Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 25 nr. 219
giugno 1995


Rivista Anarchica Online

Dibattito anarco-capitalismo / 1: attendo spiegazioni

Nello scritto precedente avevo cercato di evidenziare alcuni aspetti di maggiore solidità dell'impianto dottrinale dell'anarco-capitalismo rispetto a quello dell'anarco-collettivismo socialistico o comunistico. Il vostro valido e informato collaboratore rispondeva dichiarandosi d'accordo sull'inconciliabilità del collettivismo con i valori dell'anarchia, senza però accettare le conclusioni dei libertarians americani, in parte discordanti, come puntualmente sottolineato, da quelle dei loro precursori anarco-individualisti. Nel libertarismo di sinistra di Adamo emergono posizioni ragionate e originali, non banalmente appiattite su impostazioni para-marxiste, ancora troppo frequenti negli ambienti anarchici.
In particolare, le analisi degli anarcocapitalisti vengono respinte perché implicanti "una teoria del dominio limitata, una definizione astratta quasi astorica - del potere regolatore del capitalismo, una frettolosa equiparazione tra società di mercato e capitalismo reale".
La concezione del dominio adottata dagli anarchici-capitalisti appare agli anarchici di sinistra "limitata" perché concentrata sulle sole forme di dominazione statalistiche, e indifferente davanti a quelle "altrettanto autoritarie" imposte dalle istituzioni del capitalismo.
In effetti non si può negare che il concetto di coercizione dei primi, riferito solo all'azione violenta, diverge sensibilmente da quello dei secondi. Gli anarchici in genere ammettono, correttamente, che tra lo schiavo dell'antichità e il suo padrone, così come tra il servo della gleba e il signore feudale, intercorre una relazione di "sfruttamento". Il secondo soggetto infatti si appropria di gran parte del prodotto del lavoro del primo per mezzo della minaccia dell'uso della forza fisica. Questa stessa situazione si presenta nel rapporto tra il
predone e il derubato, tra l'estortore e l'estorto, tra il governante (cioè un bandito stanziale che, mediante la tassazione, ha istituito un monopolio organizzato e regolare del furto in una zona territoriale circoscritta[1]) e il governato. In tutti questi casi, la vittima non può sottrarsi all'obbligo di contribuzione se non rischiando la morte, l'incarcerazione o un'altra grave punizione.
A questo tipo di soggezione si contrappone la relazione fondata sul mutuo consenso, reciprocamente vantaggiosa per entrambe le parti. La prima relazione (slave-master) è sempre a somma zero, nel senso che una parte guadagna parassitariamente ciò che l'altra perde (non è di tipo contrattuale, perché altrimenti non sarebbe necessaria la coercizione per mantenere la continuità del rapporto), la seconda è sempre a somma positiva, in quanto tutti e due i partecipanti migliorano la loro utilità rispetto alla situazione anteriore allo scambio. L'errore dell'anarchismo di sinistra, significativamente presente anche nella teoria marxiana, è quello di non cogliere la cruciale distinzione che passa tra il potere egemonico del padrone sullo schiavo (o del signore sul servo) e l'accordo volontario di cooperazione tra il datore di lavoro e il libero lavoratore nel sistema capitalista.
È difficile capire come possa sfruttare qualcuno colui che scopre e occupa un terreno o una risorsa non appartenente ad altri, colui che commercia beni da lui prodotti o precedentemente acquistati, colui che rinuncia ad un consumo immediato per procurarsi uno strumento di produzione che potrebbe apportargli più beni in futuro. Tali soggetti dell'economia capitalista (il produttore autonomo, il venditore, l'imprenditore) non tolgono nulla a nessuno in questo pacifico processo di produzione e di scambio, e i loro guadagni lasciano perfettamente intatta la ricchezza in mano a tutti gli altri membri della società, incrementando per di più quella di coloro con cui entrano in rapporti contrattuali.
Stando così le cose, lo sfruttamento in senso proprio si verifica solo nei casi in cui queste regole di giusta acquisizione e di giusto scambio vengono violate; quando cioè qualcuno pretende in tutto o in parte risorse scarse che non ha né scoperto, né lavorato, né prodotto, né risparmiato, e che non ha ricevuto contrattualmente da un precedente legittimo proprietario (2).
