Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 24 nr. 213
novembre 1994


Rivista Anarchica Online

Socialismo liberale o socialismo libertario?
di Giampiero Landi

Francesco Saverio Merlino (1856-1930) è una delle figure più critiche e stimolanti nella storia del movimento e del pensiero libertario. Militante anarchico in gioventù, maturò successivamente una critica dell'anarchismo che lo portò all'abbandono del movimento. Avvicinatosi ai filoni riformisti, non vi si identificò mantenendo una sua forte autonomia di pensiero e di giudizio. Può legittimamente essere considerato il precursore di quel «socialismo liberale» sviluppato poi da Carlo Rosselli. È recentemente uscita una poderosa biografia di Merlino, firmata da Giampietro («Nico») Berti, ricercatore di Storia del Risorgimento all'Università di Padova e - soprattutto negli anni '70 - assiduo collaboratore della nostra rivista. In queste pagine Giampiero Landi, responsabile dell'Archivio «A. Borghi» di Castelbolognese, presenta questa biografia e ne discute molte delle tesi interpretative.

Chi mi conosce sa che da diversi anni nella mia formazione culturale e politica, nel mio modo di osservare e di giudicare la realtà e di prospettare soluzioni per risolvere i problemi della società, un posto di assoluto rilievo spetta al pensiero di Francesco Saverio Merlino. Non di rado, nel passato anche recente, mi è capitato di definirmi «anarchico merliniano», proprio a sottolineare la centralità che il pensatore napoletano ha assunto tra i referenti culturali essenziali sui quali si fonda il mio approccio alla realtà sociale. Si può capire quindi con quale impazienza abbia atteso - e con quale interesse abbia poi letto - il recente libro di Giampietro («Nico») Berti, Francesco Saverio Merlino. Dall'anarchismo al socialismo liberale (1856-1930) (Milano, Franco Angeli, 1993, p. 428, L.55.000).
Dirò subito che il libro di Berti - di cui ho potuto seguire in parte la preparazione, leggendo in anticipo alcuni capitoli delle bozze di stampa - ha corrisposto in gran parte alle mie aspettative. Debbo però aggiungere che su alcuni aspetti del volume, e su alcune interpretazioni dell'autore, nutro qualche riserva e perplessità, di cui intendo qui rendere conto.
Mi è sembrato necessario partire da questa premessa per chiarire immediatamente al lettore che questo mio intervento si colloca in uno spazio che trascende i limiti di una comune recensione di un libro, sia pure ritenuto importante. Almeno per quanto mi riguarda, in gioco ci sono le questioni decisive di una politica e di un'economia socialista. Detto in altri termini, affrontare il pensiero teorico di Merlino vuol dire per me riflettere sulle forme che può assumere una ipotetica società futura in cui trovino effettiva realizzazione i principi di libertà e di giustizia sociale, e vuol dire riflettere sulla strategia per arrivare a realizzare queste forme.
Il libro di Berti non si sottrae al confronto su questi temi assolutamente decisivi, ma non sempre le affermazioni e le interpretazioni dell'autore appaiono ai miei occhi convincenti e condivisibili. Prima di affrontare i temi sui quali nutro perplessità, mi sembra doveroso però soffermarmi su alcuni tra i numerosi pregi del volume.

Un libro importante
Scopo dichiarato di Berti è quello di ricostruire, in una monografia completa, «il cammino biografico e teorico di Merlino, il suo complesso e combattuto passaggio dall'anarchismo al socialismo, dal rivoluzionario al riformismo; l'abbandono del punto di partenza iniziale per tentare di rifondarlo ad un livello più alto, problematico e coerente». L'obiettivo di Berti si può considerare brillantemente raggiunto, e l'opera si segnala sia per il rigore metodologico che per la ricchezza dei temi affrontati. Berti segue le tracce di Merlino, per un ventennio protagonista di primo piano dell'anarchismo rivoluzionario, in decine di archivi italiani ed europei, e ne ricostruisce - sulla base degli scritti e delle numerose polemiche in cui restò coinvolto - le idee nel loro farsi e nel loro divenire. Colpisce nel volume anzitutto la notevole ricchezza delle fonti documentarie utilizzate, che è tale da fare ritenere improbabile che in un prossimo futuro - sul piano della ricostruzione degli avvenimenti biografici - l'apparizione di nuovi documenti inediti possa rendere necessarie correzioni o integrazioni di rilievo. In questo senso, e prescindendo quindi dagli aspetti interpretativi e dai giudizi di valore, si potrebbe parlare di una biografia definitiva (nella misura in cui può essere definitiva un'opera storiografica).
Berti procede in modo analitico, parafrasando quasi gli scritti del socialista napoletano, e spesso lasciando parlare lo stesso Merlino mediante un ampio uso di citazioni dalle sue opere. Sicuramente pregevole è anche lo sforzo interpretativo dell'autore, che dà l'impressione di muoversi con disinvoltura nell'ampia e aggiornata bibliografia, confrontandosi con i risultati più avanzati della ricerca nei diversi settori delle scienze umane (aldilà degli aspetti più propriamente storiografici, una personalità come quella di Merlino impone al biografico di misurarsi inevitabilmente con argomenti, talvolta complessi, di filosofia, di diritto, di economia e di sociologia). In conclusione, si può affermare che si tratta di un'opera importante di notevole valore, la prima vera e completa biografia di Merlino condotta a termine con criteri scientifici, un contributo di rilevante spessore alla storia del movimento operaio e socialista e alla storia del pensiero politico.

