Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 24 nr. 213
novembre 1994


Rivista Anarchica Online

Le identità abusive
di Alfred Grosser / Salvo Vaccaro

In un articolo apparso su «Le Monde» Alfred Grosser solleva alcune domande sulla questione quantomai attuale delle identità personali e collettive. Salvo Vaccaro, partendo dalle riflessioni di Grosser, approfondisce l'analisi con un taglio esplicitamente libertario.

Esistono mode verbali. Spesso traducono mode del pensiero. Solo poche parole sono così inutili, in questi tempi, quanto quella di identità. Nella sua forma più riduttiva: ognuno avrebbe solo una identità e si troverebbe definito da essa, si vedrebbe giudicato, sarebbe chiamato a giudicarsi in funzione di essa. Mentre ognuno di noi ha identità molteplici, la personalità di ciascuno è fatta, nella migliore delle ipotesi, di sintesi, nella peggiore, di giustapposizione conflittuale di identità molteplici. Così, io sono uomo e non donna, cosa che, ancora nella nostra società, mi dà vantaggi immeritati. Sono parigino, cosa che mi vale, da parte dello stato, dieci volte maggiori sovvenzioni culturali che se io abitassi in provincia. Sono francese, cosa che mi mette in una situazione privilegiata, nel mio benessere quotidiano, rispetto ai 3/4 dell'umanità. Sono ciclista, dunque detesto gli automobilisti; sono automobilista, dunque detesto i ciclisti. Ecco casi ricorrenti di identità conflittuali!
Non bisognerebbe scherzarci, poiché l'abuso riduzionista è raramente innocente. Spesso l'articolo determinativo identificativo permette ai forti di celarsi dietro ai deboli. «I» contadini: si tratta veramente della stessa condizione per il viticoltore della Champagne e l'allevatore di montagna? «Gli» insegnanti: lo stesso per il professore o per il maestro supplente che non sa dove, tra qualche mese, dovrà affrontare un disordine carico di aggressività: è veramente la stessa identità, la stessa battaglia?
E' logico, è legittimo che l'ingiustizia subita collettivamente dia ai membri del gruppo ingiustamente trattato un forte sentimento di appartenenza alla collettività identitaria, quanto meno per consentire la solidarietà nell'agire rivendicativo. Nel XX secolo, il movimento operaio è stato fondato su questo; e anche i movimenti femministi, chiamando la borghese e l'operaia a prendere coscienza prioritariamente della discriminazione subita in quanto donna. Ma non occorrerebbe aggiungere altro parlando delle identità «etniche». Non insistiamo neanche sulle tragedie sanguinarie nella ex Jugoslavia, dove si uccide, si muore in nome di identificazioni e autoidentificazioni abusive, in regioni ove la comunità di vicinato identificava spesso meglio della distinzione «etnica».
Riferiamoci alla Corsica, dove si uccide anche per costringere a una identità esclusiva. O alla Catalogna, dove parecchi genitori impediscono ai figli liceali di seguire i corsi in spagnolo. O alla Svizzera tedesca, dove il tedesco si trova sempre più rifiutato a favore del dialetto, che si suppone possa meglio identificare, meglio costituire un
gruppo di appartenenza distinta dal gruppo nazionale.
L'articolo determinativo permette di semplificare il gruppo respinto, nel timore e nel disprezzo. O nella santa semplicità del pregiudizio: «I tedeschi sono ... », «il tedesco può ... » (o non può ... ). Che si possano ancora praticare tali abusi di linguaggio e di pensiero, in testi francesi contemporanei, è insensato soprattutto dopo circa 4 anni di prova, da parte dei tedesco-occidentali, che la maggior parte di loro si identificava molto più nello status socioprofessionale e nei suoi vantaggi, che in una collettività nazionale in seno alla quale è necessario condividere.
Il sentimento di identificazione può essere imposto dall'esterno: quanti tedeschi ebrei sono diventati ebrei in Germania solo perché Hitler li vedeva così, li voleva così, li trattava così! Ma più spesso tale sentimento nasce come diceva Voltaire nel «Dizionario filosofico»: «Il termine (identità) non significa che "cosa uguale". In francese potrebbe essere reso con "memeté" (medesimezza). È quindi la memoria a stabilire l'identità, la medesimezza di una persona».
Quale memoria? Qui bisogna distinguere chiaramente tra la memoria individuale e ciò che si chiama, più spesso a torto, la memoria collettiva. E' già difficile stabilire chiaramente ciò che è la prima. Insieme di ricordi di un vissuto? o di ricordi di un vissuto per una buona parte ricreato, immaginario? di un ricordo cosciente? di un vissuto inconscio, come vogliono gli psicanalisti? di un vissuto pre-esistente alla vita, come vogliono i genetici?
Anche la stessa esperienza vissuta può dar luogo a sentimenti, comportamenti completamente differenti. Per esempio, lo strazio di parenti deportati e poi assassinati. Se leggete la rubrica «Anniversari» di questo giornale (Le Monde - ndt), sarete sicuramente colpiti dalla traduzione della triste memoria, a volte in una amara autoidentificazione carica di condanna a causa di identificazioni collettive, a volte in un sentimento creativo carico di apertura ad altre identità.

