Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 25 nr. 216
marzo 1995


Rivista Anarchica Online

Sognando l'altro
di Emanuele Amodio

L'identità etnica e le sue trasformazioni nei popoli indigeni dell'America Latina nell'analisi dell'antropologo libertario Emanuele Amodio

1. Introduzione

I recenti fatti derivanti dalla scomparsa dell'Unione Sovietica - frammentazione dell'impero, sorgere di nazionalismi su basi etniche, ecc. - hanno favorito in Europa una nuova riflessione di ampio respiro sugli argomenti legati al concetto d'etnia e d'identità etnica. In realtà, sembra che in tutta Europa stia nascendo la consapevolezza dell'esistenza di aree definibili in termini etnici, mentre nuovi soggetti politici se ne avvalgono per portare avanti le loro rivendicazioni sociali e politiche. Tuttavia, per quanto riguarda l'America Latina, queste tematiche sono presenti nella riflessione antropologica già da vent'anni, soprattutto dopo la riunione delle Barbados nel 1971 e grazie alla presenza sempre più forte di nuove organizzazioni indigene che intendono gestire le proprie lotte in prima persona ed essere inoltre soggetti attivi della stessa riflessione sulla "questione" indigena nei vari stati nazionali.
Le due situazioni soprannominate si rivelano così un punto di riferimento obbligato per qualsiasi discussione antropologica sulla costruzione dell'identità etnica e il suo destino nel contesto nazionale ed internazionale, poiché da un lato non si può tralasciare la "ribellione" dell'"oggetto" e il suo voler pensarsi e, dall'altro, non è possibile far fronte all'argomento come se fosse riferito esclusivamente agli "altri", e i fatti accaduti in Occidente in questi ultimi anni ci dicono in modo drammatico che si tratta anche di "noi" in prima persona.
Questa nuova realtà non risolve completamente il problema del pensare l'"altro", perché anche qui siamo costretti ad allontanare l'"oggetto" nel tentativo di individuare delle caratteristiche generali che permettano di fondare un discorso, ma ci spinge ad essere più coscienti del solito del nostro ruolo. Con ciò non vogliamo negarci il diritto di pensare alcuni fatti che riteniamo importanti o che destano semplicemente la nostra curiosità, ma essere consapevoli che il nostro ruolo nella costruzione della rappresentazione dell'"altro" ci coinvolge definitivamente nello spazio dell'"alterità", dando un senso alla nostra identità e costringendo quella dell'"altro" ad intrattenere dei rapporti con essa.
Qui si sta parlando del potere, anche se si tratta soltanto delle immagini possibili e interpretabili che l'"altro" cerca di produrre e di usare nello scambio quotidiano con la propria realtà.
Detto questo, vogliamo solo premettere alcune avvertenze a quanto segue. Per motivi di spazio, ci vediamo costretti a eliminare buona parte degli esempi che supportavano le considerazioni qui fatte, e così anche per quanto riguarda le citazioni degli esperti che hanno parlato dell'argomento e tentato una sistematizzazione e interpretazione dei fenomeni etnici. Queste pagine sono di conseguenza più degli spunti per un dibattito che non un discorso compiuto.