Dall'alba dei tempi fino ai nostri giorni, quello appena descritto non è altro che il comportamento abitualmente tenuto dalle nomenklature politico-burocratiche, le quali, gestendo l'apparato coattivo dello Stato, si sono sempre dichiarate esenti dalla necessità di ricorrere ai modi capitalistici, produttivi o contrattuali, di acquisto della proprietà. Per i libertari di destra la vera lotta di classe non è dunque tra proletari e capitalisti, ma tra governati e governanti in senso lato, cioè tra tax-payers e tax-consumers (3).
Questa teoria del dominio potrà apparire "palesemente monca", ma è, dal punto di vista logico e dogmatico, coerente con quell'"assioma di non aggressione" che sta alla base del credo morale dei libertarians, e permette di fornire un chiarimento in merito alla ulteriore critica, indirizzata a quest'ultimi, di accettare una definizione astratta e astorica del potere regolatore del capitalismo.
I libertarians sono perfettamente consci che la realtà storica del capitalismo è molto diversa da quella delle loro elaborazioni teoriche, ma ciò non impedisce loro di ricercare analiticamente quali siano gli elementi degeneri rispetto al modello ideale.
Il giudizio sulle grandi corporations, aldilà delle preferenze soggettive dei singoli autori, è in verità estremamente chiaro e preciso, e si basa sulla distinzione tra monopoli de jure e monopoli de facto: se questi trusts hanno ottenuto una posizione dominante coartando i concorrenti, i clienti o i contribuenti grazie all'appoggio dei compiacenti poteri dello Stato, gli anarco-capitalisti sono i primi a denunciare con veemenza il perverso connubio tra big business e potere politico.
Se, al contrario, la superiorità è stata raggiunta per mezzo dei soli strumenti del mercato cioè fornendo al pubblico beni migliori e a minor prezzo rispetto a tutte le altre imprese concorrenti allora l'esaltazione "randiana" è del tutto giustificata.
La grande industria che opera nel mercato rispettandone le regole non può essere semplicisticamente equiparata allo Stato, in quanto ugualmente "elitista" e "coercitiva", come fanno gli anarchici di sinistra.
Rothbard non si stanca di ricordare che fra il governo e ogni altra istituzione operante nella società esistono due differenze ineliminabili: in primo luogo, solo il governo ottiene le sue entrate minacciando l'imprigionamento dei riottosi o la confisca dei loro beni, mentre ogni altra persona od organizzazione si sostiene grazie a contributi o a pagamenti volontari; in secondo luogo, solo il governo può utilizzare questi fondi per commettere violenze contro i propri cittadini o contro quelli di altri Stati: nessuna corporation, per quanto vasta possa essere, può legalmente imporre con la forza una determinata ideologia o fede religiosa, condurre una guerra, reprimere una minoranza, vietare comportamenti inoffensivi giudicati "immorali", incarcerare una persona solo perché svolge una determinata professione senza permesso, arrestare coloro che hanno venduto o comprato un bene ad un prezzo ritenuto "non giusto" , ecc. (4).
Per quanto riguarda la terza critica di Adamo agli anarco-capitalisti (di compiere una frettolosa equiparazione tra società di mercato e capitalismo reale), egli ha perfettamente ragione nel denunciare "la realtà del capitalismo corporativo, delle multinazionali, della globalizzazione economica, dell'accorpamento tra grande impresa e stati nazionali", ma in questi casi più che di capitalismo reale bisognerebbe forse parlare di statalismo reale. Se veramente le "mostruose" concentrazioni industriali rappresentano l'inevitabile risultato dei meccanismi intrinseci al capitalismo, non avrei difficoltà ad ammettere la fondatezza di gran parte delle critiche che Adamo rivolge a questo sistema economico. La questione però è controversa, alcuni economisti, ad esempio, sono pervenuti nei loro studi alla conclusione che nel libero mercato i cartelli tra le imprese durano in genere poco (giusto il tempo per raccogliere le proprie forze), a causa dell'insorgenza di problemi di cooperazione e di free-riding. È sempre nell'aria infatti l'opportunità di realizzare sovraprofitti mediante il mancato rispetto, palese o nascosto, del patto.
