Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 25 nr. 218
maggio 1995


Rivista Anarchica Online

Parità di censura
di Carlo Oliva

Che dai provvedimenti legislativi intesi ad assicurare la par condicio radiotelevisiva nelle campagne elettorali non ci fosse da aspettarsi nulla di buono, lo si poteva capire fin da quando si è cominciato a parlarne in quel modo, utilizzando rigorosamente la forma latina. Quando si usano delle locuzioni che appartengono a una lingua, antica o moderna, diversa da quella che si parla, non lo si fa mai a caso. O è una formula riconosciuta in quanto tale, una espressione in qualche modo famosa, alla cui autorevolezza si rende omaggio nella speranza che si riverberi sulla nostra argomentazione, o è un termine di cui ci si appropria nel presupposto che nella nostra lingua un suo esatto equivalente non ci sia, in genere perché il fenomeno cui si riferisce si è sviluppato in un'altra area linguistica. Se tutti, alla faccia dei puristi, diciamo leader, bar e sport, lo facciamo perché siamo convinti che i possibili equivalenti nostrani (che so, «capopopolo», «mescita pubblica», «giochi agonistico-spettacolari per adulti») non corrispondano affatto a quanto quei tre termini inglesi normalmente indicano e questo perché di leader, bar e sport in senso moderno si è cominciato a parlare in Inghilterra quando da noi non esisteva nulla di simile. E chi allude allo jus primae noctis, naturalmente, lo fa fidando nella diffusione della formula, nel fatto che il suo interlocutore disponga di un patrimonio culturale tale da permettergli di capire di che cosa si sta parlando (come minimo, di capire in base a quale parametro la notte in questione vada considerata «la prima», senza di che non sarebbe facilissimo chiarire a cosa quel diritto si riferisca). Per cui era evidente da subito che la par condicio non poteva essere in alcun modo la «parità di condizioni». Doveva essere, per imprescindibili motivi semantici, qualcosa d'altro.

Parti uguali tra diseguali

L'argomento può parere scherzoso, ma su certi temi non si dovrebbe scherzare. Non date retta alle letture riduttive dei vari ministri e garanti e rinunciate anche alla tentazione di leggere quel decreto in un'ottica di schieramento (sempre che, in quanto lettori di «A», vi sentiate in qualche modo schierati), chiedendovi a chi possa dare più fastidio: quel testo, così come è stato emanato il 20 marzo e quali che possano essere state le modifiche apportategli in seguito, è davvero importante. Rappresenta la prima normativa nella storia della repubblica italiana che mette in discussione esplicitamente, e per di più per decreto, la libertà d'informazione e di diffusione delle idee, e che lo faccia con intenzioni apparentemente buone, per rispondere a una situazione insostenibile, non cambia in nulla questa realtà. Delle migliori intenzioni è lastricata la via dell'inferno e che quella situazione fosse insostenibile, be', lo sanno gli dei se non era noto a tutti da un pezzo; da più tempo di quanto, sicuramente, sarebbe bastato per organizzare una soluzione meno sciagurata.
Sciagurata, perché il problema, in fondo, era semplicissimo: si trattava di limitare la pubblicità elettorale e di regolamentare la «propaganda» via etere in una situazione di evidente disparità di forze, in cui certe voci importanti della dialettica politica nazionale correvano il rischio di venire tacitate di fatto. Ma non avendo il governo la forza o la volontà per legiferare in tal senso, ha preferito annegare le norme in merito in una specie di definizione etica di obblighi validi per tutti, quali che fossero le forze e le possibilità degli obbligati. E anche a prescindere dal fatto che la scuola di Barbiana ci ha insegnato, anni fa, che è ingiustizia fare le parti uguali tra disuguali, resta indubbio che non spetta a nessun governo definire, nei confronti di nessuno, delle norme etiche.

Quale correttezza? quale imparzialità?