Memoria e trasmissione
Esiste la «memoria collettiva»? Non c'è memoria: c'è trasmissione. Attraverso la famiglia, la scuola o ancora la televisione. Fare come se essa costituisse una sorta di dato, una base strettamente legata ai fatti per l'identificazione individuale e collettiva, significa negare la forza dell'educazione, dell'informazione, della formazione, del complesso gioco di influenze subite da tutti, specialmente da bambini e adolescenti. L'insegnamento sciovinista della storia della Francia non trasmette solamente una «memoria collettiva»: crea nazionalismo, cioè una forte priorità data alla componente nazionale dell'identità degli individui. La scuola ebraica e quella islamica forgiano identità individuali a tendenza esclusivista. La scuola cattolica cercava di andare in questa direzione. Essa si è trasformata su questo punto centrale, sebbene le manchi ancora l'essenziale di ciò che rende una appartenenza collettiva creatrice, vale a dire lo sguardo distanziato e critico sul passato di questa collettività.
In modo particolare, sui crimini commessi, sulle sofferenze inflitte a suo nome. Sulle variazioni della morale del gruppo di appartenenza. Certo, è legittimo ammirare e far proprio il testo di S. Paolo, secondo il quale l'unità nel nome di Gesù fa che non esistano più padroni né schiavi. Ma soltanto a condizione di accettare l'idea che, fino alla metà del XIX secolo, la chiesa cattolica interpretava il passaggio senza mettere in questione lo schiavo, che aveva semplicemente accesso al cristianesimo, dunque alla promessa di ricompensa nell'al di là. E ogni cattolico, prendendo giustamente la difesa di Salman Rushdie, dovrebbe avere memoria, ad esempio, della vana opposizione di Voltaire in favore del giovane cavaliere De la Barre, messo a morte per non essersi tolto il cappello davanti a una processione. Infatti solo questa memoria permette di non condannare riduttivamente l'Islam all'intolleranza omicida. Come se il cattolicesimo non fosse stato, nello stesso secolo, la religione di S. Vincenzo e quella dei Dragonnades («Dragonnade» è il sistema di persecuzione dei protestanti ai tempi di Luigi XIV in Francia - NdT). Alla stessa maniera, sarebbe necessario che la memoria collettiva francese accettasse di celebrare con 1'8 maggio 1995 sia il cinquantenario della vittoria, sia una terribile repressione esercitata nel nome della Francia di Costantino, contro autoctoni musulmani pure supposti francesi.