I guai cominciano quando questi accordi hanno la possibilità di durare per un periodo molto più lungo, se non indefinitamente, e ciò di regola avviene se lo Stato offre ai partecipanti al cartello il sostegno del proprio apparato coercitivo. Senza Stato quindi non ci sarebbero probabilmente cartelli, intese o trusts capaci di reggersi sul mercato, poiché il tentativo di sfruttare i consumatori verrebbe ben presto frustrato dall'irruzione dei concorrenti potenziali. Queste osservazioni teoriche sembrano confermate dai fatti storici, perché in effetti le compagnie ferroviarie americane alla fine del 1800, dopo aver vanamente tentato in tutti i modi possibili e immaginabili di costituire un monopolio tariffario, vi riuscirono infine solo grazie alla complicità dei politici. In precedenza, per trent'anni cartelli su cartelli si erano succeduti, ma le forze concorrenziali del mercato non li avevano mai fatti durare che per pochissimo tempo (5).
Se gli effetti autentici del monopolio e della concentrazione del potere economico dipendono non, come si crede, dal funzionamento delle leggi del mercato, ma al contrario, dalla crescita esponenziale dell'intervento statale e dalle interferenze frapposte dai poteri pubblici al normale spiegarsi dei processi concorrenziali, allora la fiducia riposta dai libertari di sinistra in una autorità dotata di poteri coercitivi, che proceda nella lotta contro i trusts mediante confische e regolamentazioni, rischia di rivelarsi controproducente. La libera concorrenza nel mercato, dice Rothbard, rappresenta di per sé il miglior strumento di check and balance che si possa concepire (6).
La dura critica degli anarchici di sinistra alle grandi imprese coinvolge più in generale tutte le organizzazioni gerarchizzate al proprio interno. Dal punto di vista etico gli anarco-capitalisti possono anche essere d'accordo, ma il punto è: si può impedire per legge ad un individuo di entrare volontariamente in una di queste associazioni più o meno autoritarie, se ciò gli procura dei vantaggi spirituali (una setta,un monastero), economici (una corporation, una comune agricola) o morali e materiali insieme (una famiglia, un partito)? Se, come dice Camillo Berneri, la società anarchica è la società della pluralità e non dell'uniformità, allora tutti questi esperimenti associazionistici non possono essere vietati, a condizione che sia garantita la possibilità di entrare e uscire in ogni momento.
Nel prosieguo del suo scritto, Adamo dichiara di preferire, alla concezione "negativa" di Nock e di Hayek della libertà come protezione della sfera personale da ogni potere invasivo, quella "positiva" di massima "gamma di scelte" possibile.
A mio avviso la teoria della libertà dei due autori presi in considerazione rimane, malgrado tutto, l'unica compatibile con le idee libertarie, perché libertà non può mai significare, in senso aggressivo, potere illimitato di violare l'uguale libertà altrui, ma solo libera facoltà di agire con il consenso di coloro con cui entriamo in rapporto. Una concezione della libertà del tipo di quella delineata da Adamo si risolverebbe di fatto in una mancanza totale di libertà per chiunque: se infatti nell'esercizio della mia libertà posso costringere gli altri a fare qualcosa di indesiderato, anche gli altri potranno fare altrettanto con me, annullando la mia libertà. A cosa si ridurrebbe la libertà di voi della redazione di "A Rivista Anarchica" se foste costretti ad assumere con regolare stipendio tutti i possibili postulanti o a prestare loro denaro, a condizioni per voi inaccettabili, in nome dell'ampliamento della "gamma di scelte" nel lavoro e nel ricorso al credito di queste persone?
Un'ultima osservazione: a più riprese i libertari di sinistra, come del resto lo stesso Adamo, accusano i libertarians di essere incofessatamente conservatori, elitisti, repressivi. Dalla lettura del suo scritto si ricava però un'impressione opposta. Per gli anarchici-capitalisti, infatti, le libere interrelazioni tra adulti consenzienti non possono mai essere ostacolate. Non importa se l'oggetto del baratto sia denaro, lavoro, droga, sesso, perversioni, organi del corpo, vincite al gioco, o altro: lo Stato (così come l'ipotetica autorità collettiva della società anarchica) passa dalla parte del torto se pretende di immischiarsi in queste faccende (7).
Scopro invece che nella società agognata dagli anarchici di sinistra mi sarebbe vietato di vendere la mia attività lavorativa dietro compenso, di accettare o prestare denaro ad alti tassi d'interesse, di versare contributi ad una qualche associazione, di entrare in un partito, e chissà cos'altro ancora. Il carattere "libertario" di tutte queste proibizioni mi sfugge, ma sono sicuro che gli amici anarchici sapranno fornire valide spiegazioni.

