Rivista Anarchica Online
Kika, una lingua in prestito
di Enrique Santos Unamuno
Da sempre, il percorso creativo (individuale o epocale) sembra
rispondere alla stessa regola: l'irruenza, la
pregnanza di significati, l'informazione, lasciano a poco a poco il posto al logoramento di
temi e strutture, al
manierismo, all'autocitazione. David Lynch c'è arrivato già da un pezzo,
Tarantino lo farà in breve, di Bertolucci
meglio non parlare ... Il "fenomeno" Almodovar è un esempio palese di tutto
ciò. E dico il "fenomeno" perché nel caso del regista
spagnolo, troppo intelligente e smaliziato, mi rifiuto di credere a un percorso ingenuo e non
cosciente. In questi
ultimi quindici anni Almodovar ha perso pezzi di sé stesso uno dopo l'altro,
meravigliosamente sparpagliati nei
suoi film, fino al successo internazionale di Donne sull'orlo ... (1987), punto
oltre il quale il mercato ha preso il
sopravvento sul cinema. Era troppo difficile lottare contro una Spagna tutta da (s)vendere, un
turbinio di "movida"
iperinflazionata, di sorrisi socialisti, di "Spain is different" in versione postmoderna e
craxiana. Troppo difficile
deludere i turisti europei e americani che vedevano nella vecchia pelle di toro (la penisola
iberica) una immensa
discoteca estiva dove dare sfogo alle loro repressioni. Ma parliamo di cinema. In
Kika c'è senz'altro un desiderio di tirare le somme, di rivedersi e di far
vedere a chi non c'era perché si è arrivati
proprio lì. E c'è infatti Madrid, non più quella di Pepi, Luci
e Boom (1980) e di Labirinto di passioni (1982),
pazza e babelica, ma quella di Cosa ho fatto per meritarmi questo (1984), cupa
e opprimente, testimone degli
squallidi anni novanta spagnoli; c'è Polvazo, lo stupratore, fratellino degenere del
protagonista di Legami (1989),
c'è Peter Coyote nei panni di un serial-killer che richiama da vicino il Diego Montes
di Matador (1985), c'è il
triangolo padre-figlio-donna di entrambi che rovescia sessualmente il triangolo di
Tacchi a spillo (1991), c'è La
legge del desiderio (1986) che s'incarna nella dea bifronte dell'amore-morte e
c'è Kika, l'eterno femminile
invincibile e ottimista presente qua e là nell'opera almodovariana. Eppure
Kika rappresenta da un certo punto di vista un passo avanti nel discorso del
regista. Per la prima volta si
prendono in considerazione aspetti non esclusivamente legati all'ambito privato, ai rapporti
intimi fra i personaggi,
ma alla sfera del pubblico. Si sta parlando della televisione, tasto già toccato
precedentemente dal regista spagnolo
ma mai in modo così diretto. Infatti, dalle dinamiche createsi fra pubblico e privato
tramite la televisione
scaturiscono gli aspetti più convincenti del film. Uno dei personaggi chiave in questo
senso è Andrea "la
sfregiata", conduttrice di una trasmissione "spazzatura" incentrata su fatti violenti e
sanguinosi attorno alla quale
gira tutto l'intreccio. Questa trasmissione "entra" nella vita dei personaggi, provoca dei
cambiamenti, fomenta un
mondo di stupri, omicidi serial in cui i fatti più intimi diventano pasto per milioni di
occhi. Quello della visione,
dell'immagine come qualcosa che si sostituisce alla vita è un tema onnipresente nel
film, incarnato dalla suddetta
Andrea (che va in giro vestita da marziana con una videocamera in testa) e da Ramon, il
ragazzo di Kika, incapace
di godere del sesso se non dietro una macchina fotografica o una videocamera, un guardone
che simboleggia
sempre più il tipo umano imperante nell'era dell'immagine
massmediologica. Dall'altra parte c'è Kika, un personaggio coerente nella sua
semplicità, un personaggio che scopa, ama e soffre
con naturalezza, elaborando la propria mappa esistenziale a furia di agire, di scontrarsi, di
vivere senza mediazioni
e che alla fine lascerà tutto e tutti all'insegna di una libertà per niente
grandiloquente o romantica. Fin qui quello che lo spettatore italiano può
vedere. Già. Perché il filo che collega uno con l'altro tutti i film
di
Almodovar è proprio quello che non si vede ma si sente, quello della
lingua. Una lingua fatta di luoghi comuni,
realista e nazionalpopolare come quella che si parla per strada, nei bar, nelle case, tra amici e
amiche. Attenta ai
giochi di parole, alle battute sceme, alle oscenità di tutti i giorni, agli accenti
dialettali e alle loro connotazioni
aggiunte. Almodovar riesce (primo e quasi unico) a rappresentare questa realtà
linguistica tipicamente spagnola,
repressa e bandita dalla cultura per troppo tempo (da sempre per quanto riguarda il cinema),
cogliendone i risvolti
comici, intimi, liberatoriamente banali. Ed ecco un susseguirsi di frasi idiote, da portinaia,
riscattate in extremis
dall'intonazione particolare, dal contrasto e l'interazione tra
enunciato/enunciazione/enunciatore, citazioni a man
bassa rubate al melodramma, alla canzone popolare (spagnola e latinoamericana
fondamentalmente), al romanzo
rosa. Un tessuto linguistico composito e sistematicamente mancato dal doppiaggio, da
qualsiasi doppiaggio, raso
al suolo, appiattito, perfino travisato (valga come esempio l'orrendo sottotitolo italiano "un
corpo in prestito" che
stento ancora a capire). E se mi si accuserà di fare apologia di un ipotetico
volkkgeist spagnolo, risponderò con una domanda-esempio:
avete mai provato a vedere un film di Benigni doppiato in spagnolo? Non a caso Benigni
è pressoché sconosciuto
da noi. Da qui la perplessità che il "fenomeno" Almodovar continua a suscitare in me
in un paese come l'Italia,
che si vanta di avere i migliori doppiatori al mondo (ahimè, forse a ragione). Un
primato che impedisce anche a
chi non sa lo spagnolo di godere (seppure in parte) del versante sonoro e linguistico dei film
di Almodovar,
senz'altro uno dei pregi più costanti negli alti e bassi della sua produzione. E la stessa
cosa vale per Kika, quella
specie di frullato almodovariano, di bigino del suo cinema ad uso dei nuovi arrivati.
Pasen y vean.
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