Comprendersi e difendersi
Se crediamo veramente, come proclamiamo di continuo, che il fondamento della nostra morale è il concetto di eguale dignità di tutti gli uomini, nessuna appartenenza dovrebbe condurre a una identificazione esclusiva. Ogni pedagogia, compresa quella dei media, dovrebbe tendere a liberare senza allentare, cioè a prendere una distanza critica dai gruppi di appartenenza, anche privilegiati, senza per ciò sopprimere gli scambi, senza i quali l'individuo è asociale e inutile agli altri.
Perché allora questa formidabile ricaduta nella identificazione ad un'etnia, a una setta, a una banda? Perché c'è stata destinazione di identificazione: alla classe operaia, al partito comunista, alla chiesa. In un certo senso, anche all'impresa, al padrone o al salariato. Perché l'identità riduttiva costituisce il rifugio contro la difficile libertà; richiudendosi in una appartenenza, si può rifiutare di vedere che la personalità è costituita a partire da una molteplicità di appartenenze. Prenderle sul serio significa obbligarsi a comprendersi meglio per definirsi meglio, per essere superiore alla somma delle appartenenze identitarie. La domanda «chi sono io» non ha nulla di sterile nella misura in cui è posta come incitamento ad aprirsi agli altri, a comprendere gli altri, a creare insieme agli altri. L'identificazione abusiva è sterile in maniera spesso omicida.

Alfred Grosser
(da: «Le Monde», 28-1-1994.Traduzione italiana di Candida Di Franco)



Salvo Vaccaro

Identità e riconoscimento
L'articolo di Alfred Grosser pone una questione centrale per i tempi presenti: quella dell'identità e del riconoscimento.
La posizione centrale di un problema invita a riflettere anche sulla sua alterna fortuna. Da secoli il tema dell'identità è costante, però oggi ha riassunto una pregnanza significativa.
L'occasione di una riflessione in proposito ci offre l'opportunità di una lettura del presente a partire da ciò che suscita, per riflesso o per retroazione, la riemergenza di eventi e discorsi incentrati sulla identità di una popolazione, di una etnia, di individui singolari o di gruppi.
Identità è un nome complesso, perché indica almeno due concetti:
1) identità di sé, secondo un movimento di soggettivazione: l'individuo o il gruppo si interroga sugli elementi sostanziali che lo rendono soggetto, cioè esponente di proprietà e capacità peculiari che definiscono la sua specifica identità.
2) Il riconoscimento di sé da parte altrui secondo un movimento di oggettivazione: l'altro-da-sé riconosce, per l'appunto, un sé distinto dal proprio ma specifico all'altro, confermando l'identità e addirittura l'esistenza. Se non si è riconosciuti dagli altri, scoppia una crisi di identità di sé poiché ci si sente annullati, assenti, invisibili agli occhi altrui, indistinti.

Sradicamento e radicamento
L'intreccio reciproco tra identità e riconoscimento porta i due concetti a rimbalzare continuamente l'uno sull'altro. Ciò nondimeno è possibile in via metodologica differenziare le questioni pertinenti alle due problematiche.
Ciò che mette in dubbio l'identità e il riconoscimento altrui di sé è l'esperienza dello sradicamento. Essa designa un processo violento (ma non necessariamente subitaneo e improvviso) di erosione di quegli elementi consolidati che fungono da vettori identitari per l'individuo o per il gruppo: possono essere forme comunitarie, clan parentali, stili tradizionali di vita, usi, costumi, linguaggi, garanzie sociali, economiche, politiche. La modernizzazione impressa dal capitalismo, ad esempio, ha sradicato enormi masse di popolazione dal loro humus di vita, inurbandole e industrializzandole a forza di migrazioni su varia scala, esodo dalle campagne, scomparsa della famiglia allargata, esautoramento della comunità locale a misura (d'occhio e di contatto) d'uomo, ridislocazione degli organismi politici e poi sindacali, eliminazione di garanzie sociali, introduzione di nuovi stili di vita.
L'accelerazione vertiginosa impressa dalla tecnologia ha altresì modificato la percezione della realtà e del proprio posto (come singolo e come gruppo) al suo interno, introducendo orizzonti e forme inedite di immaginario simbolico.
Beninteso, il radicamento non è un'esperienza originaria, ontologica; esso è frutto di tempo e di fertilità dello spazio ambientale ove vive e cresce la comunità di individui. Sentirsi a proprio agio a casa (chez nous, dicono i francesi) non è un fattore «naturale», bensì è frutto culturale di una certa organizzazione della società che garantisce alcuni gruppi primari e alcune forme di tutela, riparando singoli individui o gruppi dal rischio imminente e permanente della contingenza: l'evento emergente carica di angoscia l'aspettativa perché imprevisto, obbligando a prendere contromisure o, meglio, misure preventive di disinnesco dell'onere di angoscia della novità, ingrigliandola.
La cultura di certe organizzazioni sociali preforma allora una reazione all'evento imprevedibile tessendo una rete protettiva di garanzie culturali, psicologiche e sociali che attutiscono l'impatto della novità. E al contempo colgono in questa tutte le eredità riconoscibili in modo da attirarla nella gabbia della continuità, emarginando gli elementi di innovazione radicale in essa presenti.
Comunque il radicamento, vale a dire la radice dell'identità, è altrettanto artificiale dell'esperienza, sovente drammatica, dello sradicamento. Perturbamento, spaesamento, smarrimento, perdimento, con/fusione: sono queste le sensazioni tipiche di una identità sradicata, o di un riconoscimento negato. O della scoperta di un altro da sé, asimmetrica rispetto al gioco di aspettative eretto per incantarlo e addomesticarne la forza evocativa dell'esteriore, del possibile differente.
Da qui, varie mosse di controreazione alla crisi di identità: rabbia, rivolta, rassegnazione, apatia, indifferenza, insofferenza, oppure patologie psichiche (paranoia, principalmente). Cosa spinge, dunque, a ricercare nuove radici altrettanto artificiali di quelle appena perse? bisogno di continuità? di aderenza alla superficie della terra da cui si proviene? solo una riduzione dell'ansia a lungo insopportabile? e perché non ci si libera definitivamente di una camicia di forza, peraltro inavvertita?
Io credo che intervenga anche e soprattutto una certa configurazione proprietaria dell'identità ed una certa rappresentazione gerarchica del riconoscimento.