Guglielmo Piombini (Bologna)


1) La definizione e di MANCUR OLSON, Autocracy, Democracy and Prosperity, in "Strategy and Choice", Richard Zeckhauser ed., 1991 (trad. it. in Logica delle istituzioni, Edizioni di Comunità, Milano, 1994, p. 46.), e riprende, in maniera più precisa, quella di Rothbard dello Stato come "vasta organizzazione criminale" e quella di Lysander Spooner del governo come "banda segreta di briganti ed assassini".

2) HANS - HERMANN HOPPE, Marxist and Austrian Class Analysis, "The Journal of Libertarian Studies", VoI. IX, n.2 (Fall 1990), p. 83 s.

3) JOHN C. CALHOUN, A Disquisition on Government, liberal Arts Press, New York, 1953, p. 16-18.

4) MURRAY N. ROTHBARD, For a new Liberty. The Libertarian Manifesto, MacMillan, New York, (1973) 1978, p. 47.

5) HENRY LEPAGE, Demain le capitalisme, Librairie Generale Francaise, 1978 (trad. it. Domani il capitalismo, edizioni l'Opinione, Roma, 1978, p. 57-58), che richiama i lavori di Robert Fogel, D.T. Armeritano, John McGee Kenneth Elzinga, e altri.

6) MURRAY N. ROTHBARD, Power and Market, Sheed Andrews and McMeel, Kansas City, 1977, p. 7.

7) Si consiglia al riguardo la lettura del piacevole libro di WALTER BLOCK, Defending the Undefendable, Fleet Press, New York, 1976 (trad. it. Difendere l'indifendibile LiberiLibri)

