Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 25 nr. 222
novembre 1995


Rivista Anarchica Online

Il processo
di Carlo Oliva

Visto come si sta mettendo la faccenda, corriamo decisamente il rischio, dopo tante lotte e tante speranze, di essere costretti a sperare che Andreotti sia assolto

Quando è cominciato il processo Andreotti, alla fine di settembre, ero all'estero: mi è stato risparmiato, quindi, il clamore mediatico che, a quanto mi dicono, in patria ha accompagnato l'evento. Tutto quanto ho appreso, da sobri articoli in taglio basso sulle prime pagine dei rari quotidiani in lingua inglese che riuscivo a trovare, era che l'Italian former P. M., Mr. Giulio Andreotti, 76, affrontava i suoi giudici per difendersi dall'accusa non di essere il referente politico della mafia, espressione che il medio lettore anglosassone difficilmente avrebbe capito, ma di aver protetto e sostenuto l'attività della mafia dalle sue posizioni di potere. Che era, in fondo, un'interpretazione abbastanza ragionevole del senso dell'accusa, anche se in Italia, naturalmente ci si affrettava a precisare che non per la sua attività di governo il Giulio nazionale era sottoposto a giudizio (ché altrimenti a Palermo non lo si sarebbe potuto processare, a scorno e dispetto del Procuratore Caselli), ma per quella di leader politico e capocorrente e che, in ogni caso, il processo era un processo penale assolutamente normale, senza alcuna sfumatura o caratterizzazione politica: distinzioni sottili, che sembravano (e sembrano) ispirate più alla necessità di procedura che a una logica giuridica qualsivoglia e che avrebbero probabilmente confermato i cronisti e i corrispondenti stranieri nell'opinione, largamente espressa nei loro articoli o in appositi elzevirini di accompagnamento, per cui l'Italia è per definizione il <<paese di Machiavelli>>. Perché naturalmente il processo di Palermo, riguardando, checché dicano i magistrati, dei comportamenti politici, è un processo politico. Dei grandi processi politici ha, anzi, certe caratteristiche tipiche, prima di tutte quella di coprire, con ovvia valenza simbolica, un esponente di una classe dirigente se non proprio sconfitta almeno preterita, o comunque sottoposta a un ricambio radicale. Niente di strano: da che mondo è mondo, i politici, qualsiasi nefandezza si suppone abbiano commesso, li si processano solo quando hanno perso il potere: prima, con tutto il dovuto rispetto per il mito dell'indipendenza della magistratura, succede piuttosto di rado.

Capro espiatorio
Ma attenti: il processo Andreotti, per quanto politicamente suggestivo, non è il processo al regime democristiano, non è il Processo che in uno dei suoi momenti di più lucida e alta ingenuità chiedeva il povero Pasolini. Un ricambio, per quanto radicale, del ceto politico o della classe dirigente non significa necessariamente una rottura nella continuità di un sistema politico (nel senso che un Craxi può essere confinato ad Hammamet e il craxismo può restare vivo o vitale), e infatti il senatore Andreotti non viene processato per quello che manifestamente ha fatto, ma per quello che si sostiene abbia fatto in occulto. Non per essere stato un pilastro del sistema democristiano, la cui legittimità e moralità di fondo tutti si guardano bene di mettere in discussione, ma perché lo si accusa di aver fatto, per così dire, a latere, gli interessi della mafia. Il che, in un certo senso, è un modo di affermare che gli interessi della mafia e quelli del potere ( del potere democristiano, ma non solo di quello) sono ovviamente distinti e che quello di mescolarli è un comportamento eccezionale, anzi delittuoso, che è una tipica petizione di principio che mal si concilia con ogni consapevolezza storica del fenomeno. E significa, in parole povere, che l'ottimo Giulio rischia di diventare il classico capro espiatorio, la cui auspicata condanna significherà l'assoluzione di molti, moltissimi altri. Anche questa è una caratteristica dei processi politici, che spesso vengono intentati, più che condannare qualcun altro, per assolvere se stessi.

Solidarietà nazionale
Bé, direte voi, Andreotti se l'è voluta. Sì, certo, e più di quanto appaia a prima vista, visto che l'impianto dell'accusa si regge in buona parte sulle classiche delazioni dei <<pentiti>>, come a dire su quella legislazione premiale della cui disastrosa introduzione nel nostro sistema giudiziari i governi Andreotti dei tempi della solidarietà nazionale sono stati largamente responsabili. Il senatore a vita si sarà ormai reso conto che la legislazione premiale ha una logica che, al di là delle affermazioni di facciata sulla necessità che ogni chiamata di correità sia validificata dai mitici <<riscontri>>, rende praticamente indiscutibili tanto il ruolo dei pentiti quanto la gestione che ne fanno le procure. Ma ben poca soddisfazione possiamo trarre dal fatto che certe procedure assurde si siano ritorte contro chi ne è stato fautore. Soprattutto considerando che, visto come si sta mettendo la faccenda, corriamo decisamente il rischio, dopo tante lotte e tante speranze, di sperare che Andreotti sia assolto.