Rinnovare l'incantesimo
Identità significa sé stabile, fisso, perenne, continuo, lineare, liscio. Radicamento vuol dire appartenenza a qualcosa, identificarsi cioè in qualcosa di esteriore che tuttavia conferma l'identità di sé. La concezione proprietaria dell'identità di sé indica l'egemonia del senso di appartenenza al cui interno l'identificazione trova un sicuro approdo, un saldo aggancio. Si può appartenere - ereditariamente e quindi irresponsabilmente, deresponsabilizzandosi - alla famiglia, al clan, all'etnia, alla nazione, alla patria. In tal caso, l'identità di sé è data dal suo posizionamento stabile entro i confini identitari che contraddistinguono l'elemento proprietario. Ma si può anche appartenere a una certo stile di pensare (il celebre cogito ergo sum di Descartes è al fondamento del pensiero moderno), i cui confini escludono altre forme di pensiero e di rappresentazione: per esempio, la follia e l'irrazionale nominano esclusi e perdenti, vinti e assoggettati che hanno smarrito l'identità - si sostiene - e non vengono riconosciuti in quanto tali perché deficitari o eccedenti della giusta misura. Pensiero di moderazione contro dismisura.
La concezione proprietaria dell'identità implica un sé fisso e chiuso, arroccato a presidio dei propri confini di (auto)-riconoscimento. Ogni novità va integrata (quindi depotenziata proprio del fattore dissonante), oppure annichilita, espulsa, emarginata (quindi combattuta e ridotta).
«Essere di proprietà» di elementi esteriori alla singolarità preforma il sé a svalutare la propria capacità di auto-posizione nel mondo, sino a identificarsi soltanto se appartenente a una cintura protettiva di senso, che surroga la libertà radicale di inventare, momento dopo momento, il significato di sé nel mondo e del mondo per sé. È la conquista più importante dello sradicamento operato dalla modernità: se nulla accade per destino fatale o per imperio teologico, come l'illuminismo e la secolarizzazione hanno accertato, occorrerà o affrontare l'esperienza senza rete o surrogare l'eclissi del primato teocratico o destinale con potenze identitarie altrettanto econome che pensino liberamente al posto nostro. Servitù volontaria, ancora.
Sarà allora l'elemento di appartenenza a rinnovare l'incantesimo per cui altri reggono le fila della nostra esistenza, designando il nostro sé, facendolo riconoscere solo se posto nella casella giusta, non per volontà divina ma per contratto tra formazioni di sovranità. La propria identità (di sé o di gruppo) è finalmente operativa per risparmiarci la faticosa libertà e la pesante responsabilità di significare arbitrariamente e collettivamente la contingenza della vita, cioè il fatto che ognuno è in potenza libero di istruirsi la propria esistenza nel linguaggio e nella prassi, sia come sviluppo autocentrato della propria singolarità, sia come co-sviluppo della comunità di scelta in cui si trova o intende vivere.