2. Costruzione e funzionamento dell'identità etnica

Con le dovute riserve, dobbiamo assumere che quando qui parliamo di identità - individuale, di gruppo, culturale, etnica, ecc. - facciamo riferimento a un concetto che, con contenuti diversi, può essere utilizzato in ambiti culturali differenti. Se così non fosse, non avrebbe senso nessun tipo di generalizzazione e neanche paragone alcuno fra situazioni tanto diverse come quelle che si hanno oggi in Europa e quelle che riguardano le popolazioni indigene dell'America Latina.
Parlare di vari tipi o livelli d'identità come un insieme unico implica anche assumere una loro articolazione, un mosaico di esperienze in cui, se si vuole scoprire un senso, un ambito deve rinviare ad un altro e viceversa. In questo senso, non si può parlare di identità individuale senza fare riferimento immediatamente a un altro livello di tipo culturale, inerente ai gruppi sociali di appartenenza, e ad un altro etnico di portata ancora maggiore.
Il concetto di "identità" adottato fino ad ora come evidente e pacifico non è tale nel momento di tentarne una definizione, soprattutto perché intimamente legato per opposizione a quello di "alterità", anch'esso non definibile isolatamente. Difatti, come segnalano Greimas e Courtés, è il rapporto tra i due termini ad essere interdefinibile per mezzo di una presupposizione reciproca. Il senso del "sé" può darsi soltanto ed esclusivamente in rapporto ad una "alterità", possibile o immaginabile, sia a livello individuale che di gruppo. Questa presupposizione non è una implicazione (se...allora); è sì di tipo binario, ma anche dinamica in un contesto molteplice di possibilità e spostamenti.
Ciononostante, questo stesso processo si compie in modo diverso a seconda dei vari livelli o ambiti di attuazione. A livello individuale, la presupposizione dell'"altro" si compie all'interno di una più estesa categoria dell'identità di gruppo, perché gli stacchi tra l'"io" e l'"altro" si servono di categorie come l'età, il sesso, lo status, ecc., concepite come opposizioni minime che articolano la vita sociale e culturale. Contrariamente, a livello del gruppo, l'"alterità" può essere definita da un'opposizione più radicale che investe la stessa nozione di umanità. In questo senso la "positività" del soggetto viene definita dalla "negatività" dell'"altro", costruita culturalmente e progettata fuori da sé per definire realtà esterne al gruppo. In questo senso, l'"altro" è sempre fantasmatico, nell'accezione psicanalitica del termine.
Fenomeni di questo tipo si possono osservare in qualsiasi situazione di contatto tra culture differenti, dalle relazioni tra società indigene (all'altro si attribuivano caratteristiche non umane: si ricordi il "solamente noi siamo gente" dei Caraibi), fino alle relazioni tra Spagnoli e indigeni all'epoca della conquista (l'"altro" come barbaro, selvaggio, pagano).
All'interno di questi processi generali, esiste un movimento di attribuzioni e, di conseguenza, un gioco di presupposizione dell'"altro" che raramente si mantiene fisso. Così, nell'ampio spazio definito dall'identità individuale da un alato, e dall'identità etnica dall'altro, troviamo realtà multiple identificabili come "presupposizioni intermedie dell'altro" (i sottogruppi) che si modificano in maniera più rapida degli elementi generali che le caratterizzano, dipendendo da fatti più contingenti e attuali, come possono essere il controllo di risorse o la guerra per le donne che si scatena fra sottogruppi di una stessa etnia.
Questi processi presuppongono o insinuano una relativa "stabilità" della definizione etnica di un gruppo. Tuttavia, poiché si può osservare la stessa dinamica anche a livello regionale tra etnie differenti, dove l'alleato di oggi può trasformarsi nel nemico di domani, trasformando così le attribuzioni reciproche di "alterità", è necessario spiegare meglio le attribuzioni di "stabilità" della definizione etnica di un gruppo. In verità, il problema risiede nella concezione stessa di "gruppo indigeno" che ancora si utilizza: microrealtà isolate le une dalle altre, che funzionano come "sistemi autoriproduttivi isolati, statici e chiusi, e non parti storicamente attive di sistemi più ampi" (in parole di Abencrombie). Sono validi gli esempi di articolazione andina analizzati da Murra, o i sistemi di interrelazioni regionali riscontrabili nelle regioni dell'Orinoco, nelle coste e nelle isole del mar dei Caraibi durante l'epoca coloniale.
In questo contesto, l'identità etnica di ogni gruppo (rappresentata e riprodotta in ogni individuo in quanto categoria di appartenenza) si intreccia con quella di altri gruppi, costituendo un sistema di interrelazioni dove gli interscambi culturali fluiscono dagli uni agli altri senza però eliminare la differenza auto ed etero attribuita. Vi sarebbe così una flessibilità nell'attribuzione di caratteristiche differenti all'"altro", dipendendo dal sistema di alleanze e relazioni attivato in un momento specifico. In un certo modo, lo stesso sistema di relazioni regionali tra gruppi etnicamente differenti, serve a strutturare la "distanza culturale" di un gruppo in relazione all'altro, attraverso meccanismi "negativi" (l'altro è diverso) e "positivi" (l'altro è uguale, seppur non identico), quali punti di riferimento per la costruzione dell'identità etnica.
E' possibile quindi chiarire un po' il problema della frontiera etnica. Se il percorso accennato fosse valido (e sarebbe necessario apportare esempi che lo comprovino) risulterebbe impossibile mantenere un'unica concezione di "frontiera", ormai di labili confini oltre che storicamente determinata. Ma, poiché i gruppi indigeni mantengono la propria identità etnica, qualche cosa non deve aver funzionato nella nostra analisi. I casi sono due: o le frontiere tendono a scomparire con l'aumentare dei contatti tra i diversi gruppi, oppure si mantengono e i dati relativi all'interscambio culturale non sono validi. Il problema potrebbe essere risolto se si riuscisse a fare chiarezza sulla differenza fra "frontiera etnica" e "confine culturale". Se da una parte il "confine culturale", spazio intermedio creato dal contrasto fra gruppi sociali e culturali diversi, può allentarsi grazie a elementi specifici che da un gruppo passano agli altri (interscambi, imposizioni, appropriazioni), dall'altra la "frontiera etnica", ovvero la percezione cosciente della differenza, si mantiene immutata per realizzare la sua funzione di presupposto dell'identità dei gruppi in questione.
E' possibile anche chiarire la differenza fra "gruppo culturale" e "gruppo etnico", spesso confusi sia dagli studiosi delle società indigene che dagli stessi indigeni militanti. E' evidente che le basi per lo sviluppo di una identità etnica si trovano nella cultura specifica di ogni gruppo; tuttavia questa stessa cultura, in quanto prodotto storico, si modifica costantemente e più velocemente di quanto si modifichi l'identità etnica. Questa differenza di "velocità" implica una chiara differenziazione fra i due concetti, visto che è possibile mantenere una identità etnica (e anche un'organizzazione su basi etniche) anche se la cultura che la produsse si è trasformata o è scomparsa. Insomma, i "gruppi etnici" possono esistere e sopravvivere anche se la situazione culturale di origine scompare o include elementi esterni.
Questa conclusione non è valida solo per i gruppi indigeni che danno vita a sistemi inter-etnici di relazioni, ma anche, si vedrà in seguito, per le relazioni tra gruppi indigeni americani e gruppi europei coloniali e attuali. Come scrive Bonfil Batalla, commentando la definizione di "indio" di Alfonso Caso - "è indio ogni individuo che sente di appartenere ad una comunità indigena..." - "l'importante, secondo Caso, non è il contenuto specifico della cultura, né la proporzione di tratti precolombiani che essa contiene, bensì il fatto che continui ad essere considerata cultura indigena e che i suoi portatori sentano di continuare a far parte di una comunità indigena".

