannati» andare a fare il bagno nel Gran Lago, accompagnati da una sola guardia, e disarmata. Del resto, la prima misura presa dal «governo di ricostruzione» fu l'abolizione non solo della pena di morte, ma anche dell'ergastolo, introducendo misure che avrebbero comunque ridotto enormemente l'uso di celle e sbarre. Certo, allo stesso tempo, c'erano i giovanotti tornati dalla Germania Est, i funzionari istruiti alla becera scuola di Honecker, pronti a «depurare» le Brigate Internazionali (composte principalmente da latinoamericani, come la Simón Bolívar, ma anche da europei) dagli «elementi anarchici e trotzkisti, avventurieri e irresponsabili», secondo una versione aggiornata dell'editto della Pravda 1937. Erano i militanti «comunisti» rimasti al riparo quando gli altri si facevano ammazzare sulle montagne, rientrati per «rimettere le cose a posto», nei quali riponevano tutte le loro speranze i partiti comunisti delle due Europe. Ma se non ebbero vita facile, fu grazie all'unione di intenti tra libertari laici e preti militanti, come quei giornalisti del Nuevo Diario, pronti a denunciare senza peli sulla lingua, a mettere sempre in piazza ogni stortura, e nella cui redazione ricordo di aver visto uno strano quadro: raffigurava un Gesù Cristo con lo sguardo fiero, il fucile in spalla e la cartucciera a tracolla. Erano i dettagli che facevano imbestialire Wojtyla esattamente quanto le messe «politiche» di certi sacerdoti creavano problemi ai giovanotti venuti dall'Est: in un barrio di Managua, c'era un prete che aveva costruito il suo altare con il lastricato delle strade divelto nei giorni dell'insurrezione contro Somoza, a ricordo delle vittime e come monito ai nuovi pretendenti al trono. In quelle messe, i contadini si sentivano invitare a non abbassare la guardia sia verso i carnefici di ieri che verso gli autoritarismi del presente. E non dimentichiamoci che, nelle elezioni in cui i sandinisti sono stati sconfitti, il minuscolo Partito Comunista Nicaraguense si è presentato con il «polo» di centro destra, la UNO di Violeta Chamorro, un particolare che la dice lunga al riguardo... Passando a un altro esempio, il Salvador, sappiamo bene quali nefandezze siano avvenute nel nome della rivoluzione, facendo rivoltare nella tomba il povero Farabundo Martí, che certo fu attratto dalla sirena moscovita, ma prima di morire, mise per iscritto tutta la sua amarezza per come il Comintern si comportò con Sandino, avversandolo e definendolo «caudillo e lacché dell'imperialismo», tutto perché il rivoluzionario nicaraguense non solo prese le distanze dallo stalinismo, ma addirittura arrivò allo scontro armato con alcuni dei suoi agenti. All'interno dell'FMLN salvadoregno ci sono stati gli artefici dell'assassinio del poeta e combattente rivoluzionario Roque Dalton, e a poco servirebbe come scusante il fatto che, sembra, siano caduti in una trappola architettata dalla CIA, che fece loro credere di aver corrotto Dalton inducendolo al doppio gioco. La pratica dell'eliminazione fisica dei sospetti «traditori» pesa come una macchia indelebile sulla loro storia. Ma questo non deve offuscare quella parte dell'opposizione armata alla dittatura (camuffata da democrazia con tanto di elezioni farsa) che in Salvador ha mantenuto connotati libertari, quasi sempre legati al cristianesimo di base e alla Teologia della Liberazione. Il vescovo Oscar Arnulfo Romero, scelto dal Vaticano proprio su richiesta dell'oligarchia salvadoregna, che lo considerava un prelato malleabile e disposto a chiudere entrambi gli occhi, ebbe il coraggio di sfidare così apertamente il governo di Napoleón Duarte (Democrazia Cristiana, il suo partito), denunciandone i crimini, che i sicari del maggiore D'Aubuisson dovettero porre rimedio all'errore sparandogli al cuore mentre diceva messa. E in seguito, i militari avrebbero fatto strage dei gesuiti docenti dell'Universidad Centro Americana di San Salvador, ravvisando in essi una fonte di sovversione intollerabile. Dal loro punto di vista avevano concrete motivazioni: nelle file dell'FMLN combattevano anche sacerdoti, come ad esempio il padre Rogelio Ponseele.

