Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 24 nr. 213
novembre 1994


Rivista Anarchica Online

L'uomo e l'artista
di Mimmo Mastrangelo

Di Leo de Berardinis attore, autore, innovatore della scena è stato scritto molto. Per chi lo segue da sempre un buco nero è il suo «fuoriscena». Gianni Manzella, studioso e critico teatrale de «il manifesto», con La bellezza amara. Il Teatro di Leo de Berardinis (Parma, Pratiche Editrice, 1994, pp. 280, £8.000), ha provato a riannodare i due poli dell'attore: l'uomo e l'artista. In sostanza Manzella licenzia il racconto di una vita che nel suo svolgersi si fa romanzo. Il romanzo di chi ha fatto del teatro non soltanto una metafora del grande palcoscenico del mondo, ma anche e soprattutto una tecnica da adottare in scena per sperimentare se stessi. Partito da Foggia poco più che ventenne, Leo arriva a Roma agli inizi degli anni sessanta con pochi soldi e senza un posto dove pernottare, ma «animato da vaghe aspirazioni artistiche». Al Centro Universitario Teatrale incontra Carlo Quartucci e insieme formano una compagnia che porta in scena autori poco frequentati (Beckett, Scabia). Ma il vero debutto dell'artista d'avanguardia, «dell'uomo di teatro totale» che tutti conosciamo avviene nell'aprile del '67. Al Teatro Ringhiera, uno strambugio nel quartiere Trastevere, Leo de Berardinis e Perla Peragallo - sua compagna e giovane attrice di particolari attitudini drammatiche - danno vita alla faticosa messinscena dell'Amleto di Shakespeare, uno spettacolo balzano, in cui la performance dei due attori viene intervallata dalle immagini che scorrono su uno schermo posto in fondo alla scena. Calato il sipario il pubblico rimane esterrefatto e la critica più prevenuta si scatena in giudizi affrettati e liquidatori. I riconoscimenti vengono dagli amici e da pochi intellettuali, tra cui Ennio Flaiano che invita Leo e Perla a «non perdersi dietro l'attualità». Con l'Amleto Leo getta le fondamenta di un linguaggio che, con coerenza e ostinazione, continua a portare in scena. Manzella lo chiama «il teatro della necessità espressiva» che, tra l'altro, ridefinisce la funzione del regista e mette in primo piano l'attore, «autore della propria scrittura senza mediazioni, qualunque sia il materiale che decide di portare in scena». La fuga a Marigliano, l'alcool, i litigi e la separazione da Perla, l'ostilità delle istituzioni segnano nell'attore pugliese momenti di non poca sofferenza. Che supera solo grazie all'amore per le tavole del palcoscenico. Oggi, con buona pace di tutta la critica, De Berardinis come un Edmund Kean moderno, anche se preferisce incarnare le maschere amare di Totò e Buster Keaton, continua a regalare al pubblico emozioni fortissime. E la lettura de La bellezza amara ci fa incontrare una delle pagine più intelligenti e creative degli ultimi trent'anni di produzione teatrale nostrana.

LA BELLEZZA AMARA

«( ... ) I tempi sono nuovi e pongono problemi nuovi. Il mutamento (ogni mutamento) propone il problema del che fare: qual è il compito dell'artista ovvero come coltivare una cultura di opposizione.
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Aver scelto di seguire il percorso individuale di un artista può esporre al rischio della semplificazione, se da questo si vuol partire per illustrare lo spirito di un tempo, la morale di una società in una determinata situazione storica. E tuttavia l'itinerario di Leo de Berardinis appare esemplare, lungo questi tre decenni che abbiamo traversato, se è vero che sulla via dell'arte non ha interesse la cronologia ma è importante la curva dello sviluppo artistico, l'allontanarsi o il deviare da essa, le tappe del percorso. Esemplare, non solo per non aver mai ceduto al compromesso commerciale. Dagli inizi avanguardistici-demoniaci alla più recente ricerca di una zona di pacificazione, dopo aver compiuto le dodici stazioni del suo zodiaco; dall'uscita dal tragico per andare verso il comodo, come l'attore descritto da Zeami che percorre la via dell'arte passando dai gradi medi al livello più alto e al basso, il teatro di Leo si è modificato assai visibilmente. Ma allo stesso tempo ha preservato e approfondito alcune intenzioni guida, che ora si ripropongono con una maggiore consapevolezza rispetto al passato. Quasi a verificare sperimentalmente la verità dell'aneddoto raccontato da Skbvskij a proposito degli Sciti, che solevano deliberare due volte sugli argomenti di grande importanza, la prima da ebbri, la seconda a mente sgombra.
( ... )
Quel che emerge oggi nel suo teatro è soprattutto la ricerca di una sintesi, l'attore totale come superamento di apparenti conflittualità (il testo, la regia, la scena). L'attore come «mente compositiva». E alla base l'idea del teatro come mezzo di conoscenza, che non vuole trasmettere idee ma al contrario produrre idee, non vuole tradurre nulla, nemmeno una logica dell'artista. È una mentalità e non un metodo. Fa i conti con il linguaggio, per sovvertirlo.
Arte come esperienza. (Cioè arte come vita). L'attore autore è autobiografo, dice Leo. È sempre un trasmettitore di se stesso. Radicato in un sapere che fa del teatrante un sapiente in grado di incontrare altre persone per scambiare un'esperienza; nel riconoscimento della solitudine dell'artista che fa di lui un veggente: nella coscienza di una tradizione da far rivivere che ne fa un maestro. La trasmissione del lavoro a un'altra generazione è diventata momento centrale nell'esperienza più recente di Leo de Berardinis. ( ... )
Ma essere minoranza permanente, dice l'esperienza di Leo de Berardinis, è destino e compito dell'artista. La marginalità combattiva può essere anzi la scelta politicamente giusta per chi accetti di agire nel mondo, di operare sulla realtà per modificarla. Evitando la reazione alle delusioni e all'impotenza di fronte al divenire storico, il disincanto della rassegnazione. Senza chiudersi nel proprio universo o nel ghetto dei simili a sé. Partire da sé per conoscersi e arrivare al confronto con gli altri, invece. Pensare lo sviluppo storico in un progetto, attraverso la ricerca di una linea di superamento che contribuisca a modificare una cultura, anche dandosi tempi lunghi - ma con la consapevolezza che il teatro vive in tempo reale, la sua durata è parte dell'atto conoscitivo, uno spettacolo non può essere capito fra cinquant'anni. Altrimenti, nella società contemporanea, l'alternativa per l'artista è soltanto quella di fare come Rimbaud, l'adolescente folgorato dalla bellezza amara dell'arte. Consumata la breve stagione della creatività, consumare anche se stessi. Farsi avventurieri. Andare in Africa. Voltare le spalle alla storia. Lasciare che germogli altrove quel granello che si è seminato. Ogni punto d'arrivo è un ricominciare».

Da: Gianni Manzella,
La bellezza amara. Il teatro di Leo de Berardinis,
Epilogo, pp. 204-207