La critica del marxismo
Particolarmente importanti sono i capitoli dedicati alla ricostruzione della critica di Merlino a Marx e alla socialdemocrazia tedesca. Berti rivendica a ragione a Merlino il merito di essere stato in assoluto il primo critico socialista del marxismo in Europa, «dieci anni prima di Bernstein». Sulla traccia degli studi pionieristici di Pier Carlo Masini e di Aldo Venturini, Berti documenta in modo che definirei inoppugnabile come proprio a Merlino spetti il ruolo di precursore nella «crisi del marxismo» di fine secolo, e soprattutto mette in evidenza come il pensatore napoletano non debba essere considerato in senso stretto un revisionista (perché, riprendendo una definizione di Domenico Settembrini, «il revisionismo si definisce unicamente in rapporto al marxismo») bensì un critico del marxismo, avendo operato nei confronti di questo una netta rottura. Per Berti, l'importanza di Merlino non consiste nell'intrinseco valore teorico o filosofico della sua critica, in quanto la sua analisi del pensiero di Marx non ha una forza analitica penetrativa pari a quella di diversi suoi contemporanei (Antonio e Arturo Labriola, Benedetto Croce, Georges Sorel, Eduard Bernstein, Antonio Graziadei, Enrico Leone), che tutti dal punto di vista strettamente speculativo lo avrebbero superato nella loro ricostruzione interna delle pieghe molteplici e delle sfumature complesse del pensiero marxiano.
Merlino tuttavia, e qui si va al nocciolo del problema e si coglie la sua decisiva importanza, sarebbe «l'unico socialista di quegli anni ad anticipare in modo insuperabile gli esiti necessariamente totalitari della teoria marxista». Meglio di qualsiasi altro egli «individua i nessi interdipendenti fra la dottrina e la sua possibile applicazione». Egli dimostrerebbe che «per realizzarsi il marxismo può solo sviluppare un regime dittatoriale e totalitario», e arriverebbe a questa lucida conclusione, puntualmente confermata dalla storia, ricavandola proprio dall'analisi della teoria marxiana, non solo dal Marx «politico» (su questo piano gli anarchici, da tempo, avevano già detto tutto quanto era necessario), ma soprattutto dal Marx «economico», dal Marx del Capitale.
La battaglia revisionista che Merlino condusse alla fine del secolo scorso, e lo scontro con gli interpreti dell'ortodossia marxista - a cominciare da Antonio Labriola -, sono la testimonianza per Berti di un «difficile e sofferto tentativo di laicizzare il pensiero socialista, al fine di liberarlo dalle mitologie rivoluzionarie e utopistiche».
Un altro aspetto a cui personalmente annetto grande importanza è anche la riproposizione, nel libro di Berti, della critica merliniana all'individualismo da un lato e al comunismo anarchico di Kropotkin dall'altro. Per quanto mi riguarda, il giorno in cui gli anarchici si decideranno finalmente a fare i conti seriamente con le critiche di Merlino e la smetteranno di definirsi comunisti, arriverà sempre troppo tardi.

Una ricostruzione squilibrata
Berti ha il merito di avere riproposto alla nostra attenzione - restituendocela in tutta la sua integrità - una figura di militante e di teorico che per lungo tempo nella storiografia e nella cultura italiana è stata oggetto di una singolare «sfortuna», se non di una autentica rimozione. Il libro di Berti rende finalmente giustizia in sede storiografica a Merlino, a cui difficilmente d'ora in poi potrà essere negato quel posto di primo piano che gli spetta tra i maggiori pensatori del socialismo italiano. Tuttavia - e qui passo a trattare i punti sui quali nutro perplessità - alcuni aspetti del volume si prestano a rilievi critici.
Anzitutto, la stessa struttura del libro presenta un certo squilibro tra le parti relative ai diversi periodi della vita e dell'attività di Merlino: a una ricostruzione fin troppo analitica e dettagliata del giovanile periodo anarchico corrisponde una frettolosa ed eccessivamente sintetica presentazione degli scritti degli anni che precedono la morte.
Berti ricostruisce in modo estremamente accurato la prima fase della biografia politica e intellettuale di Merlino, esponente di primo piano per circa vent'anni dell'anarchismo rivoluzionario italiano e internazionale, seguendolo passo per passo nella sua attività instancabile di militante e di teorico. Questa ricostruzione della fase anarchica di Merlino è preziosa per lo storico, e Berti ha il merito di colmare lacune presenti nella documentazione finora disponibile e di fare chiarezza su alcuni aspetti controversi della biografia merliniana. Non si può tuttavia rilevare come questa parte del volume, con la riproposizione minuziosa di scritti giovanili di Merlino, spesso inevitabilmente poco originali o ripetitivi quando si tratti di articoli e opuscoli di carattere propagandistico e divulgativo, appaia eccessivamente dilatata se messa a confronto con le parti successive. In questa minuziosa ricostruzione rischiano oltretutto di perdersi e di annullarsi quegli scritti merliniani - che pure ci sono - dotati di una autonomia e di una originalità di pensiero che preludono alle opere della maturità. In particolare, a me sembra che Berti non segnali e non valorizzi in modo adeguato l'emergere, nella seconda fase del periodo anarchico di Merlino (che si può fare iniziare con la pubblicazione di Socialismo o Monopolismo? nel 1887), di un pensiero critico originale che porterà il militante napoletano a differenziarsi sempre più dalle tendenze prevalenti all'interno del movimento. Mosso da un'esigenza di rigore e di concretezza nell'approccio alla questione sociale, animato da una visione costruttiva e realizzatrice dell'anarchismo che lo spingeva a porre l'accento soprattutto sugli aspetti positivi del programma e a manifestare un'attenzione costante ai problemi organizzativi della società futura, Merlino non poteva non provare insoddisfazione e insofferenza nei riguardi delle formulazioni vaghe e generiche diffuse all'epoca nel movimento e di cui la maggior parte dei suoi compagni si accontentava. Di qui la critica sempre più serrata alle tendenze individualistiche e antiorganizzatrici da un lato, e alla concezione comunista anarchica di Kropotkin dall'altro, che troveranno espressione soprattutto negli importanti opuscoli Necessità e basi di un accordo (1892) e L'Individualismo nell'anarchismo (1893). Merlino in queste opere si colloca ancora integralmente all'interno dell'anarchismo rivoluzionario, ma il suo è ormai un anarchismo critico che rifugge dalle semplicistiche risposte ai problemi della ricostruzione sociale, ed è alla ricerca di soluzioni praticabili fondate su un'analisi realistica della natura umana e delle leggi che reggono la società. Berti si sofferma ovviamente su questi aspetti, ma la sua calibrata analisi incentrata sugli scritti merliniani e tesa costantemente a discernere in essi ciò che il biografo ritiene corretto da ciò che ritiene errato, mi sembra che non sempre riesca a dare al lettore una chiara percezione della assoluta novità e originalità delle posizioni teoriche che Merlino andava assumendo in quegli anni, all'interno del movimento anarchico rivoluzionario internazionale.
Sempre riguardo questa prima parte del volume, mi sembra anche che Berti assuma un atteggiamento eccessivamente duro e liquidatorio nei confronti dell'esperienza storica dell'insurrezionalismo anarchico nei decenni di fine Ottocento e inizio Novecento. Evidenziare i limiti e le carenze dell'insurrezionalismo (e più in generale del «sovversivismo» di molta parte della sinistra italiana in quegli anni) può risultare oggi un esercizio fin troppo facile e scontato, ma nell'affrontare questi argomenti sarebbe compito dello storico rendere conto anche delle ragioni serie e profonde della protesta sociale e politica nell'Italia post-unitaria, prescindendo dalle quali ogni ricostruzione non può non peccare di astrattezza.
Uno spazio sicuramente adeguato è riservato da Berti al periodo centrale della vita di Merlino, di svolta e di elaborazione di un pensiero completamente autonomo, che dalla critica parallela dell'anarchismo e del marxismo approda negli anni di fine secolo a una nuova e originale concezione del socialismo. Berti si sofferma a lungo, giustamente, sulla polemica del 1897 con Malatesta che segna il distacco definitivo di Merlino dal movimento anarchico. Altri capitoli sono dedicati a una analisi approfondita dei volumi Pro e contro il Socialismo (1897), L'Utopia collettivista e la crisi del «socialismo scientifico» (1898), Formes et essence du socialisme (1898), e dell'importante «Rivista Critica del Socialismo», che Merlino farà uscire per tutto il 1899.
Come è noto, la battaglia di Merlino all'interno del partito socialista, al quale aveva aderito alla fine del 1899, si esaurì nell'arco di pochi anni ed egli, preso atto del proprio isolamento e dell'incomprensione di cui erano oggetto le sue idee, si ritirò ben presto a vita privata. Ritornò all'impegno politico e all'elaborazione teorica nei suoi ultimi anni, nel periodo convulso del primo dopoguerra, nel clima di lotte sociali e politiche del «biennio rosso» e del successivo avvento del fascismo. È questa la fase conclusiva e certo più matura dell'elaborazione teorica di Merlino, caratterizzata da opere importanti e significative, ma stranamente questo periodo è trattato da Berti in modo frettoloso e fin troppo sintetico. Sembra di capire che per Berti, con Pro e contro il Socialismo e con il contributo decisivo alla crisi del marxismo di fine secolo, Merlino abbia raggiunto il punto più alto della propria parabola intellettuale e abbia delineato tutti gli aspetti fondamentali della sua peculiare concezione del socialismo, per cui tutte le opere successive non potranno essere che una rielaborazione e un approfondimento di temi già sviluppati nell'opera maggiore, senza sostanziali novità di qualche rilievo. Solo questo può spiegare la sorprendente sottovalutazione del periodo conclusivo della vita del pensatore napoletano, alla cui ricostruzione Berti dedica solo 23 pagine sulle complessive 415 del libro. Eppure si tratta di un periodo fecondo sul piano intellettuale, nel corso del quale Merlino scrive opere di notevole interesse, tra cui gli opuscoli Fascismo e democrazia (1924) e Politica e magistratura dal 1860 ad oggi in Italia (1925). Soprattutto, sono gli anni in cui Merlino si accinge alla stesura di un'opera teorica di notevole impegno, che verrà pubblicata postuma solo nel 1948 presso l'editore Longanesi a cura di Aldo Venturini (a cui va il merito di avere raccolto e curato con grande competenza il manoscritto) con il titolo I1 problema economico e politico del socialismo. Di questo libro importante e sotto diversi profili originale, che può essere considerato il testamento spirituale di Merlino, il documento che sintetizza l'approdo di una intera vita di riflessione e di inquieta ricerca, Berti sembra cogliere come novità solo l'aspetto relativistico, che per quanto significativo non è esaustivo delle problematiche affrontate. Maggior spazio avrebbe meritato perlomeno l'analisi critica cui Merlino sottopone l'economia collettivistica e il piano unico di produzione e di scambio, caposaldo teorico della socialdemocrazia tedesca che, proprio negli anni in cui Merlino scriveva la sua ultima opera, stava trovando una sostanziale realizzazione storica a opera dei bolscevichi in Russia, dopo la loro conquista del potere. Confutando l'opuscolo di Bucharin, L'ABC del comunismo, Merlino si riallaccia alle critiche che sul piano strettamente teorico egli aveva già avanzato con le sue opere del 1897/98, Pro e contro il Socialismo e L'utopia collettivista, e ha buon gioco nel dimostrare come la matrice del collettivismo burocratico instaurato dai bolscevichi in Russia sia da rintracciare nella socialdemocrazia tedesca, e in particolare nel libro di August Bebel, La donna e il socialismo, che aveva avuto un'enorme fortuna nel socialismo europeo.