Risponde Pietro Adamo

La replica di Guglielmo Piombini mi sembra in generale ripercorrere terreni già noti, confermando una certa incompatibilità di fondo tra le tesi libertarie e quelle degli anarcocapitalisti. Mi spiace tuttavia che Piombini ritenga che la "concezione della libertà" da me delineata nella risposta al suo saggio precendente si risolva "di fatto" in un progetto che non può che sfociare in "una mancanza totale di libertà per chiunque". Tenterò quindi di offrire sinteticamente qualche ulteriore "spiegazione" (mi auguro "valida"), senza dimenticare che questo confronto riguarda un ambito per sua natura piuttosto sdrucciolevole: nientemeno che la forma della futura società libertaria!.
1. Sul contrasto tra "libertarismo di destra" e "libertarismo di sinistra". Si tratta di una terminologia di cui non condivido gli assunti. Piombini sembra ritenere che i "libertari di sinistra" individuino nella "lotta di classe" tra proletari e capitalisti il motore della storia e il criterio di ogni giudizio etico o politico. Lo contraddico: non si tratta per nulla di una "lotta di classe", ma del più generale contrasto tra dominanti e dominati. In particolari momenti questa contrapposizione ha anche assunto la forma di un radicale antagonismo tra classi sociali differenti, ma il principio non è valido in senso generale. La "volontà di potenza", ha scritto Rudolf Rocker usando una locuzione dalle implicazioni più ampie di quanto faccia pensare la sua forma semantica, è "la più possente forza conduttrice della storia". Ed è in questa prospettiva che il libertarismo - inteso come progetto di liberazione complessiva dell'individualità - si annoda inestricabilmente con una precisa teoria del dominio: le potenzialità dei singoli, insieme alle loro persone e alle loro menti, sono degradate e oppresse in modi multiformi, variegati e mutevoli. La dicotomia tra "governati" e "governanti", tra tax-payers e tax-consumers, mi sembra incredibilmente povera e limitata come descrizione di tale degradazione e oppressione.
2. Su Benjamin Tucker. Non ho citato il brano in cui egli prendeva atto dell'esigenza di "confische forzate" per auspicare che su provvedimenti di tal fatta si costruisca un progetto libertario. Per l'idea di interventi e regolamentazioni dall'alto, che necessariamente conducono al potenziamento della forza statuale, credo di provare un orrore non minore di quello che manifesta Piombini. Ho citato il passo per mostrare in primo luogo quanto sia infondata la pretesa dei libertarians di riconoscersi eredi della tradizione dell'individualismo anarchico statunitense e, in secondo, sino a che punto le contraddizioni del capitalismo reale potessero spingere persino un difensore del modello qual era Tucker.
3. Sulla libertà negativa. Qui mi pare che Piombini non interpreti correttamente il mio pensiero, equiparando la mia insistenza sulla necessaria presenza di una vasta gamma di scelta a una concezione della vita associata che sanzioni divieti, prescrizioni e obblighi di ogni tipo allo scopo di generalizzare le cosiddette "libertà positive". Non si tratta di "impedire per legge" l'accesso a "esperimenti associazionistici" autoritari (o di altra natura), né di legittimare relazioni sociali e politiche non fondate sul principio del consenso, né di costringere "A rivista anarchica" ad assumere a forza nuovi redattori: si tratta di approntare una serie di strumenti - non solo nella sfera dell'economia, alla quale Piombini pare conferire con (troppa) convinzione lo statuto di "scienza", ma anche, e soprattutto, nella sfera della cultura (materiale e non) e dell'immaginario, laddove sembrano prendere forma i giudizi sulle forme di vita e sui modelli intellettuali che permettano l'affermazione di un pluralismo reale e incoraggino proprio quel "pacifico processo di produzione e scambio" di cui si tessono le lodi. In termini concreti: non intendevo proporre di obbligare con la coercizione "A rivista anarchica" ad allargare la redazione, ma far si che possano nascere altre dieci, o magari altre cento "A rivista anarchica", in regime di libera concorrenza, e con il "mercato" nel ruolo di giudice definitivo. Mi pare che lo stesso Piombini accetti l'idea che un risultato del genere possa richiedere una radicale mutazione dell'esistente: vale a dire una "coartazione" di tutti coloro che fondano la loro attività sull'esistenza della rete - statuale, ma non solo - di monopoli, brevetti, concessioni e privilegi. L'amico anarcocapitalista introduce qui una discriminante (che condivido in quanto istanza generale): una politica del genere dovrebbe distinguere tra coloro che si servono "dei soli strumenti del mercato" e coloro che raggiungono posizioni di predominanza tramite la complicità dello stato. E questo ci porta, a mio parere, al cuore del problema.
