Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 24 nr. 214
dicembre 1994 - gennaio 1995


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Dubbi in tintoria
di Carlo Oliva

Sono in tintoria, a far la fila per consegnare due maglioni e due paia di pantaloni da rimettere provvisoriamente a nuovo, e la fila, come succede a tutte le file in cui mi capita di trovarmi, è assolutamente immobile. La signora che è già arrivata al bancone, la capofila, per così dire, ha consegnato la sua mercanzia, ha ritirato lo scontrino, ma non si decide a togliersi di torno. Ha avviato una controversia con la commessa sul pagamento dovuto (lì si paga in anticipo), specificamente a proposito di un biglietto da duemila lire. Lei quel biglietto lo ha consegnato, sostiene, insieme a due monete da cento, e infatti le vengono cinquecento lire di resto: ne è sicurissima, anzi, guardi lei stessa, la commessa: nel borsellino biglietti da duemila non ne ha, quando è uscita da casa ce n'era appunto uno e non si è fermata da nessun'altra parte. La commessa, a sua volta, è graniticamente sicura che quelle duemila lire lei non le ha viste neanche dipinte. Facile da verificare, d'altronde: basta aprire il cassetto del registratore, biglietti da duemila non ce ne sono. Ma no, dice la signora, guardi, gliele ho proprio date: lei stava graffettando l'etichetta su quei maglioni lì e forse, distrattamente, le ha messe da qualche altra parte, cerchi bene, non vede che nel mio borsellino biglietti da duemila non ce ne sono proprio? Ed entrambe svolgono un certo numero di divagazioni sul tema, finché la commessa, probabilmente perché pensa che con i tempi che corrono una cliente è sempre una cliente, e poi gli altri in coda potrebbero seccarsi, borbotta acidina un «se proprio dice che me le ha date ... », molla il pezzo da cinquecento e l'altra se ne va soddisfatta ma un po' impettita, come a dire ma guarda un po' cosa mi deve capitare.
Il suo trionfo, peraltro, si ripercuote nell'immediata disfatta della signora che viene dopo di lei ed esibisce una gonna macchiata, dicendo che l'ha ritirata lì il giorno prima e a casa se l'è ritrovata completa di macchie e tutto, e anzi, quella specifica macchia, ne è sicura, prima non c'era e la commessa invece è altrettanto sicura che no, loro un capo con delle macchie così non lo restituiscono mai, se proprio non vanno via ci mettono un apposito bigliettino, e poi, via, quella è una tipica macchia da lavaggio ad acqua e loro quel tipo di tessuto lo lavano solo a secco e ci mancherebbe altro e subito, con l'aria di chi ha detto l'ultima parola, si rivolge a un giovanotto in attesa e si fa consegnare la sua borsa di indumenti e, insomma, questa volta è la cliente che si allontana con le pive nel sacco e l'espressione crucciata di chi non ha ottenuto soddisfazione e forse cambierà tintoria. E forse no, naturalmente, perché sa che simili episodi possono capitare dovunque e oggi a me domani a te e la cosa importante è battersi bene e non farsi mettere i piedi sul collo da nessuno.