Uno schema interpretativo moderato
Un altro aspetto interessante di quest'ultimo periodo della vita di Merlino è rappresentato dal fatto che il suo ritorno alla politica attiva, con gli scritti e con la sua generosa e coraggiosa attività di avvocato difensore dei militanti della sinistra in numerosi processi, coincide con un suo riavvicinamento al movimento anarchico (un riavvicinamento che non significa però né una completa adesione né un ritorno alla fede della sua giovinezza). Buona parte degli scritti merliniani del primo dopoguerra, non a caso, trovarono ospitalità sulle riviste e sui giornali anarchici dell'epoca (Pagine Libertarie, Pensiero e Volontà, Umanità Nova). Riprendeva in quegli scritti, dopo una lunga parentesi e allargandosi anche a Luigi Fabbri e ad altri esponenti dell'anarchismo, la vecchia polemica con Malatesta. Ne uscivano alcune pagine di grande acutezza e lucidità, che aggiunte ai documenti relativi alla polemica del 1897, costituiscono ancora oggi uno dei punti più alti di riflessione sul nodo democrazia-socialismo-anarchismo. Si vedano, in particolare, le lettere di Merlino a Fabbri, da quest'ultimo pubblicate su «Pensiero e Volontà» col titolo Stato e non-Stato (1 Luglio 1926) e Ancora Stato e non-Stato (25 Agosto 1926) (ora riprodotte in Appendice a F. S. Merlino, I1 socialismo senza Marx, a c. di Venturini, Bologna, Boni, 1974, pp. 623-626).
Stupisce la frettolosità di Berti nei confronti di questi e di altri importanti scritti merliniani del periodo, liquidati a volte in poche righe o semplicemente citati nelle note del libro. Più in generale, nelle pagine conclusive del suo volume Berti sembra in difficoltà di fronte alla necessità di rendere conto al lettore del perché, riprendendo a occuparsi di politica nei suoi ultimi anni, Merlino trovi proprio negli anarchici i suoi interlocutori preferenziali, pur senza rinunciare a sottolineare la distanza che lo separa da essi su alcune questioni essenziali. Agli occhi di Berti - che considera il Merlino della maturità un riformista - questa appare come una incongruenza, spiegabile solo con le contraddizioni interne al pensiero merliniano, che si dibatterebbe fino all'ultimo tra un sostanziale e prevalente realismo e la ricorrente tentazione della fuga nell'utopia. Secondo Berti, alcune prese di posizione di Merlino in quegli anni dimostrerebbero come anche lui, per quanto «sicuramente immune da atteggiamenti irresponsabili e demagogici, non sia capace di sottrarsi al rivoluzionarismo del primo dopoguerra nato sulla scia della rivoluzione bolscevica; e ciò nonostante egli fosse stato tra i primi a criticare la pratica totalitaria del comunismo russo».
Il fatto è - e qui andiamo al nocciolo del problema e al cuore della mia critica a Berti - che in tutto il libro prevale un'interpretazione moderata del pensiero merliniano della maturità, che si rivela incapace di cogliere la sua irriducibile radicalità. Lo schema interpretativo sul quale si regge tutta l'analisi di Berti è trasparente. Per Berti o si è rivoluzionari o si è riformisti. O si è anarchici o si è liberaldemocratici (escludendo in partenza, come è ovvio, che Merlino possa diventare un comunista autoritario). Tertium non datur. Nel momento in cui Merlino, con la polemica del 1897 con Malatesta, abbandona l'anarchismo, il suo approdo non può essere altro che quello del riformismo e della liberaldemocrazia, sia pure nella sua variante socialista liberale. Basandosi su questo paradigma interpretativo, è ovvio che per Berti i tentativi di Merlino di salvare negli anni della maturità le ragioni profonde e i valori essenziali del suo giovanile anarchismo, conciliando tali valori con le sue acquisizioni teoretiche, siano solo il frutto di una generosa e umanamente comprensibile illusione, e siano destinati fatalmente al fallimento. Berti, in certi momenti del libro, sembra anzi spazientirsi di fronte a certe affermazioni di Merlino che egli considera alla stregua di ritorni all'indietro nell'ideologia e nell'utopia. Sembra di capire che per Berti sarebbe più logico che il suo biografato la facesse finita con quelle che ai suoi occhi non sono altro che contraddizioni e immaturità, e arrivasse in fretta a quello che egli considera lo sbocco inevitabile del processo di revisione teorica merliniano, cioè alla accettazione piena e conseguente dei principi liberaldemocratici.