Chiusure reciproche
L'esperienza dello sradicamento, con i suoi effetti sovente inconsapevoli o addirittura non pervenuti a visibilità perché intercettati con controreazioni preventive identitarie, comporta la ricerca di nuove radici o la riattualizzazione in forma presente di vecchie appartenenze che una data configurazione materiale e culturale della società aveva momentaneamente accantonato. Questo processo è operativo ed evidente a partire dal collasso repentino di una realtà, di un immaginario ideologico, di un senso simbolico del mondo; per esemplificare, dopo gli eventi europei del 1989.
Smarrita una identità plurigenerazionale, pericolosamente vicine ad esser misconosciute e quindi, in linea di ipotesi, soggette a eventuale ricolonializzazione politica, economica, culturale, sociale (o un mix di tutto ciò, come contraddittoriamente sta in parte avvenendo), le popolazioni dell'ex impero sovietico (in senso lato, i paesi al di là della cortina di ferro, Balcani inclusi) hanno seguito diverse vie loro disponibili per rifarsi un 'identità riconoscibile: sospettosa, immediata ed entusiasta adesione a valori e immaginari occidentali, brutale e repentino scatenamento di lotte identitarie neotribali o nazionaliste, formale indipendenza statuale e politica nel quadro di un sistema di riconoscimento internazionale.
In ogni processo siffatto, il tentativo di farsi identificare da nuove appartenenze sussume una eventuale autonomia singolare a scegliere liberamente e senza urgenze o ingiunzioni quale sé essere in quanto individuo e in quanto comunità. Il breve inverno del 1989 non si è rivelato sufficiente a scongelare irreggimentazioni profondamente radicate e istruite sin nella mente degli individui; solo i regimi si sono squagliati senza colpo ferire, forse proprio perché non si apriva un vuoto da coprire, vista la pronta alternativa di continuità.
Dentro una griglia proprietaria, si appartiene e non si dispone di elementi idonei a identificare e riconoscere. Chiusure reciproche di identità portano inevitabilmente allo scontro quando dietro ad esse si muovono interessi forti organizzati (ma abilmente dissimulati) che premono per assumere la legittimità di diritti individuali o di gruppo, non tanto col fine di contrattare eventuali concessioni reciproche di godimento di beni e risorse materiali (passaggio sempre successivo alla definizione di questioni identitarie, infatti), quanto per avvalersi del titolo di identità legittimamente riconosciuta come chiave di accesso privilegiato ed esclusivo a quella posizione sociale da cui poi ricavare benefici e gratificazioni culturali, politiche, economiche, sociali.
Il conflitto tra identità che aspirano ad essere esclusive è ineluttabilmente portatore di scontri irriducibili a qualunque compromesso (identità e riconoscimento non sono beni divisibili in porzioni o quote riservate; solo dopo una definizione stabilizzata è possibile qualche benevola concessione, come fecero gli statunitensi verso gli indigeni pellerossa); in gioco è l'appartenenza a una matrice statutaria che individua e legittima l'esistenza in vita di individui o gruppi. Ecco perché l'imposizione identitaria attivata dal neotribalismo o dal nazionalismo sciovinista (espressione ridondante, ricordava causticamente Karl Kraus) assume toni così violenti e tragici, ai limiti di una capacità ottusa di comprensione, anestetizzata dal surplus di immagini mute perché strozzate.
Non è sufficiente disporre, ma occorre essere proprietari affinché si appartenga a ciò che fornisce il titolo di godimento a risorse politiche e a beni economici, che il conflitto proprietario rende scarse e rare, acuendo a sua volta l'asprezza dello scontro a morte. È quest'ultima, infatti, secondo Hannah Arendt, a segnare il crinale definitivo di identità assoluta: vita o morte, e se vita, vita asservita e posseduta entro i confini posti dall'organizzazione politica che cattura i singoli individui e la comunità in schemi identitari di salda appartenenza.