L'articolo 530
E io, che se qualcuno mi accusasse di non aver pagato duemila lire arrossirei come se scoperto in flagrante tentativo di truffa e caccerei immediatamente la lira, io, che di fronte a qualsiasi contraddizione del genere (un oggetto che non si trova, un conto che non torna, un'informazione mal interpretata) penso subito che probabilmente è colpa mia, le invidio terribilmente tutte e tre. Le invidio per la loro sicurezza, per la loro mancanza di dubbi. E ovvio che nei due confronti cui ho assistito una delle parti aveva torto marcio (il principio del terzo escluso, da Aristotele in poi, è un pilastro della logica occidentale), ma entrambe erano solidamente convinte di aver ragione e chi ha ceduto ha ceduto non perché fosse persuasa del proprio torto, ma in nome di tutt'altre considerazioni: perché non è riuscita a sfoderare altrettanta grinta della controparte; perché non poteva tirare avanti all'infinito; perché aveva altro di cui occuparsi e, soprattutto, in considerazione della propria posizione di forza contrattuale. La prima cliente, quella che ha avuto ragione, aveva dalla sua il vantaggio di occupare una posizione strategica, con la possibilità di bloccare l'accesso degli altri clienti; la seconda da questo punto di vista si è trovata spiazzata e inoltre era indebolita dal principio, formale, non sostanziale, per cui le contestazioni sulla qualità del lavoro svolto vanno fatte alla consegna e non il giorno dopo. Eccetera.
E così ha anche risolto il problema che mi assilla da un po': come hanno fatto a condannare Pacciani. Perché, giuro, non ho seguito quel processo (detesto la cronaca nera), ma mi sembra di aver capito che qualche dubbio sulla colpevolezza dell'imputato comunque c'era, e ciascuna delle due ipotesi opposte aveva qualche argomento a proprio favore, magari una era anche più forte dell'altra, non lo so, ma come diavolo giudici e giurati sono riusciti a superare la barriera di dubbio proprio non ero riuscito a capirlo.
Il dubbio, converrete, è implicito in situazioni del genere: l'articolo 530 del codice di procedura penale prescrive l'assoluzione quando la prova che «il fatto sussiste o l'imputato lo ha commesso» manca, è insufficiente o, appunto, contraddittoria, e se una cosa è contraddittoria è contraddittoria, non si scappa, la contraddittorietà non si misura a peso, per cui dovrebbe essere sufficiente una piccolissima contraddizione, una minima smagliatura nell'impianto accusatorio, per ingenerare quel dubbio che in teoria dovrebbe costringere ad assolvere. E qualche smagliatura in quell'impianto doveva ben esserci, se la giuria ha escluso un duplice omicidio su otto contestati (anche questa è una contraddizione, no?) e lo stesso procuratore capo, dopo aver fatto condannare Pacciani in base a una ricostruzione che lo vedeva agire da solo, adesso si mette a dire che bisogna cercare i complici, che è una precauzione ragionevolissima per chi ricorda che il suo ufficio ha già fatto arrestare (e in un caso condannare) tre o quattro disgraziati con l'accusa di essere il mostro e poi li ha dovuti lasciar andare perché gli ammazza menti ricominciavano regolarmente e a questo punto ipotizzare un complice ancora in libertà è un modo sagace di mettere le mani avanti, sanando in anticipo qualche contraddizione che potrebbe presentarsi in futuro, ma, insomma. i complici di solito si individuano prima di mettere uno sotto processo, non a condanna pronunciata.
Ecco, non credo che in Italia si faccia, ma in tutti i procedural thrillers che mi è capitato di leggere (o tradurre) il giudice, prima che i giurati si ritirino a deliberare, gli spiega sempre che in caso di dubbio, qualsiasi dubbio, sulla colpevolezza devono dichiarare l'imputato appunto non colpevole. Qui da noi i giudici sono un po' meno signorili, e i giurati proprio soli in camera di consiglio non ce li lasciano, ma il principio che in dubbio si debba essere pro reo fa parte, credo, anche del diritto romano. Non venitemi a dire che un'applicazione rigorosa del criterio del (nessun) dubbio comporterebbe l'assoluzione pressoché automatica di qualsiasi imputato: è vero (sarà per questo che non ricordo un solo processo controverso di cui abbia avuto notizia, da quello Fenaroli in poi, in cui non mi sia trovato istintivamente dalla parte degli innocentisti), ma questo è appunto il problema.

Categorie ideologiche
E allora? Bé, allora è difficile non sospettare che la condanna sia stata pronunciata - che le condanne in genere vengano pronunciate - in base a qualche altra considerazione che non la certezza (impossibile da acquisire) di come siano avvenuti i fatti. Considerazioni che non staremo qui a discutere, che possono avere una loro ragionevolezza e persino una loro necessità, figuriamoci, ma che hanno comunque in comune la caratteristica di non essere dichiarate. Tra i commentatori della sentenza Pacciani soltanto uno (il direttore del Giorno, mi sembra) ha avuto coraggio di scrivere che lui Pacciani lo avrebbe condannato anche in assenza di prova alcuna di colpevolezza, come d'altronde era pronto ad assolvere Muccioli anche se di prove ce ne fossero state a bizzeffe, ma la sua non dev'essere una posizione così isolata. Dubbio e certezza, in fondo, non sono categorie gnoseologiche né psicologiche: sono, a tutti gli effetti, categorie ideologiche, e come tutte le categorie ideologiche ciascuno le applica agli oggetti cui ritiene opportuno applicarle e agli altri no, per avvalorare solo quanto sente il bisogno di avvalorare. Come la cliente della tintoria che non trovava le sue duemila lire nel borsellino e la commessa di fronte a quella gonna macchiata, siamo soprattutto sicuri di quello che ci fa comodo.
E, quanto a questo, ammetterete che un mostro in galera fa più comodo di un mostro in libertà. Se poi tornerà a colpire, peccato. Vorrà dire che aveva dei complici.