Riforme e rivoluzione
Ora, a mio avviso, il fascino l'interesse e l'attualità di Merlino derivano invece proprio dal fatto che egli tra i primi ha cercato, con notevole successo, una terza via nella direzione di una anarchia possibile. Privare Merlino della sua radicalità, della sua incessante tensione alla trasformazione dell'esistente, vuol dire sottrargli gran parte della sua originalità e della sua importanza. Ciò che rende ancor oggi utile e necessario il misurarsi con il suo pensiero è il fatto che egli mette a fuoco con estrema lucidità i problemi economici e politici di una società socialista, delinea in modo convincente le forme che dovrebbe assumere una tale società, e fornisce un contributo essenziale alla ricerca di una strategia per realizzare queste forme.
Bisogna prendere Merlino sul serio quando, negli anni della sua maturità, si definisce «riformista rivoluzionario»: «Se dovessi nominarmi o classificarmi, mi direi riformista rivoluzionario: riformista perché ritengo che bisogna battere la via delle riforme trasformatrici dell'attuale ordinamento sociale: rivoluzionario, perché ritengo che la lotta per le riforme dev'essere combattuta non da un gruppetto parlamentare, ma direttamente dalle classi popolari, e con tutti i mezzi, nessuno escluso» (F. S. Merlino, Lettera a Enrico Ferri, «Avanti», 16 settembre 1906).
Per Berti, con questa dichiarazione Merlino «ricadeva nel più completo confusionismo terminologico e concettuale». L'incapacità di Berti di cogliere la fecondità e l'originalità del «riformismo rivoluzionario» di Merlino deriva dalla concezione che Berti ha della rivoluzione. Per Berti (come già per Domenico Settembrini a cui egli si riallaccia esplicitamente) «la discriminante tra riformismo e rivoluzionarismo non è data dal criterio del mezzo, ma dall'obiettivo del fine». Detto altrimenti, «il crinale che divideva e divide» il rivoluzionarismo dal riformismo, consiste nel fatto che «il primo non accettava e non accetta il capitalismo e la democrazia liberale, mentre il secondo ammetteva e ammette la possibilità della loro riforma». Per Berti, essere rivoluzionario significa credere «alla possibilità di un rovesciamento totale dell'esistente e alla costruzione ab imis della società futura». Nel momento in cui si abbandona questa visione palingenetica della società futura, vista come il «totalmente altro» rispetto alla società esistente, si smette di essere rivoluzionari e si diventa riformisti.
Se Berti avesse ragione - dato che ogni società, anche la più ingiusta e irrazionale, ha sempre qualcosa di buono, e in ogni caso è difficile immaginare che gli esseri umani modifichino di colpo e radicalmente proprio tutte le loro condizioni di esistenza e la loro mentalità -, la rivoluzione non sarebbe né possibile né auspicabile, e tanto varrebbe relegarla tra le assurdità della storia (1).
Il paradigma interpretativo di Berti, nella sua schematica assolutezza, non può rendere giustizia al «riformismo rivoluzionario» di Merlino. Il fatto è che Merlino, pur perdendo a un certo punto le illusioni giovanili sulla prossima inevitabile insurrezione che avrebbe scosso dalle fondamenta la società e l'avrebbe rifondata su basi completamente diverse, non cessa per tutta la vita di lottare per una profonda e radicale trasformazione sociale. Proprio questa incessante tensione a una società di tipo nuovo e diverso, unita alla sua proposta di una strategia di lotta più realistica e originale, rende il suo pensiero irriducibile a un'interpretazione di tipo puramente riformista. Merlino, sulla scorta anche della critica che si diffonde alla fine dell'Ottocento nei riguardi della teoria marxiana della caduta tendenziale del saggio di profitto e della correlata inarrestabile proletarizzazione dei ceti intermedi - una teoria palesemente e clamorosamente smentita dai fatti - arriva a rifiutare ogni concezione catastrofica e palingenetica della rivoluzione, senza per questo eliminare la rivoluzione stessa dal proprio orizzonte concettuale. La società socialista, al Merlino della maturità, appare come un prolungamento della società presente, e non il suo rovesciamento. Egli ritiene che già nella società presente sia possibile e doveroso inserire elementi di socialismo, attraverso un vasto movimento di riforme dal basso, che ne mutino gradatamente la natura e la qualità fino a che l'essenza del socialismo stesso (non si insisterà mai abbastanza sulla centralità che nel pensiero merliniano ha la distinzione tra «forme» e «essenza» del socialismo) non informi definitivamente i rapporti sociali. La rivoluzione, in questo processo, resta sullo sfondo ma non viene negata, e se per essa si intende una radicale trasformazione dell'esistente, viene a identificarsi con il vasto e organico movimento di riforme propugnato da Merlino, che deve investire tutti i campi della vita civile, politica ed economica. Merlino non esclude neppure il ricorso all'insurrezione, e lo ritiene anzi pressoché inevitabile al termine del processo di trasformazione sociale: l'insurrezione rappresenta una fase attraverso la quale sarà quasi certamente necessario passare, allorché la cosciente pressione riformatrice si scontrerà con la resistenza opposta dalle forze della vecchia società che non vorranno o non potranno arrivare a concessioni maggiori, che significherebbero la loro scomparsa.
Per realizzare il processo di trasformazione gradualista della società, Merlino propone un'alleanza tra la classe operaia e i ceti medi contro la ristretta cerchia degli effettivi detentori del capitale e del potere. Il socialismo è visto non come il trionfo di una classe sulle altre, ma come il prevalere dell'interesse generale sugli interessi particolari. Esso è lo sbocco comune e il risultato degli sforzi dei movimenti progressivi di tutte le classi. Il socialismo - per Merlino come già per Proudhon - non è altro che l'affermazione dell'idea di giustizia nei rapporti sociali. Per Merlino, il principio della lotta di classe non va eliminato, ma va assunto in modo esclusivo e va integrato nella teoria socialista con il principio dell'interesse generale, che deve essere prevalente e che comporta anche la solidarietà delle classi. Come già si è accennato, per Merlino il movimento riformatore deve investire tutti i settori. Esso deve trovare una rispondenza anche nelle istituzioni, permeandole e trasformandole al pari della società civile. Di qui l'accettazione, da parte di Merlino, delle elezioni e del parlamentarismo. Deve essere chiaro però che per Merlino il baricentro del movimento riformatore, che parte dal basso, deve continuare ad essere nella società, pena il suo snaturamento e il suo progressivo recupero da parte del «sistema» (da qui, negli anni della militanza di Merlino nel partito socialista, la sua polemica con il riformismo ministerialista di Turati). Per inciso, il «riformismo rivoluzionario» di Merlino esercitò probabilmente qualche influenza sulla elaborazione da parte di Malatesta, negli anni conclusivi della sua vita, di quella concezione del «gradualismo rivoluzionario» che segnava il superamento del precedente insurrezionalismo. L'unica differenza di rilievo, non di poco conto, consiste nel fatto che il «gradualismo rivoluzionario» malatestiano rimarrà sempre rigorosamente antiistituzionale.
Le argomentazioni di Merlino, nel delineare il rapporto riforme-rivoluzione, sono spesso di grande finezza. Certo, non si può pretendere di trovare nelle sue pagine le risposte a tutti i problemi posti dalla lotta politica e dalla trasformazione della società. Egli tuttavia fornisce contributi e stimoli di grande rilievo, e soprattutto indica il terreno sul quale questi problemi possono trovare una soluzione razionale. In questo senso, Merlino è uno dei pochi pensatori della sua epoca ancora attuali, a cui i libertari possono fare utilmente riferimento per l'elaborazione di una strategia valida per il presente.

