Rivista Anarchica Online
«Il più grande linguista?»
Cara Redazione, da «A» 210, pag. 18, vengo a sapere che Chomsky sarebbe «il
più grande linguista vivente». Già non mi
piacciono queste affermazioni in generale (istituendo gerarchie fra esseri umani), figuriamoci, poi, se neppure
mi piace questa affermazione in particolare. Perché, allora, ci andrei più cauto? Punto
primo. Come è ben evidenziato in Il linguaggio inverosimile di Silvio Ceccato e Carlo
Oliva (Milano
1988, pp. 110-129), Chomsky, durante la sua carriera scientifica ha cambiato più volte opinione. Segno
sì, di
onestà intellettuale, ma anche del fatto che qualche sua opinione fosse sbagliata (per gli esegeti, o la
prima o
la seconda, a scelta). Per fare un esempio (che riporto da Ceccato e Oliva), nel 1965 dice che «il significato di
una frase si basa sul significato delle sue parti elementari e sul modo in cui esse si combinano». E aggiunge:
«È chiaro che il modo di combinazione fornito dalla struttura superficiale ... è quasi del tutto
non pertinente
all'interpretazione semantica». Nel 1975, invece, dice che: «le strutture superficiali contribuiscono in modo
determinante all'interpretazione semantica». Punto secondo. Ne La macchina e il
linguaggio (Torino 1987, pag. 34), Parisi e Castelfranchi imputano gli
insuccessi dell'intelligenza artificiale ad una eccessiva forma di dipendenza da una linguistica che, per scegliere
la via più comoda, si è occupata troppo della sintassi trascurando «la semantica, l'uso delle
conoscenze sul
mondo, gli aspetti legati agli scopi che stanno dietro al comportamento linguistico». Il riferimento, sacrosanto,
è, per l'appunto a Chomsky ed ai suoi proseliti. Due anni dopo, allorché si prova a
ripercorrere la via delle reti neurali, Parisi (Intervista sulle reti neurali;
Bologna 1989, pagg. 115 e 288) è ancora più drastico e, soprattutto, più
inclusivo. «La linguistica formale», dice
riferendosi a Chomsky, «studia quella particolare capacità mentale che è il linguaggio in modo
piuttosto astratto,
ricercandone i principi ma non il funzionamento concreto e tanto meno i rapporti con le altre capacità,
ad
esempio con la percezione, con la memoria o con il perseguimento di scopi». E ancora: «la linguistica è
il tipico
esempio in cui un'analisi cosciente e una ricostruzione razionale di come funziona il linguaggio vengono
scambiati con ciò che effettivamente succede nella nostra mente quando parliamo o capiamo».
Punto terzo. Fin qui ho fatto ricorso a criteri altrui, ora aggiungerò una discriminante per mio
conto. Gli studi
linguistici si possono dividere in due settori: da una parte chi cerca l'analisi del significato delle parole in termini
di altre parole (come quelli che cercano «parti elementari», senza tuttavia specificare il criterio di tale
elementarità), dall'altra, chi cerca il significato non in termini di parole ma in termini di meccanismi
che le
costituiscono. C'è insomma, chi rimane al simbolico, e chi, invece, va al subsimbolico, ai costituenti
del
simbolico. È ovvio che i primi si mettono in un circolo vizioso da cui non possano uscire (prima o poi
qualche
parola non definita la incontri, come in un dizionario), mentre è altresì ovvio che l'impegno dei
secondi sia
difficile (ma non impossibile in linea di principio). Chomsky inequivocabilmente fa parte dei
primi. Ed è inutile
che vi faccia notare come e quanto queste posizioni servano da stampella per ogni tipo di «spiritualismo» e di
speculazione filosofica. Che lui se ne renda conto o no, che si autorappresenti come «libertario» o no.
Cordialmente
Felice Accame (Milano)
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