3. Conquista culturale e identità

L?arrivo degli Spagnoli nei territori indigeni americani introdusse un nuovo elemento nel gioco delle relazioni inter-etniche fra le varie regioni del continente. Con questo non vogliamo dimenticare i processi e le relazioni che preesistevano in questi territori fra gruppi diversamente stratificati (creatori di rapporti gerarchizzati), bensì alludere alla radicale differenza esistente tra orizzonti culturali diversi. Gli europei introducono alcuni elementi nuovi, fra i quali un diverso modo di considerare le relazioni inter-etniche, frutto anche della voglia di conquista territoriale. La nuova situazione, che si struttura nel corso dei secoli di conquista, produce un riassestamento per cui, al fianco delle relazioni tendenzialmente egualitarie dei sistemi dei gruppi indigeni, se ne instaurano altre del tipo subordinazione-dominazione, creando così un quadro differenziato di relazioni fra gruppi di origine etnica differente.
Le caratteristiche specifiche dei rapporti di dominio - economici, sociali e culturali - imposti dagli europei (Spagnoli e Portoghesi) in America Latina si esplicarono soprattutto nell'intento, da parte della cultura europea, di risucchiare le popolazioni locali servendosi, fra le altre cose, dell'evangelizzazione imposta e della negazione della cultura di ogni gruppo (oltre alla loro integrazione nel sistema produttivo europeo locale). Si produssero così alcuni sistemi locali dove l'egemonia dei gruppi dominanti si estendeva anche all'ambito culturale come condizione stessa del mantenimento del dominio (si utilizza qui il concetto gramsciano di egemonia).
Non si tratta semplicemente di un processo di imposizione culturale, ma anche del tentativo di disarticolare questa cultura al fine di impedire l'opposizione. Un tal fine si poteva raggiungere solo frammentando le culture locali e, contemporaneamente, scardinando le relazioni inter-etniche che mantenevano le identità dei vari gruppi etnici. Tuttavia i risultati raggiunti furono un po' diversi dal previsto: non vi sono dubbi che molte culture locali si trasformarono in un "agglomerato indigesto di frammenti", secondo una definizione gramsciana, mentre altre assorbivano elementi della cultura straniera (sincretismo, ecc.); malgrado ciò, dove non ci fu distruzione fisica, l'assimilazione non funzionò, visto che gli indigeni sopravvissuti riuscirono a conservare la propria identità etnica. Il chiarimento fatto anteriormente sulla differenza tra "gruppo culturale" e "gruppo etnico" ci permette di estendere questi processi. Di fatto è nella confusione di queste due realtà che il concetto "assimilazione" trova il suo referente teorico e, nello stesso tempo, il suo fallimento politico.
Questo risultato fu possibile anche grazie all'integrazione degli europei nel sistema di attribuzione dell'alterità. Il processo fu reciproco, e non dobbiamo infatti dimenticare che la categoria di "indio" è un prodotto della conquista coloniale.
Questa categoria super-etnica funziona almeno a due livelli:
a. Come creatrice di stigma sociale, per cui vi è una tendenza all'"invisibilità etnica" come difesa degli individui appartenenti a gruppi indigeni.
b. Come possibilità di identificazione super-etnica che permetta lo sviluppo di processi organizzati di opposizione capaci di facilitare l'aggregazione indigena, ponendo in secondo piano )o articolando politicamente) l'opposizione inerente la costituzione di "alterità" (fra gli stessi gruppi indigeni).
Partendo da quest'ultimo significato, Guillermo Bonfil Batalla può affermare che "la liberazione del colonizzato - il crollo dell'ordine coloniale - significa la sparizione dell'"indio". Di fatto, mi sembra sufficientemente dimostrato, soprattutto per la forte rilevanza che le organizzazioni indigene hanno in molti paesi dell'America Latina, che l'identità etnica non solo resiste, ma si rafforza, ogni giorno di più, all'interno di una amplificazione delle lotte che, seppur con difficoltà, sviluppano alleanze con settori subalterni non indigeni delle società nazionali.