Socialismo liberale e socialismo libertario
Anche alla luce delle considerazioni finora svolte sul rapporto riforme-rivoluzione, mi sembra che possa essere accolta solo con molte cautele una delle tesi di fondo del volume di Berti, secondo cui va attribuito a Merlino il merito di essere stato, sulla scia di Proudhon e molto prima di Carlo Rosselli, «il primo vero iniziatore di quella corrente di pensiero che va sotto il nome di socialismo liberale». Questa tesi per la verità non è del tutto nuova, essendo stata già avanzata alcuni anni in un suo saggio da Aldo Venturini, il maggior discepolo e studioso del pensiero merliniano in questo secondo dopoguerra, al cui nome il libro di Berti è opportunamente dedicato (2).
In tempi diversi, opinioni analoghe sono state espresse anche da Pier Carlo Masini e da Nicola Tranfaglia. In particolare quest'ultimo, nella voce «Liberalsocialismo» da lui curata per il Dizionario di politica della UTET, rileva che «accenti e motivi liberalsocialisti si trovano in una serie di movimenti e correnti diverse tra loro, caratterizzati in via principale da altre intuizioni, e non è quindi lecito rifarsi ad essi nel momento in cui si vuol delineare il nucleo dell'ideologia liberalsocialista. Così piuttosto che ai fabiani o a Bernstein e in genere a tutto il revisionismo europeo agli inizi del Novecento, sarà utile far riferimento preciso a quei teorici che di L. o socialismo liberale hanno parlato esplicitamente facendone il centro della propria speculazione. E, da questo punto di vista, il filo rosso corre dall'inglese L. T. Hobhouse all'italiano Saverio Francesco Merlino e poi ancora, in epoca più recente, da Carlo Rosselli a Guido Calogero e agli altri teorici del movimento liberalsocialista degli anni Trenta e Quaranta» (3).
Nonostante questi autorevoli avalli, a me sembra che l'attribuzione a Merlino da parte di Berti del ruolo di precursore del socialismo liberale rappresenti una forzatura. Intanto è chiaro che, anche accettando per valida questa tesi, si tratterebbe esclusivamente di un primato sul piano della formulazione teorica di alcuni princìpi basilari, in quanto è indiscutibile che sul piano storico una corrente politica che si richiama ai valori del socialismo liberale sia nata solo negli anni Trenta su ispirazione di Carlo Rosselli. Come è noto, Rosselli scrisse la sua opera teorica principale, intitolata appunto Socialismo liberale, nel 1929 mentre si trovava al confine a Lipari. L'opera fu pubblicata per la prima volta l'anno successivo a Parigi, in versione francese, dopo la leggendaria fuga di Rosselli dall'Italia fascista, e divenne ben presto il referente teorico essenziale del nuovo movimento di «Giustizia e Libertà», la prima corrente politica organizzata a ispirarsi esplicitamente al liberalsocialismo. Precisato questo, si deve anche osservare che, aldilà di certe somiglianze tra alcune affermazioni di Merlino e di Rosselli, che oggi possono risultare suggestive, le origini culturali del fondatore di «Giustizia e Libertà» vanno ricercate altrove. È dubbio che Rosselli conoscesse per averla letta l'opera di Merlino. Il nome di Merlino, in Socialismo liberale, non compare mai. Nei tre volumi degli Scritti politici di Rosselli, pubblicati dalla casa editrice Einaudi, il nome di Merlino compare una volta sola, in un elenco dei revisionisti del marxismo di fine secolo «di destra e di sinistra», a fianco dei nomi di Pareto, Croce, Labriola, Bernstein, Turati, Mondolfo, Leone, Sorel (C. Rosselli, La crisi intellettuale del partito socialista, «Critica sociale», 1-15 novembre 1923, ora riprodotto in C. Rosselli, Socialismo liberale e altri scritti, a c. di John Rosselli, Torino, Einaudi, 1973, p. 85). Troppo poco per concludere che Rosselli avesse letto sul serio Merlino, e a maggior ragione per ritenere che ne fosse stato influenzato. E' ovvio che l'apparizione di nuove fonti potrebbe modificare in tutto o in parte questo giudizio. Allo stato attuale delle conoscenze, basandomi sulle fonti finora edite, mi sentirei tuttavia di escludere che una influenza diretta di Merlino su Rosselli ci sia stata. Sgombrato il campo sul piano della diretta filiazione storica, resta da discutere se la formula adottata da Berti, e ripresa anche nel titolo del suo libro, sia la più adatta per sintetizzare il pensiero teorico di Merlino negli anni della sua maturità. Il fatto è, che non è certo illegittimo individuare in Merlino alcuni spunti liberalsocialisti (e potrebbe essere agevole per chiunque estrapolare dai suoi scritti delle citazioni che si prestino a questa interpretazione), il pensiero merliniano è caratterizzato da una radicalità di fondo che lo rende comunque irriducibile a questa e ad altre definizioni che sono state tentate nei suoi riguardi nel passato. Del resto, che una certa cautela sia necessaria, sembra rendersene conto lo stesso Berti, che subito dopo avere appunto attribuito a Merlino il ruolo di precursore in Italia del socialismo liberale, si preoccupa di aggiungere che «non si tratta, beninteso, di una identificazione totale perché la sua idea fondamentale, secondo la quale esiste e deve esistere una sostanziale differenza pratica e teorica fra l'essenza del socialismo e i sistemi socialisti, apre un ventaglio ampio di interpretazioni che domandano di essere vagliate onde delineare la sua particolarissima vicenda storica e umana, effettivamente refrattaria e irriducibile ad ogni schematizzazione» .
Anziché di «socialismo liberale», nel caso di Merlino a mio avviso sarebbe più corretto e opportuno parlare di «socialismo libertario» (che era poi la definizione che egli stesso si attribuiva), A questo punto è necessario fare uno sforzo per cercare di delineare il più possibile chiaramente le caratteristiche e i confini che intercorrono tra queste due correnti politiche e ideali, che peraltro si presentano affini sotto diversi profili (e proprio da queste affinità e somiglianze, dal fatto cioè di collocarsi su territori contigui e in parte combacianti, scaturiscono le affinità sul piano interpretativo). Solo così sarà possibile stabilire su quale lato del confine si collochi il Merlino della maturità, che è quello più originale e che più ci può oggi interessare.
Comune sia al «socialismo liberale» che al «socialismo libertario» è sicuramente la percezione che le due grandi ideologie della modernità secolarizzata, il liberalismo e il socialismo, siano portatrici entrambe di istanze di liberazione umana che sono state però stravolte dalla assolutizzazione che storicamente è stata fatta di alcuni principi ritenuti basilari. Di qui la possibilità e la necessità di una loro integrazione in una sintesi, che però nel «socialismo libertario» si presenta con caratteristiche più radicali e avanzate rispetto a quella prospettata dal «socialismo liberale» (o «liberalsocialismo»). Potremmo aggiungere che l'anarchismo, da parte sua, si pone a sua volta «a sinistra» del «socialismo libertario», con una propria peculiare sintesi delle istanze di libertà e di eguaglianza che presenta caratteristiche ancora più avanzate e rivoluzionarie. (Il problema, a questo punto, riguarda la realizzabilità storica di queste ideologie; per quanto mi concerne, da molto tempo ritengo irrealizzabile l'anarchia allo stato puro, e credo sia più produttivo puntare alla creazione di una società socialista libertaria, che identifico con il massimo di «anarchia possibile»; devo aggiungere, però, che di fronte all'inarrestabile marea montante della moderna barbarie che ci circonda, vivere in una società autenticamente ispirata ai valori del liberalsocialismo mi sembrerebbe oggi un enorme progresso) (4).

