Rivista Anarchica Online
Parità di censura
di Carlo Oliva
Che dai provvedimenti legislativi intesi ad assicurare la
par condicio radiotelevisiva nelle campagne elettorali non ci fosse
da aspettarsi nulla di buono, lo si poteva capire fin da quando si è cominciato a
parlarne in quel modo, utilizzando
rigorosamente la forma latina. Quando si usano delle locuzioni che appartengono a una
lingua, antica o moderna, diversa
da quella che si parla, non lo si fa mai a caso. O è una formula riconosciuta in quanto
tale, una espressione in qualche
modo famosa, alla cui autorevolezza si rende omaggio nella speranza che si riverberi sulla
nostra argomentazione, o è
un termine di cui ci si appropria nel presupposto che nella nostra lingua un suo esatto
equivalente non ci sia, in genere
perché il fenomeno cui si riferisce si è sviluppato in un'altra area linguistica.
Se tutti, alla faccia dei puristi, diciamo leader,
bar e sport, lo facciamo perché siamo convinti che i possibili
equivalenti nostrani (che so, «capopopolo», «mescita
pubblica», «giochi agonistico-spettacolari per adulti») non corrispondano affatto a quanto
quei tre termini inglesi
normalmente indicano e questo perché di leader, bar e sport in senso moderno si
è cominciato a parlare in Inghilterra
quando da noi non esisteva nulla di simile. E chi allude allo jus primae noctis,
naturalmente, lo fa fidando nella diffusione
della formula, nel fatto che il suo interlocutore disponga di un patrimonio culturale tale da
permettergli di capire di che
cosa si sta parlando (come minimo, di capire in base a quale parametro la notte in questione
vada considerata «la prima»,
senza di che non sarebbe facilissimo chiarire a cosa quel diritto si riferisca). Per cui era
evidente da subito che la par
condicio non poteva essere in alcun modo la «parità di condizioni». Doveva
essere, per imprescindibili motivi semantici,
qualcosa d'altro.
Parti uguali tra diseguali
L'argomento può parere scherzoso, ma su certi temi non si dovrebbe scherzare.
Non date retta alle letture riduttive dei
vari ministri e garanti e rinunciate anche alla tentazione di leggere quel decreto in un'ottica di
schieramento (sempre che,
in quanto lettori di «A», vi sentiate in qualche modo schierati), chiedendovi a chi possa dare
più fastidio: quel testo, così
come è stato emanato il 20 marzo e quali che possano essere state le modifiche
apportategli in seguito, è davvero
importante. Rappresenta la prima normativa nella storia della repubblica italiana che mette in
discussione esplicitamente,
e per di più per decreto, la libertà d'informazione e di diffusione delle idee, e
che lo faccia con intenzioni apparentemente
buone, per rispondere a una situazione insostenibile, non cambia in nulla questa
realtà. Delle migliori intenzioni è lastricata
la via dell'inferno e che quella situazione fosse insostenibile, be', lo sanno gli dei se non era
noto a tutti da un pezzo; da
più tempo di quanto, sicuramente, sarebbe bastato per organizzare una soluzione
meno sciagurata. Sciagurata, perché il problema, in fondo, era semplicissimo: si
trattava di limitare la pubblicità elettorale e di regolamentare
la «propaganda» via etere in una situazione di evidente disparità di forze, in cui certe
voci importanti della dialettica
politica nazionale correvano il rischio di venire tacitate di fatto. Ma non avendo il governo la
forza o la volontà per
legiferare in tal senso, ha preferito annegare le norme in merito in una specie di definizione
etica di obblighi validi per tutti,
quali che fossero le forze e le possibilità degli obbligati. E anche a prescindere dal
fatto che la scuola di Barbiana ci ha
insegnato, anni fa, che è ingiustizia fare le parti uguali tra disuguali, resta indubbio
che non spetta a nessun governo
definire, nei confronti di nessuno, delle norme etiche.
Quale correttezza? quale imparzialità?