In Chiapas

Un elenco di preti e suore assassinati in America Latina perché hanno minacciato i privilegi delle oligarchie e gli interessi di Washington, sarebbe immensamente lungo. Quella che è stata ribattezzata «la Chiesa dei martiri» non voleva essere il vero argomento di questa riflessione, bensì la necessità di confrontarci sul perché cristianesimo e spirito antiautoritario, in quelle terre, si muovano insieme perseguendo fini comuni. Arrivando al Messico, e all'insurrezione del Chiapas, i connotati libertari del neozapatismo sono dovuti soprattutto a ciò che Emiliano Zapata ha rappresentato nella storia e tentato di portare a termine a prezzo della sua vita. Ma non possiamo ignorare l'apporto dei tanti catechisti sconosciuti, inviati nelle comunità dalla diocesi di San Cristóbal retta da Samuel Ruiz, alla diffusione di una coscienza divenuta oggi inarrestabile. Da quando la chiesa del Chiapas (non tutta, ma la maggioranza) ha smesso di propagandare la rassegnazione, giustificando e avallando la ribellione quando la dignità viene negata, e addirittura promuovendola quando il potere è sordo e i latifondisti ricorrono agli eserciti privati per strappare le terre ai contadini, allora è cominciato a sorgere un fenomeno che avrebbe assunto proporzioni straordinariamente vaste. Intendiamoci, gli indios in questi cinque secoli si sono ribellati innumerevoli volte, e la Chiesa non li difendeva di certo, ma solo adesso, che l'altra chiesa, quella in aperto contrasto con le gerarchie romane, dà loro sostegno in ogni senso, hanno finalmente trovato un'unità da sempre cercata e mai ottenuta. E il Vaticano, a conferma del fatto che non si può mai, parlando della realtà latinoamericana, considerare il mondo cattolico univoco e uniforme, scatena i suoi «generali» contro i ribelli al Nuovo Ordine Mondiale. Il nunzio apostolico Girolamo Prigione arrivò a Città del Messico dopo una fruttuosa carriera presso le più sanguinarie dittature latinoamericane, alle quali aveva sempre fornito colpevole silenzio o addirittura aperto appoggio, e fin dall'inizio del suo nuovo incarico si sarebbe dedicato ossessivamente a perseguitare Samuel Ruiz chiedendone la rimozione. Solo le mobilitazioni di massa degli indios chiapanechi hanno costretto il Vaticano a recedere dai consigli di monsignor Prigione. Ma vale la pena spendere qualche parola per definire meglio la figura di questo campione del papato. Per esempio, nel 1974 venne mandato in Ghana, probabilmente uno dei ricordi peggiori della sua brillante carriera: il governo del paese africano avrebbe finito per dichiararlo «persona non grata» dopo averlo accusato di traffico di valuta e contrabbando di avorio. Un'altra macchia infamante, il cardinale nativo di Castellazzo Bormida l'avrebbe rimediata nel 1985, poco dopo il devastante terremoto di Città del Messico: trafugamento di una grossa somma in dollari inviata dai cattolici di New York per le vittime del sisma. Secondo una ricostruzione della rivista Impacto, pubblicata nel marzo del 1991, Girolamo Prigione aveva utilizzato padre Kurgoz, noto per i suoi legami «lavorativi» con la CIA, depositando 170.000 dollari in un conto segreto negli Stati Uniti. Del Messico dice «Qui mi trovo benissimo, e non ho alcuna intenzione di andarmene», ma da qualche tempo Prigione deve fare i conti con i problemi che gli creano i giornalisti, per lui ben più pericolosi dei fastidi provocati dai diseredati. Il colpo più duro glielo hanno inferto pubblicando la notizia di un suo incontro segreto con i fratelli Arellano Felix, potenti boss del Cartello di Guadalajara, che si sarebbero recati addirittura nella sua residenza privata, nonostante fossero i narcotrafficanti più ricercati del paese. Prigione non ha potuto smentire, e con innocente candore ha dichiarato: «Volevano confessarsi, non potevo certo rifiutarmi...» Gli Arellano Felix, per inciso, sono accusati dell'omicidio di Juan Jesus Posada Ocampo, il cardinale di Guadalajara crivellato di pallottole all'aeroporto e la cui valigetta è misteriosamente scomparsa dall'auto. Il settimanale Proceso del 17 ottobre ha pubblicato una circostanziata ricostruzione del suo attivismo in campo economico: il nunzio sarebbe stato addirittura il consigliere finanziario del magnate Carlos Cabal Peniche riguardo le sue piantagioni di banane, che Prigione perlustrava in elicottero privato: anche adesso che Cabal Peniche è finito in galera per bancarotta fraudolenta, il Vaticano continua a tacere. Intanto, Girolamo Prigione, con l'arroganza usuale, rilascia dichiarazioni contro «quei vescovi che confondono la teologia con la lotta di classe». Rispetto a certe «confusioni», Samuel Ruiz si è preso una divertente rivincita durante un'assemblea episcopale: leggendo un documento della sua commissione, aveva posto particolare enfasi su un preciso passo che riguardava gli sfruttati e gli emarginati, causando la bocciatura di molti altri vescovi che lo avevano ritenuto «sovversivo». A quel punto, don Samuel ha rivelato che si trattava di una citazione del profeta Isaia dal Vecchio Testamento. Per le gerarchie reazionarie, persino i vangeli andrebbero censurati.
Dunque, essendo Ruiz un vescovo e Prigione un nunzio, e conoscendone i rispettivi comportamenti, sarebbe quantomeno miope considerarli entrambi come due esponenti di una gerarchia da avversare in blocco. Le diversità e le distinzioni andrebbero sempre colte e approfondite.
Generalizzare, dovrebbe rimanere una prerogativa dell'autoritarismo. E nel variegatissimo «universo clero», ci sono molti individui degni di attenzione e rispetto, anche, ma non solo, perché essi stessi sono avversi al dispotismo del Vaticano.