Un pensiero irriducibilmente radicale
Se lo spazio politico in cui germina il socialismo libertario è lo stesso che dà origine al liberalsocialismo (l'intuizione che è possibile e necessaria una sintesi fra libertà e eguaglianza), il primo si differenzia dal secondo, come già si è accennato, per una maggiore radicalità. E' questa stessa radicalità che a mio avviso contraddistingue il Merlino della maturità, rendendolo irriducibile a ogni interpretazione riduttivamente riformista o moderata. La radicalità di Merlino si manifesta perlomeno in tre aspetti fondamentali e qualificanti: 1) Il pensatore napoletano, come si è visto in precedenza, non abbandonerà mai del tutto la prospettiva rivoluzionaria (nel suo «riformismo rivoluzionario» non è lecito separare il primo termine dal secondo); 2) la sua accettazione del mercato non comporterà mai anche l'accettazione del capitalismo. (Se ne accorge anche Berti, secondo il quale l'esistenza del mercato implicherebbe «il mantenimento della proprietà privata. Ma Merlino non accetta questa conclusione logica e propone invece che, in questa cooperazione integrale, scompaia la proprietà individuale della terra». Merlino, in effetti, è a favore di un socialismo di mercato che oggi verrebbe definito autogestionario. Il problema fondamentale in campo economico, per Merlino, è impedire la formulazione di ogni forma di monopolio. I mezzi di produzione devono essere socializzati, e affidati ai lavoratori singoli o associati in forma cooperativa. Il mercato, dotato di tutti i correttivi che si rendano necessari per evitare storture del sistema, deve continuare come regolatore della produzione e dei consumi. La società deve garantire a sussistere a tutti eguali condizioni di partenza, limitandosi a pretendere per sé - per il mantenimento dei servizi di pubblica utilità e per la redistribuzione del reddito ai più svantaggiati - i profitti e le rendite, corrispondenti alle differenze di produttività dei terreni); 3) nel socialismo merliniano rimarranno sempre robusti elementi di antistatalismo (poco importa che Merlino affermi che «non ha più senso la distinzione anarchica fra Stato e non Stato, lo ha, invece, la distinzione fra Stato liberale e Stato non liberale»: in effetti, ad esaminarla con attenzione, la sua concezione dello Stato liberale e della democrazia non è molto diversa da quella «società auto-organizzata» che è l'obiettivo in cui si riconosce e si identifica buona parte dell'anarchismo).
In conclusione, per Merlino l'anarchismo viene a identificarsi con la democrazia autentica e compiuta. Nell'archivio privato di Aldo Venturini esiste un biglietto, scritto di suo pugno da Merlino poco prima della morte, in cui troviamo la formula «democrazia = anarchia». Nel 1924, in Fascismo e democrazia, Merlino scrive che «noi abbiamo oggi le forme della Democrazia, ma non abbiamo la Democrazia» (5).
Nel Testamento politico di Merlino, pubblicato da Venturini in Appendice a F. S. Merlino, Il socialismo senza Marx, troviamo queste parole estremamente indicative: «I principi di libertà, di eguaglianza, ecc. non sono assoluti ma relativi. Non è dato desumere le norme della convivenza da astrazioni. La realtà di quelle che sono state le relazioni sociali, può servire da punto di partenza per miglioramenti nella stessa direzione. Si può aspirare a maggiore libertà, eguaglianza, giustizia, non a tutta la libertà, a tutta l'uguaglianza e a tutta la giustizia. Il socialismo è appunto quest'aspirazione a maggior libertà, a maggior eguaglianza e a maggior giustizia. Esso è figlio del liberalismo o democrazia. Governo di tutti = governo di nessuno» (6).
Berti legge in questa, e in altre affermazioni simili contenute negli ultimi scritti, soltanto la dimostrazione dell'approdo di Merlino alla liberaldemocrazia. A me sembra che le cose siano un po' più complesse, e che con la sua ricerca di una «anarchia possibile», Merlino vada annoverato tra i fondatori e teorici (insieme a Andrea Caffi e a qualcun altro) di una nuova e diversa corrente politica: il socialismo libertario.
Questo dissenso, e gli altri rilievi critici che ho esposto qua e là in queste pagine, nulla tolgono al sincero apprezzamento - e oserei dire all'ammirazione - per il libro di Berti, che finora purtroppo non mi sembra abbia avuto - all'interno e all'esterno del movimento anarchico - tutta l'attenzione che merita. Con pazienza, passione e rara competenza, Berti ha saputo restituirci nella sua incertezza il profilo di un grande pensatore su cui vale ancora la pena di riflettere e meditare. Di questo gli siamo e gli saremo sempre grati.