4. Sul capitalismo (reale e immaginario). Nella società auspicata dai libertarians l'unico criterio utile per determinare la legittimità della presenza di un qualsiasi ente sul mercato è la risposta del mercato stesso. La "purezza" di quest'ultimo è considerata garanzia sufficiente, indipendentemente dagli enti che in esso operano. I "libertari di destra" si propongono cosi di eliminare il "dominio" (inteso in senso stretto) dal solo mercato, ritenendo che questa sia soluzione adeguata: sono disposti ad accettare che esso si riproduca "altrove", guardando al cosiddetto mercato come una specie di agente immunitario diffuso. La mitizzazione del mercato e, più in generale, della scienza economica - si potrebbe parlare di una vera e propria "idolatria" intellettuale - porta alla sottovalutazione di altri elementi, forse maggiormente incisivi nel modellamento di valori e principi condivisi: l'immaginario, il simbolico, i meccanismi di rappresentazione e autorappresentazione, eccetera. I motivi per cui i trusts, le corporazioni, le grandi aziende, mi sembrano incompatibili con un futuro libertario o, se si preferisce, con una "società di mercato" (nel senso warreniano) - sono di due ordini. In primo luogo all'interno di questi enti si riprodurrebbe la logica della gerarchia (quindi del dominio): tanto per riprendere David Friedman, "non mi sembra un modo attraente di vivere". Ma Piombini mi obbietterebbe - a ragione - che questi non sono affari miei: se le preferenze di un individuo lo inducono a sottomettersi liberamente - a condizione, e torno sul medesimo punto, che questa "libertà" preveda appunto un'ampia "gamma di scelte" - nessuno è in diritto di impedirglielo. In questo caso non mi resterebbe che la disapprovazione (e magari un po' di boicottaggio e ostracismo...). In secondo luogo - e questo aspetto mi sembra più rilevante - i trusts, le corporazioni, le grandi aziende, non potrebbero fare a meno di produrre, per loro stessa natura, un effetto di tracimazione etico-politica, che potrebbe prendere due forme; la tendenza a intervenire sul mercato inserendovi, in nome del supremo valore del profitto, meccaniche del dominio a esso teoricamente antitetiche (non è stata forse questa la politica abituale dei trusts nel corso della storia?) e la predisposizione a diffondere - questa volta sul piano dell'immaginario, della percezione collettiva - valori e principi contrastanti con quelli libertari.
Il problema posto da Piombini - non è contraddittorio che in una società libertaria non sia contemplata la presenza dell'opzione del dominio? - assume valenze antinomiche. Ai miei occhi - ma sono sicuro che il mio interlocutore non la vede allo stesso modo - si presenta molto simile alla celebre argomentazione dello "schiavo volontario": impedire a un uomo di farsi schiavo e di rinunciare alla sua libertà non significa forse limitare proprio ciò che si vuol difendere, la sua libertà?
Affrontando il problema da un'altra prospettiva, quand'è che una società può definirsi "libertaria"? Quali ne sono le condizioni irrinunciabili? Direi la condivisione di un certo numero di valori di base. Tra questi può esser compreso il dominio? Mi parrebbe banalmente di no. Da questo punto di vista, la forma di associazione umana auspicata da Piombini, molto semplicemente, non mi sembra possedere i requisiti di base per vantare il titolo di "società libertaria". L'immaginario anarcocapitalista si propone come una normalizzazione dell'esistente, e contemporaneamente come una sua idealizzazione, mentre l'immaginario anarchico - o libertario, se si preferisce - ipotizza una rottura dalle proporzioni ben più epocali. Può persino darsi che Piombini sia più "realista" e non vi è dubbio che l'ipotesi dei libertarians presenti per molti versi attrattive maggiori di quelle esercitate dal capitalismo reale; ma questo non mi sembra sufficiente per rinunciare ad analisi e prospettive più ricche e soddisfacenti, almeno per quelli che condividono il progetto libertario nel suo senso pieno.