Stop Malathion!

La presente denuncia è diretta alla Commissione Nazionale dei Diritti Umani, ai gruppi ecologisti, ai mezzi di comunicazione, ai Partecipanti al Dialogo per la Pace e, principalmente, ai deputati Convenzionalisti affinchè ciascuno dalla propria tribuna denunci l'avvelenamento che la Segreteria dell'Agricoltura, Allevamento e Sviluppo Rurale sta operando nella Selva Lacandona. Tiempo non ha altra forma che questa di estendere la denuncia perchè se ne facciano immediatamente carico, poichè ogni giorno che passa si aggrava la situazione. Da più di cinque mesi si è scoperto che nella Foresta Lacandona si stava spandendo per via aerea e terrestre Malathion, in quantità indiscriminate e senza controllo. Questo pesticida produce serie infermità agli esseri umani, tra queste il cancro. In agosto di quest'anno la Sagdr dichiarò in "quarantena per sei mesi" nove municipi del Chiapas, tra la zona nord, la foresta e la frontiera, proibendo il trasporto di frutta, con il prestesto dell'apparizione della mosca del Mediterraneo. Nessuna istituzione ha valutato l'impatto e i danni che sta causando sull'ambiente e gli abitanti della foresta l'intossicazione che sta operando il governo messicano con l'appoggio del Dipartimento dell'Agricoltura degli Stati Uniti. Questa è una supplica ed allo stesso tempo un'allerta perchè si sospenda immediatamente questo metodi di eliminazione della mosca Mediterranea nella Selva Lacandona, dato che già da tempo si sta utilizzando il metodo delle mosche sterili per controllarne la diffusione. L'impatto dannoso del Malathion è già ben noto, per cui non siamo noi quelli che devono provarlo. Le autorità sanitarie ed ecologiche devono garantirci che non si continuerà a combattere questo flagello a prezzo della vita degli abitanti della foresta.

Tratto dal quotidiano ribelle Tiempo del 18 novembre 1995, San Cristobal de las Casas, Chiapas, Messico.