l) In una nota del suo libro, Berti polemizza con l'interpretazione di Massimo La Torre secondo cui «Merlino rimase nella sostanza sempre rivoluzionario perché disposto, all'occasione, a rompere con la legalità vigente». Scrive Berti: «La Torre porta a sostegno il paradigma di Bobbio (N. Bobbio, Riforme e rivoluzione, in Il mondo contemporaneo, IX, Politica e società, II, a cura di P. Farneti, Firenze, 1979, specialmente pp. 752-753), per il quale la discriminante tra strategia delle riforme e strategia rivoluzionaria si dà «in base al diverso atteggiamento di fronte al principio di legalità». Posto così, relativamente a Merlino, questo criterio non regge assolutamente, appunto perché qui si confonde ancora una volta il rivoluzionarismo dei mezzi con il conformismo dei fini. Proprio prendendo ad esempio lo stesso Bobbio, si dovrebbe allora sostenere, con tale giudizio, che il grande studioso torinese fu a suo tempo rivoluzionario perché, militando nel Partito d'Azione, egli era nel 1943-45 contro il principio della legalità esistente che, come si sa, si identificava in quel momento con quella fascista. Ma da ciò si può dedurre che Bobbio era veramente rivoluzionario, che i suoi fini erano realmente rivolti al sovverti mento totale dell'esistente, come lo erano a quel tempo, ad esempio, sia pure con prospettive diverse, personaggi quali Pietro Secchia o Armando Borghi? No, naturalmente». (G. Berti, Francesco Saverio Merlino ... , pp. 387-388, n. 45). Spero che Berti non me ne voglia, ma a me sembra invece che in questo caso abbiano ragione La Torre e Bobbio. Il criterio della rottura della legalità mi sembra di per sé sufficiente per qualificare una strategia rivoluzionaria. Perlomeno se ciò per cui si battono i rivoluzionari non si identifica con la pura restaurazione di istituzioni preesistenti (nel qual caso si dovrebbe parlare di «rivoluzione restauratrice» o di «restaurazione» tout court). Proprio l'esempio citato da Berti del Partito d'Azione nella Resistenza si presta a considerazioni aggiuntive. Il Partito d'Azione può essere ritenuto rivoluzionario non solo per i mezzi - l'insurrezione armata contro i nazifascisti -, ma anche per i fini. Anche se non volevano un sovvertimento totale dell'esistente (l'unico criterio che per Berti abbia validità), gli aderenti al Partito d'Azione lottavano comunque - e lo dichiaravano apertamente scrivendolo anche nei loro documenti per una «rivoluzione democratica» che trasformasse nel profondo il nostro paese. Essi rifiutavano la restaurazione delle strutture dello Stato liberale prefascista, e si battevano per la nascita di uno Stato democratico di tipo nuovo. Si può rifiutare al Partito d'Azione la qualifica di partito rivoluzionario, soltanto se si attribuisce a questa qualifica, come fa Berti, un carattere di assolutezza, identificandola appunto con la ricerca del «totalmente altro». L'adozione del suo criterio, peraltro, ho l'impressione che ridurrebbe a ben poca cosa la presenza della rivoluzione nell'intero arco della storia umana.

2) Aldo Venturini, Alle origini del socialismo liberale. Francesco Saverio Merlino, Bologna, Boni, 1983.

3) Nicola Tranfaglia, Liberalsocialismo, in Dizionario di politica, a cura di N. Bobbio, N. Matteucci e G. Pasquino, Torino, UTET, 1990 (I ed., 1983). Cito dalla ristampa in edizione economica pubblicata su licenza della UTET dalla Casa editrice TEA, 1990, p. 584.