Non temere l'asservimento
Ma l'esperienza moderna dello sradicamento, frantumando l'unità monolitica dell'identità di sé e il nesso coattivo tra riconoscimento e fissità ereditaria della condizione sociale dell'individuo, ha moltiplicato la conoscibilità di mondi virtuali per il sé, che si trova a poter vivere a proprio agio anche al di fuori dei confini di identità ricevuti per nascita o per censo o per etnia o per cittadinanza, così come può ritrovarsi altresì straniero in quella che dovrebbe essere «casa propria», se si dà il caso che l'appartenenza per destinazione (ereditata o acquisita) non sia più di suo gradimento.
In altre parole, lo sradicamento apre l'esperienza alla moltiplicazione, rielaborata e non meramente intercambiabile, di tante identità, di tanti sé plurali coesistenti (più o meno pacificamente o conflittualmente) nella stessa singolarità o nella stessa comunità, quante situazioni e stili di vita possiamo responsabilmente o casualmente rivestire nell'arco della nostra esistenza.
Lo sradicamento sgancia l'appartenenza moltiplicandola all'infinito virtuale (ed al finito selettivamente esperito). Così l'effetto benefico di apertura all'ignoto può disporre di tante esperienze, senza appartenere a nessuna, anzi la disponibilità alla reciprocità gratuita delle relazioni (il dono in contrapposizione dello scambio) segnala un altro modello identitario che non surroga con rinnovate appartenenze la segmentazione e la frammentazione di un sé non più unico e unitario. L'individuo singolare è plurale; forse non è così nomade come potrebbe e dovrebbe essere, e proprio la sua attuale insufficienza è foriera di tanti problemi urgenti e riemersi dagli anfratti più oscuri della storia delle (in)civiltà e delle (in)culture.
Replicare allo sradicamento con una forma orizzontale di esistenza associata significherebbe creare le condizioni affinché le identità di sé diventino nomadi e reciprocamente aperte e disponibili alla conoscenza ed alla riconoscenza, senza necessità di ricorrere a contesti di appartenenza entro cui assumere rigidamente un ruolo fazioso e intollerante come è il caso di ogni nazionalismo, tribalismo, etnicismo, ecc., che contengono in sé sempre la minaccia estrema del genocidio e dell'intolleranza.
Ma per disporsi positivamente allo sradicamento, occorre non temere l'asservimento, occorre non cedere all'assoggettamento politico di una organizzazione gerarchica e autoritaria dell'esistenza associata.
Se l'identità di sé si appoggia e si erge su appartenenze, il riconoscimento altrui della propria identità è una indiretta conferma della felice posizione assunta nella squadra di appartenenza, che è visibile e legittimamente accettata. Il mancato riconoscimento concorre ad una crisi di identità appunto perché incrina il sentimento di sicurezza e fa vacillare la verifica qualora l'appartenenza a cui si aderisce singolarmente o come gruppo sia effettivamente recepita come idoneo vettore identitario di certezza. Far parte è rilassante, e sapere che altri sanno è positivo per i confini di sicura stabilità e di aspettative reciproche tra sé e altro.
Il riconoscimento può concernere il singolo individuo od un gruppo specifico entro la comunità. Solitamente, vi è una polarità dialettica tra titolarità individuale e titolarità di gruppo ad essere riconosciuti e garantiti nella propria sfera di vita. Chi ritiene che la centralità dell'individuo sia suprema, reputa superfluo garantire e riconoscere identità di gruppo perché riassorbite nella tipicizzazione individuale. Se ognuno ha il diritto ad essere tale senza doversi scusare, a maggior ragione non c'è bisogno di discriminare tra gruppi di individui: i secondi assorbono universalmente i primi.
A questa posizione liberal-individualista si obietta che, da un lato, la titolarità spetta formalmente al singolo, ma dall'altro, l'accesso reale al suo godimento può essere concretamente preclusa al singolo individuo, vuoi per gli effettivi rapporti di forza, vuoi per la strutturazione gerarchica della società.
Vi sono inoltre alcune posizioni collettive in una comunità (una minoranza linguistica, una cultura indigena in via di estinzione, una etnia particolare e distinta dal resto) che rivendicano un riconoscimento ed una tutela alla propria libertà - di espressione, di associazione, di autoprosecuzione - non perseguibile singolarmente ma come gruppo, poiché implica l'intrapresa di misure di riconoscimento attivo (e non solo passivo, come il semplice riconoscimento) comprendente l'istituzione del plurilinguismo, o di apparati culturali specifici, e via dicendo.