4. Sognare l'Altro: problemi e prospettive delle relazioni inter-etniche

Dopo aver accennato velocemente ad alcuni elementi che sembrano confermare il mantenimento dell'identità etnica delle popolazioni indigene dell'America Latina, ci sembra importante citare altri dati che permettono di inquadrare meglio la dinamica dei processi presi in considerazione. Insieme al tentativo della società coloniale e di quella repubblicana di assimilare a tutti i costi gli indigeni, non dobbiamo dimenticare che, in un certo senso, per quei gruppi dominanti l'"indio" funziona anche come un "altro" negativo che riconferma l'essenza dell'identità positiva autoprodotta e autopercepita del non-indigeno. In questo processo anche il lavoro degli antropologi funge da punto di riferimento per l'attribuzione d'"alterità" e non è un caso se l'antropologia nasce in contesti coloniali.
Lo stesso indigeno, più sul piano individuale che di gruppo, finisce con l'accettare queste immagini, in un processo di adeguamento che non sempre consente il mantenimento dell'identità etnica. Non mi riferisco qui solamente alle immagini dell'"indio" che producono gli "agenti" del gruppo sociale dominante, ma anche a quelle adoperate dai cosiddetti "alleati" della causa "indigena". Quante volte, nella realtà del lavoro in campagna o della collaborazione con questi popoli ci siamo imbattuti con l'inadempienza dell'immagine idealizzata dell'indigeno che ci eravamo costruiti? L'indigeno che si ubriaca, che ruba, che non frequenta le riunioni, ecc., di fronte al nostro indigeno ideale che segue i nostri ritmi, va a messa, s'impegna nella difesa del suo popolo, ecc., come se potesse compiere le gesta di cui noi non siamo stati capaci.
In questo gioco di specchi paiono inserirsi questi versi presi a prestito da una poesia di Borges dal titolo tristemente profetico "Non voglio essere chi sono": "Per poter sognare l'altro/la cui verde memoria farà parte/dei giorni dell'uomo, ti supplico:/mio Dio, mio sognatore, continua a sognarmi".
Non si tratta di frantumare lo specchio e di non produrre più immagini dell'"altro", ma di continuare a sognare, coscienti di star sognando, e di introdurci violentemente in quel sogno e cambiarlo se necessario. Forse solo in questo modo, in uno sforzo cosciente di etnogenesi che risponda ai processi attuali vissuti dai popoli indigeni, potremo mantenere la diversità senza bisogno della disuguaglianza e vivere finalmente l'allegria di stare insieme all'"altro".