4) Per chiarire meglio il significato di uno dei termini fin qui utilizzati, riporterò ampi brani della già citata voce Liberalsocialismo scritta da Nicola Tranfaglia per il Dizionario di politica della UTET (pp. 584-585). Mi scuso in anticipo per la lunghezza delle citazioni, ma ritengo che valga la pena chiarire, con l'aiuto di questa presentazione lucida e organica, che cosa si debba intendere esattamente per socialismo liberale.
Scrive Tranfaglia «La dottrina liberalsocialista nasce da un'analisi serrata, ma a suo modo distaccata e serena, della crisi in cui versano socialismo marxista e liberalismo liberista. Gli obbiettivi delle due correnti sono comuni - il progresso generale della società umana - ma attaccati da lati differenti: l'una pone l'accento sulla solidarietà sociale, sulla responsabilità e sui doveri che ha il forte nei confronti del debole, le sue parole d'ordine sono cooperazione e organizzazione. L'altra ritiene che la completa esplicazione della libertà di ciascuno non può non condurre all'avanzamento di tutta la società. Ma il socialismo marxista trascura le conquiste fondamentali della democrazia liberale, a cominciare da tutti i diritti individuali di libertà, nell'errata convinzione che essi siano retaggio del capitalismo liberale e in definitiva d'una civiltà da abbattere; il liberalismo liberista, da parte sua, favorisce la permanenza e l'accrescersi delle situazioni di privilegio e di disuguaglianza presenti nell'ordine capitalistico.
L'errore fondamentale, sostengono i liberalisti, è quello di ritenere che le due correnti siano contrastanti e inconciliabili tra loro, mentre in realtà una loro integrazione è non solo possibile ma auspicabile. La condizione necessaria perché questo avvenga è che l'una e l'altra rinuncino ad alcuni dei propri "dogmi" che non trovano più riscontro nella realtà. Il "dogma" a cui il liberalismo deve rinunciare è, per i liberalsocialisti, il liberismo. Secondo una fondamentale distinzione dovuta ( ... ) a Stuart Mill e ulteriormente chiarita e precisata da Croce, considerare il liberismo come caratteristica irrinunciabile della dottrina liberale significa fare di esso, che è un "legittimo principio economico", una "illegittima teoria etica" ( ... ). Il liberalismo non ha nulla da opporre all'intervento statale in economia se esso avviene nel rispetto dei diritti dell'individuo e con l'obbiettivo di salvaguardare gli interessi comunitari. Il problema semmai è quello di conciliare gli uni e gli altri, salvando della tradizione liberistica quello che non urta con le nuove esigenze del progresso sociale. Quanto al socialismo, i liberalsocialisti sostengono che è tempo di superare la concezione marxista dello Stato e della società umana. Il dibattito revisionista ha dimostrato, a loro avviso, che il nucleo determinista, economicista e fatalista del marxismo mal si concilia con la libera espressione della personalità degli individui che è al centro della concezione liberale e conduce le masse a puntare tutto sulla trasformazione materiale della società (socializzazione dei mezzi di produzione, ecc.) e a non impegnarsi in quella «rivoluzione delle coscienze» che è il presupposto di ogni nuovo ordinamento socialista. Anche qui si pone sullo stesso piano quello che è un mezzo, sia pure importante, della svolta rivoluzionaria come la socializzazione dei mezzi di produzione con i fini della rivoluzione che consistono nella trasformazione delle masse e nella costruzione di una società che abolisca i privilegi sociali ed economici e dia a tutti la libertà dal bisogno come ogni altra libertà consacrata dalla tradizione liberale (i diritti politici della persona, le libertà di parola, di stampa, di voto e così via».
Passando a delineare poi la parte positiva del liberalsocialismo, Tranfaglia individua i seguenti aspetti: «In campo politico, l'esigenza che ogni legge, ogni norma di governo tragga il suo diritto solo dal consenso della maggioranza e che individui e gruppi sociali abbiano modo di lottare liberamente per l'affermazione delle proprie idee: così non è compatibile con la concezione liberalsocialista una libertà di stampa infirmata dal dominio finanziario di pochi gruppi editoriali o l'esistenza di movimenti politici che non rispettino al loro interno le regole fondamentali della democrazia. Sul piano economico-sociale, l'istanza fondamentale è «il raggiungimento della massima proporzionalità possibile tra il lavoro che si compie e il bene economico di cui si dispone»: a ciascuno, insomma, secondo il proprio lavoro. Un simile obbiettivo nell'ideologia liberalsocialista si traduce in una pregiudiziale anticapitalistica non assoluta ma relativa, tesa soprattutto a impedire situazioni di parassitismo o di particolare privilegio (di qui l'insistenza sulla necessità della tassazione progressiva) e soprattutto nella delineazione di un' economia «mista» o «a due settori»: in cui coesistono imprese private accanto a settori nazionalizzati o comunque controllati dallo Stato secondo criteri distributivi di tipo empirico, che scaturiscono di volta in volta dalle esigenze della società nel suo complesso.
Sui problemi internazionali si riproducono i punti essenziali dell'ideologia: applicazione dell'esigenza comunitaria nei rapporti tra gli Stati, lotta a razzismo, imperialismo, nazionalismo, tendenza alla cooperazione e alla sempre più ampia estensione di organismi internazionali rappresentativi».
Secondo Tranfaglia, il liberalsocialismo dedica una particolare attenzione, «nella costruzione di uno Stato di tipo nuovo, alle garanzie giurisdizionali e all'educazione delle masse. In una società che si basa su norme efficaci in quanto espressione della maggioranza dei cittadini è necessario predisporre strumenti idonei a combattere e stroncare eventuali abusi legislativi e amministrativi: di qui l'opportunità di rafforzare l'indipendenza e l'autonomia del corpo giudiziario e di costituire una corte suprema che difenda la legge fondamentale, cioè la Costituzione. Quanto alla scuola, solo se essa sarà organizzata in maniera da poter offrire a tutti un'istruzione completa generalizzata, si potranno raggiungere due obbiettivi essenziali del L.: la rivoluzione delle coscienze e l'eguaglianza di opportunità per ogni cittadino». Per inciso, credo che a pochi sfugga la notevole distanza che ancora separa - aldilà di certe somiglianze esteriori e di facciata la «democrazia reale» che ci delizia attualmente e nella quale siamo costretti a vivere, rispetto al modello di società liberalsocialista delineato da Tranfaglia. Purtroppo, né Tranfaglia né altri hanno finora esposto con altrettanta chiarezza e completezza le caratteristiche del socialismo libertario, distinguendolo nettamente non solo dal liberalsocialismo ma anche dal socialismo democratico o dall'anarchismo con i quali viene perlopiù identificato di volta in volta.

5) Francesco Saverio Merlino, Fascismo e Democrazia. Quello che il regime politico è e quello che dev'essere, con prefazione di Errico Malatesta, Roma, Pensiero e Volontà, 1924. Ora riprodotto in F. S. Merlino, L'Italia qual è. Politica e Magistratura dal 1860 ad oggi in Italia. Fascismo e Democrazia, a cura di Nicola Tranfaglia, Milano, Feltrinelli, 1974, p. 338.

6) Francesco Saverio Merlino, Il socialismo senza Marx, a cura di Aldo Venturini, con introduzione di Vittorio Frosini, Bologna, Boni, 1974, p. 632.