Non sto esagerando. In fondo limitare la pubblicità e regolamentare la propaganda, in sé, sono provvedimenti affatto normali. Ma quando si stabilisce (art. 6) che anche l'informazione, per essere considerata «obiettiva» e «imparziale» (due aggettivi che non definiscono semplici qualificazioni burocratiche, ma, appunto, valori) deve attenersi a dei criteri fissati dall'alto, i termirii del discorso cambiano radicalmente.
Vediamola da un altro punto di vista. Una cosa era stabilire il divieto, in sé persino ovvio, di servirsi di «prospettazioni informative» false e di «slogan denigratori», un'altra aggiungere, sentite un po', che bisogna evitare quelle «tecniche di suggestione dirette a promuovere un'immagine negativa dei competitori» (anche «negativo» è un termine di valore, e certo non si può supporre che quella norma comporti l'obbligo di promuovere dell'avversario un'immagine positiva.) E se poteva non essere irragionevole stabilire che registi, conduttori e ospiti delle trasmissioni avrebbero fatto meglio ad astenersi dalle indicazioni di voto o dal manifestare le proprie intenzioni in merito, l'obbligo di «attenersi a un comportamento corretto e imparziale così da non esercitare, anche in forma surrettizia, un'influenza sulle libere scelte degli elettori» (e questo non solo nelle trasmissioni elettorali, ma anche in quelle di «intrattenimento su argomenti economici, sociali e politici», il tutto sotto pena ammende fino un miliardo più l'eventuale revoca della concessione), è molto più dubbio.
Correttezza e imparzialità, in mancanza di criteri espliciti, sono valori tra i più insidiosi da definire ed è abbastanza ovvio che quando vengono imposti in via coercitiva, e per di più a tempo, come se in fase non elettorale se ne potesse fare benissimo a meno, significano soltanto l'adeguamento a una forma, nemmeno tanto larvata, di censura.

Spiccata tendenza all'illibertà

So benissimo che questi argomenti possono sembrare analoghi a quelli che hanno avanzato tutti i berlusconiani di carriera e di complemento, anche se, visto il pulpito da cui viene quella predica, le loro accuse di illiberalità facevano solo ridere. Ma è vero, purtroppo, che la nostra classe politica, nel suo complesso, condivide una spiccata tendenza all'illiberalità, per cui, di fronte a un problema serio che non sa affrontare in altro modo, ricorre quasi automaticamente allo strumento della censure e dei divieti, infilandosi in una tale spirale di contraddizioni che poi nessuno sa come uscirne. Che questa operazione sia stata accettata, con maggiori o minori riserve, da forze che si dichiarano di sinistra è solo una malinconica conferma del fatto che da quella tendenza quelle forze sono tutt'altro che esenti, come sa benissimo chiunque non abbia dimenticato o rimosso i brutti tempi della solidarietà nazionale e della legislazione di emergenza.
In questo caso, però, non possiamo essere neanche sicuri che la censura nasca da un'esplicita volontà di censurare, che sarebbe, se non altro, una presa di posizione esplicita. La volontà di censura, nel nostro paese, è implicita nella stessa incapacità del ceto politico. Era evidente a tutti che il problema di cui stiamo trattando aveva le sue origini in una situazione, diciamo così, proprietaria, nel sostanziale monopolio berlusconiano della televisione privata, e che era su quel terreno, ovviamente, che andava affrontato. Ed è appunto su quel terreno che non si è voluto scendere in alcun modo. In Italia, ormai, tutti si riempono la bocca del mercato e delle sue leggi, ma di fronte alla contraddizione rappresentata in un libero mercato dalla presenza di un monopolio, e alla necessità di intervenire con le misure opportune (per esempio con qualche tipo di provvedimenti antitrust) tutti si ritraggono come gatti scottati. E' noto che le leggi del mercato, come tutte le altre, del resto, certi mercanti sono disposti a rispettarle solo quando fanno comodo a loro. In caso contrario chiedono i sussidi o fanno i colpi di stato.
Per cui, non essendo possibile intervenire nella struttura economica, si è deciso di intervenire sul piano ideologico, regolamentando i comportamenti. Con la conseguenza, pressoché inevitabile, di scambiare l'imparzialità con l'ossequio allo status qua e la correttezza con il conformismo. Quando sono in gioco i problemi dell'informazione e della libertà di espressione, il risultato di un'operazione del genere è sempro lo stesso: l'intimazione al silenzio. Magari previo indennizzo in contanti, come quello che il ministro si è dichiarato subito disposto a concedere alle emittenti locali orbate dalla possibilità di trasmettere gli spot, nella serena fiducia che per calmare le proteste nulla giovi quanto qualche generosa elargizione.
A chi non è disposto a monetizzare i propri diritti non resta che prender nota del fatto che governo e opposizione, vuoi per inettitudine, vuoi per vocazione, hanno compiuto congiuntamente un altro passo verso l'abolizione di quelle libertà formali di cui gli uni e gli altri si proclamano strenui difensori. Perché le campagne elettorali passano (anche se, al momento, da quella delle regionali si passa soltanto a quella del referendum e le politiche sono sempre alle porte...) e la par condicio, la censura, resta. E proprio come è successo per la legislazione d'emergenza, vedrete che non ce ne libereremo tanto facilmente.