Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 25 nr. 218
maggio 1995


Rivista Anarchica Online

Kika, una lingua in prestito
di Enrique Santos Unamuno

Da sempre, il percorso creativo (individuale o epocale) sembra rispondere alla stessa regola: l'irruenza, la pregnanza di significati, l'informazione, lasciano a poco a poco il posto al logoramento di temi e strutture, al manierismo, all'autocitazione. David Lynch c'è arrivato già da un pezzo, Tarantino lo farà in breve, di Bertolucci meglio non parlare ...
Il "fenomeno" Almodovar è un esempio palese di tutto ciò. E dico il "fenomeno" perché nel caso del regista spagnolo, troppo intelligente e smaliziato, mi rifiuto di credere a un percorso ingenuo e non cosciente. In questi ultimi quindici anni Almodovar ha perso pezzi di sé stesso uno dopo l'altro, meravigliosamente sparpagliati nei suoi film, fino al successo internazionale di Donne sull'orlo ... (1987), punto oltre il quale il mercato ha preso il sopravvento sul cinema. Era troppo difficile lottare contro una Spagna tutta da (s)vendere, un turbinio di "movida" iperinflazionata, di sorrisi socialisti, di "Spain is different" in versione postmoderna e craxiana. Troppo difficile deludere i turisti europei e americani che vedevano nella vecchia pelle di toro (la penisola iberica) una immensa discoteca estiva dove dare sfogo alle loro repressioni. Ma parliamo di cinema.
In Kika c'è senz'altro un desiderio di tirare le somme, di rivedersi e di far vedere a chi non c'era perché si è arrivati proprio lì. E c'è infatti Madrid, non più quella di Pepi, Luci e Boom (1980) e di Labirinto di passioni (1982), pazza e babelica, ma quella di Cosa ho fatto per meritarmi questo (1984), cupa e opprimente, testimone degli squallidi anni novanta spagnoli; c'è Polvazo, lo stupratore, fratellino degenere del protagonista di Legami (1989), c'è Peter Coyote nei panni di un serial-killer che richiama da vicino il Diego Montes di Matador (1985), c'è il triangolo padre-figlio-donna di entrambi che rovescia sessualmente il triangolo di Tacchi a spillo (1991), c'è La legge del desiderio (1986) che s'incarna nella dea bifronte dell'amore-morte e c'è Kika, l'eterno femminile invincibile e ottimista presente qua e là nell'opera almodovariana.
Eppure Kika rappresenta da un certo punto di vista un passo avanti nel discorso del regista. Per la prima volta si prendono in considerazione aspetti non esclusivamente legati all'ambito privato, ai rapporti intimi fra i personaggi, ma alla sfera del pubblico. Si sta parlando della televisione, tasto già toccato precedentemente dal regista spagnolo ma mai in modo così diretto. Infatti, dalle dinamiche createsi fra pubblico e privato tramite la televisione scaturiscono gli aspetti più convincenti del film. Uno dei personaggi chiave in questo senso è Andrea "la sfregiata", conduttrice di una trasmissione "spazzatura" incentrata su fatti violenti e sanguinosi attorno alla quale gira tutto l'intreccio. Questa trasmissione "entra" nella vita dei personaggi, provoca dei cambiamenti, fomenta un mondo di stupri, omicidi serial in cui i fatti più intimi diventano pasto per milioni di occhi. Quello della visione, dell'immagine come qualcosa che si sostituisce alla vita è un tema onnipresente nel film, incarnato dalla suddetta Andrea (che va in giro vestita da marziana con una videocamera in testa) e da Ramon, il ragazzo di Kika, incapace di godere del sesso se non dietro una macchina fotografica o una videocamera, un guardone che simboleggia sempre più il tipo umano imperante nell'era dell'immagine massmediologica.
Dall'altra parte c'è Kika, un personaggio coerente nella sua semplicità, un personaggio che scopa, ama e soffre con naturalezza, elaborando la propria mappa esistenziale a furia di agire, di scontrarsi, di vivere senza mediazioni e che alla fine lascerà tutto e tutti all'insegna di una libertà per niente grandiloquente o romantica.
Fin qui quello che lo spettatore italiano può vedere. Già. Perché il filo che collega uno con l'altro tutti i film di Almodovar è proprio quello che non si vede ma si sente, quello della lingua. Una lingua fatta di luoghi comuni, realista e nazionalpopolare come quella che si parla per strada, nei bar, nelle case, tra amici e amiche. Attenta ai giochi di parole, alle battute sceme, alle oscenità di tutti i giorni, agli accenti dialettali e alle loro connotazioni aggiunte. Almodovar riesce (primo e quasi unico) a rappresentare questa realtà linguistica tipicamente spagnola, repressa e bandita dalla cultura per troppo tempo (da sempre per quanto riguarda il cinema), cogliendone i risvolti comici, intimi, liberatoriamente banali. Ed ecco un susseguirsi di frasi idiote, da portinaia, riscattate in extremis dall'intonazione particolare, dal contrasto e l'interazione tra enunciato/enunciazione/enunciatore, citazioni a man bassa rubate al melodramma, alla canzone popolare (spagnola e latinoamericana fondamentalmente), al romanzo rosa. Un tessuto linguistico composito e sistematicamente mancato dal doppiaggio, da qualsiasi doppiaggio, raso al suolo, appiattito, perfino travisato (valga come esempio l'orrendo sottotitolo italiano "un corpo in prestito" che stento ancora a capire).
E se mi si accuserà di fare apologia di un ipotetico volkkgeist spagnolo, risponderò con una domanda-esempio: avete mai provato a vedere un film di Benigni doppiato in spagnolo? Non a caso Benigni è pressoché sconosciuto da noi. Da qui la perplessità che il "fenomeno" Almodovar continua a suscitare in me in un paese come l'Italia, che si vanta di avere i migliori doppiatori al mondo (ahimè, forse a ragione). Un primato che impedisce anche a chi non sa lo spagnolo di godere (seppure in parte) del versante sonoro e linguistico dei film di Almodovar, senz'altro uno dei pregi più costanti negli alti e bassi della sua produzione. E la stessa cosa vale per Kika, quella specie di frullato almodovariano, di bigino del suo cinema ad uso dei nuovi arrivati. Pasen y vean.