Torre di babele
D'altro canto, la suddivisione di una comunità per gruppi di riconoscimento identitario rafforza la pressione di appartenenza, a scapito di quegli individui che non intendono farsi accettare o rivestire una identità di sé per riflesso all'appartenenza ad un gruppo, rifiutando così una coazione identitaria come hanno fatto al censimento del 1991 quegli abitanti dello spazio ex-jugoslavo in via di disgregazione, i quali hanno respinto l'opzione prestabilita di identificazione in uno dei nazionalismi ammessi.
Inoltre un riconoscimento altrui per identità di gruppo produce ulteriori discriminazioni a catena, paradossalmente con effetto controintuitivo di tutela di ogni gruppalità identitaria, potenzialmente interminabile nella suddivisione degli elementi: sesso, colore, ceppo linguistico, fede religiosa, censo, ecc.; gli esseri umani vengono così riconosciuti non in quanto singolarità uniche e originali, bensì in quanto copie di una matrice identitaria. Tale riconoscimento è rigoroso e coerente ma unidimensionato: qualora un soggetto abbia una identità trasversale ai gruppi riconosciuti (per non parlare se non vi rientra), vanno in cortocircuito le garanzie che si sovrappongono avviluppandosi in uno stato di immobilismo paralizzante.
Esemplare il caso di una giurisdizione minuziosa in base al principio di equità del «politically correctness». Se si dovessero istituzionalizzare le tutele di ogni gruppo riconosciuto, gli intrecci paralizzerebbero la vita «laica» della comunità nella sua globalità: la domenica sacra per i cristiani, il sabato per gli ebrei, il lunedì per i musulmani, il venerdì per ... E l'infibulazione: è violenza, o tradizione da riconoscere anche fuori i confini della comunità di origine, comunque da salvaguardare in nome del multiculturalismo?
La torre di babele cela, nei fatti, non un equo relativismo (magari di valori postulati universalmente), ma il primato totalizzante della effettività sulla rigorosa formalità. In altre parole, tutti sarebbero riconosciuti formalmente, ma l'accesso al godimento di taluni diritti sarebbe alla mercé di chi, nel gruppo, è più avvantaggiato in termini di sapere, contatti, relazioni, istruzione, tempo disponibile, denaro, ecc. «Tutti gli animali nella fattoria sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri»: è la nitida critica di George Orwell al liberalismo giuridico formale e non sostanziale.
Ciò perché la nostra civiltà giuridica porta a istituzionalizzare ogni posizione sancita e riconosciuta come formalmente degna di rispetto. La cristallizzazione del riconoscimento altrui dell'identità di sé in diritto comporta un conflitto preliminare sulla titolarità a godere di tale status, e successivamente sulla condizione più favorevole di accesso al loro godimento. L'istituzionalizzazione in diritti segue il medesimo modello dell'identità di appartenenza: quello proprietario. Così il diritto di proprietà, in quanto riconoscimento formale di una appropriazione esclusiva, tutelato sulla punta delle armi (o il ricorso procedurale e rituale a sanzioni difensive in caso di lesione), pone una gerarchia tra posizioni singolari ineliminabilmente intollerante.
L'intolleranza si situa, infatti, nel cuore della civiltà giuridica proprio perché la titolarità individuale di diritti esclusivi si appropria di beni e risorse disponibili per ciascuno, e dunque per tutti, scatenando una conflittualità latente che esplode nell'intolleranza verso l'identità altrui e la chiusura a riccio nella propria. Il diritto cela un conflitto immanente di interessi modellati sull'appropriazione esclusiva; l'interesse è la molla alla conservazione e prosecuzione dell'identità di sé, la quale, per farsi riconoscere, accetta di trasformarsi, dopo regolare conflitto di istanza politica, in posizione privilegiata: il diritto individuale legalmente sancito e tutelato da un apparato giurisdizionale.