Non sto esagerando. In fondo limitare la pubblicità e regolamentare la
propaganda, in sé, sono provvedimenti affatto
normali. Ma quando si stabilisce (art. 6) che anche l'informazione, per essere considerata
«obiettiva» e «imparziale» (due
aggettivi che non definiscono semplici qualificazioni burocratiche, ma, appunto, valori) deve
attenersi a dei criteri fissati
dall'alto, i termirii del discorso cambiano radicalmente. Vediamola da un altro punto di
vista. Una cosa era stabilire il divieto, in sé persino ovvio, di servirsi di
«prospettazioni
informative» false e di «slogan denigratori», un'altra aggiungere, sentite un po', che bisogna
evitare quelle «tecniche di
suggestione dirette a promuovere un'immagine negativa dei competitori» (anche «negativo»
è un termine di valore, e certo
non si può supporre che quella norma comporti l'obbligo di promuovere
dell'avversario un'immagine positiva.) E se
poteva non essere irragionevole stabilire che registi, conduttori e ospiti delle trasmissioni
avrebbero fatto meglio ad
astenersi dalle indicazioni di voto o dal manifestare le proprie intenzioni in merito, l'obbligo
di «attenersi a un
comportamento corretto e imparziale così da non
esercitare, anche in forma surrettizia, un'influenza sulle libere scelte
degli elettori» (e questo non solo nelle trasmissioni elettorali, ma anche in quelle di
«intrattenimento su argomenti
economici, sociali e politici», il tutto sotto pena ammende fino un miliardo più
l'eventuale revoca della concessione), è
molto più dubbio. Correttezza e imparzialità, in mancanza di criteri
espliciti, sono valori tra i più insidiosi da definire ed è abbastanza ovvio
che quando vengono imposti in via coercitiva, e per di più a tempo, come se in fase
non elettorale se ne potesse fare
benissimo a meno, significano soltanto l'adeguamento a una forma, nemmeno tanto larvata, di
censura.
Spiccata tendenza all'illibertà
So benissimo che questi argomenti possono sembrare analoghi a quelli che hanno
avanzato tutti i berlusconiani di carriera
e di complemento, anche se, visto il pulpito da cui viene quella predica, le loro accuse di
illiberalità facevano solo ridere.
Ma è vero, purtroppo, che la nostra classe politica, nel suo complesso, condivide una
spiccata tendenza all'illiberalità,
per cui, di fronte a un problema serio che non sa affrontare in altro modo, ricorre quasi
automaticamente allo strumento
della censure e dei divieti, infilandosi in una tale spirale di contraddizioni che poi nessuno sa
come uscirne. Che questa
operazione sia stata accettata, con maggiori o minori riserve, da forze che si dichiarano di
sinistra è solo una malinconica
conferma del fatto che da quella tendenza quelle forze sono tutt'altro che esenti, come sa
benissimo chiunque non abbia
dimenticato o rimosso i brutti tempi della solidarietà nazionale e della legislazione di
emergenza. In questo caso, però, non possiamo essere neanche sicuri che la
censura nasca da un'esplicita volontà di censurare, che
sarebbe, se non altro, una presa di posizione esplicita. La volontà di censura, nel
nostro paese, è implicita nella stessa
incapacità del ceto politico. Era evidente a tutti che il problema di cui stiamo
trattando aveva le sue origini in una
situazione, diciamo così, proprietaria, nel sostanziale monopolio berlusconiano della
televisione privata, e che era su quel
terreno, ovviamente, che andava affrontato. Ed è appunto su quel terreno che non si
è voluto scendere in alcun modo.
In Italia, ormai, tutti si riempono la bocca del mercato e delle sue leggi, ma di fronte alla
contraddizione rappresentata
in un libero mercato dalla presenza di un monopolio, e alla necessità di intervenire
con le misure opportune (per esempio
con qualche tipo di provvedimenti antitrust) tutti si ritraggono come gatti scottati. E' noto che
le leggi del mercato, come
tutte le altre, del resto, certi mercanti sono disposti a rispettarle solo quando fanno comodo a
loro. In caso contrario
chiedono i sussidi o fanno i colpi di stato. Per cui, non essendo possibile intervenire
nella struttura economica, si è deciso di intervenire sul piano ideologico,
regolamentando i comportamenti. Con la conseguenza, pressoché inevitabile, di
scambiare l'imparzialità con l'ossequio
allo status qua e la correttezza con il conformismo. Quando sono in gioco i
problemi dell'informazione e della libertà di
espressione, il risultato di un'operazione del genere è sempro lo stesso: l'intimazione
al silenzio. Magari previo indennizzo
in contanti, come quello che il ministro si è dichiarato subito disposto a concedere
alle emittenti locali orbate dalla
possibilità di trasmettere gli spot, nella serena fiducia che per calmare le proteste
nulla giovi quanto qualche generosa
elargizione. A chi non è disposto a monetizzare i propri diritti non resta che
prender nota del fatto che governo e opposizione, vuoi
per inettitudine, vuoi per vocazione, hanno compiuto congiuntamente un altro passo verso
l'abolizione di quelle libertà
formali di cui gli uni e gli altri si proclamano strenui difensori. Perché le campagne
elettorali passano (anche se, al
momento, da quella delle regionali si passa soltanto a quella del referendum e le politiche
sono sempre alle porte...) e la
par condicio, la censura, resta. E proprio come è successo per la
legislazione d'emergenza, vedrete che non ce ne
libereremo tanto facilmente.
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