Identità nomade
È il privilegio a far scattare la verticalità gerarchica, distintiva e disuguale, mentre è l'appropriazione a far scattare l'intolleranza a condividere un bene o una risorsa disponibile per ciascuno. Non esiste alcuna necessità ontologica o rarità simbolica che possa giustificare come alibi l'appropriazione esclusiva tutelata gerarchicamente con l'introduzione moderna del diritto di titolarità (nato, ricordiamolo, per sottrarre privilegi al sovrano). Solo la volontà di dominio (storicamente, dall'aristocrazia di corte alla borghesia mercantile della politica dei proto-parlamenti) rende intollerante l'accesso orizzontale e reciproco di beni e risorse disponibili quale l'identità di sé ed il riconoscimento altrui: non si tratta né di oro giallo né di oro nero.
Esse attengono a sfere simboliche che diventano poste in palio per formazioni di sovranità, che sottraggono dalla disponibilità beni e risorse di tal genere per convertirli in privilegi gerarchicamente sovraordinati: i diritti individuali, esclusivi e selettivi, intolleranti e faziosi, specie in un'era multiculturale in cui, nel villaggio globale, si confrontano e si affrontano tante sfere di vita ognuna legittimamente degna di rispetto e di dissenso, senza implicazioni di valore o di convivenza politica.
Ciò diventa intolleranza solo se l'organizzazione gerarchica della società trasforma un riconoscimento culturale in posizione politica di privilegio, giuridicamente tutelata, violentemente sanzionata e dagli effetti ben precisi nella vita quotidiana. Un riconoscimento identitario orizzontale e reciproco, senza istituzionalizzazione di sorta, renderebbe tollerante l'incontro tra differenze perché non pretenderebbe una riduzione ad un codice assiomatico (esclusivo e selettivo), che a sua volta si crede prioritario, senza poter ammettere analoga gerarchia culturale in altre organizzazioni differenti, ma profondamente affini quanto a logica di formazione e funzionamento (gli integralismi religiosi o nazionalisti sono simili al di là delle specifiche differenze culturali).
L'istituzionalizzazione gerarchica di privilegi di appropriazione informa l'intima struttura organizzativa della civiltà giuridica, che non a caso ha inventato il potere politico degli stati. Essa è madre di ogni conflittualità intollerante che, nel perseguimento del proprio interesse, dissimulato in quello generale una volta integrato nel codice assiomatico universalmente vincolante, smarrisce il senso di ogni libera associazione orizzontale che fa della reciprocità il perno della convivenza di differenze, le quali transitano mobilmente attraverso varie e fungibili sfere identitarie, facendosi accettare per essere «singolarità senza qualità», senza appartenenze se non quelle puntuali a un sé nomade e plurale, che non rivendica alcuna appropriazione, tantomeno stabile, definitiva e giuridicamente tutelata, ma solo l'accesso di fatto a disponibilità paritarie, così identità come beni e risorse.
Viene pertanto a capovolgersi l'egemone modello mercantile, secondo il quale il trattamento subito dal riconoscimento identitario è affine al trattamento subito dai beni materiali e dalle risorse simboliche come merci, cioè sottoposti a rarità di godimento in base all'istituzione del privilegio gerarchicamente ordinato intorno all'accesso al «mercato», in cui l'equivalenza egualitaria è data dal potere di acquisto di un codice esclusivo e selettivo: il denaro come moneta di scambio diseguale.
L'identità nomade riconosce, invece, altre identità senza bisogno di cristallizzarsi socialmente (e sedentariamente) in configurazioni associative gerarchiche. L'alea degli incontri viene lasciata all'unicità di tale evento, che può anche tipicizzarsi violentemente, così come può individuarsi quale dono reciproco e gratuito di sé, su un medesimo piano orizzontale in cui si dispongono differenti sé senza privilegi di sorta.
Ma questa è l'utopia del deserto sulla cui superficie ondulata convivono culture, civiltà e identità non assoggettate alla produzione di deserto operata da una civiltà del capitale e del dominio politico, portata alle estreme conseguenze tecniche e simboliche: lo sterminio come approssimazione alla fine delle libertà virtualmente proliferabili, al termine di ogni orizzonte utopico.