Rivista Anarchica Online
Shalamov
di Alessio Vivo
Chiunque voglia farsi un'idea chiara, sia perché l'abbia in qualche modo
sperimentato, sia perché l'abbia sempre
intuito, dello scontro che si autoriproduce in tutti i sistemi politici, seppure con modalità diverse, fra
la violenza
del potere e l'esigenza di assoluta libertà intellettuale, di ricerca e di studio, non può non sentire
il desiderio di
immergersi nella lettura e di conservare nella sua biblioteca, nel luogo dei libri più cari, il breve
racconto
autobiografico I libri della mia vita, di Varlam Shalamov, curato da Anastasia Pasquinelli per le
edizioni «Ibis».
L'autore è uno dei maggiori scrittori russi del nostro secolo. I suoi Kolymskie Tetradi («I
Quaderni di Kolyma»),
raccolta di poesie del '49 e i Kolymskie Rasskazy («Racconti di Kolyma»), la sua opera
principale, erano già stati
lo specchio di un amore inesausto per la dignità umana, la natura e la poesia, piegate ma non spezzate
dalla
mostruosa perversione in cui cade e fa cadere l'esercizio spietato del potere. Quest'altra opera non è che
un
completamento del tema, che insiste però sulla contrapposizione sopra delineata. Varlam Shalamov
venne arrestato, ancora studente universitario, nel 1929, per aver partecipato ad un
movimento clandestino di opposizione a Stalin e condannato a cinque anni alle gelide Solovki, al Nord della
Russia. Nel 1937 venne arrestato di nuovo per «attività anti-rivoluzionaria trotzkista» e condannato a
cinque
anni di lavori forzati nelle miniere di Kolyma, all'estremo Nord-est della Siberia. Laggiù, nell'inferno
che
chiamavano «il crematorio bianco», trascorse ben diciassette anni, perché la condanna venne prolungata
fino
al 1951 per l'accusa di agitazione antisovietica e per aver definito Ivan Sunin, Premio Nobel nel '33, «uno
scrittore russo classico». A Mosca gli venne concesso di rientrare solo nel '56, dove riuscì a
pubblicare solo qualche raccolta di poesie,
poiché i «Racconti di Kolyma» vennero bollati come «problematica avulsa dalla vita» e circolarono
solo nel
«Samizdat» (cioè clandestinamente). Morì nella più completa solitudine il17
gennaio 1982, due giorni dopo l'internamento in un manicomio di
Mosca, benché fosse totalmente sano di mente. I libri della mia vita descrive un
percorso esistenziale per noi inimmaginabile, fra sofferenze inaudite sopportate
con stoicismo nei lager e nelle cittadine siberiane, ma mai descritte con particolari eccessivi e
autocommiserazione: un percorso durissimo ma denso di dignità, di amore per la cultura e per i libri,
strappati
occasionalmente e fortunosamente alle maglie d'acciaio stese dal potere; libri visti come uniche occasioni di
illuminazione e di serenità, strumenti di resistenza alle avversità naturali ed umane. L'incessante
ricerca del
libro, di cui Shalamov si nutriva anche per alimentare il suo dono poetico, (egli aveva composto a mente i suoi
versi nel lager, mentre trascinava appena i piedi nella neve e come un altro grande poeta della letteratura russa,
Velemir Chlebnikov, creava incessantemente, sebbene a differenza di quest'ultimo non perdeva ciò che
scriveva
nei boschi, ma riusciva a nascondere i foglietti di fortuna durante le perquisizioni), diventa l'unico punto di
riferimento solido, che si intreccia con gli incontri, in un labirinto disumano solo a tratti punteggiato da
un'umanità inattesa, che si ritrova anche in personaggi confinati al gelo del loro ruolo istituzionale di
carcerieri. In pagine bellissime l'autore descrive la stupidità della burocrazia centralizzata e la sua
pretesa di asservire la
cultura, a cui si contrappongono l'amore per la conoscenza, la coscienza dell'individuo pronto ad esporsi fino
all'estremo, indifferente alle sofferenze e alle privazioni perché consapevole dell'importanza della lettura
e dello
studio, sia per sé stesso che per la società in cui vive. Shalamov confronta la lettura in celle
delle prigioni moscovite con quella quasi impossibile nel lager, in cui la
natura umana sembra scomparire in uomini ridotti a «fossili», esseri quasi inanimati «come alberi o pietre» e
nella cerchia del quale sopravvivono solo una ventina di parole in tutto: «alzarsi», «lavoro», «pranzo»,
«piccone», «badile», «caposquadra», «sorvegliante»... La prosa di Shalamov, lucida e amara, spesso
fredda come nei Quaderni di Kolyma, coinvolta nella
constatazione allucinata del fondo di abbrutimento e di disperazione verso il quale trascina la vita nel lager, si
trasforma in I libri della mia vita in prosa semplice, essenziale, in descrizione autobiografica carica
di una
dignità profondissima, ricca di umanità e di innocenza. I libri in questo quadro assumono tutta
la loro potenza,
che è la stessa forza della cultura che nietzscheanamente diventa vita. Una forza che a noi,
sommersi dall'industria culturale, sfugge, poiché il libro rimane merce da acquistare e da
conservare come elemento dell'arredamento o come oggetto di sfoggio d'erudizione e di prestigio nelle
discussioni con gli amici o nelle vuote dispute accademiche. Nella cultura russa in generale invece il libro
è
sempre stato lo strumento per conoscere i più intimi segreti dell'esistenza, qualcosa che non va finito
per forza,
per la sola ragione di conquistarne la fine. Basterebbe pensare al Nechljudov di Tolstoj, se la letteratura
fosse sufficiente (ma purtroppo non lo è
interamente) a dare un quadro delle abitudini e della mentalità russe. E l'operaio che anche oggi
si può vedere stare in coda per ore in una grande libreria di Mosca per poter
conquistare i suoi cinque tomi delle opere complete di Pasternàk finalmente stampate, non è
affatto come
pensano i superstiti parolai ex-stalinisti un prodotto del regime sovietico; è un prodotto dell'anima russa
e del
tradizionale rapporto con la cultura che esiste in quel Paese. Shalamov arriva a sostenere che la produzione
di enormi lacune nella cultura individuale è il vero scopo di ogni
detenzione in un lager o di ogni politica carceraria. Ma il lettore attento non fatica a notare che è lo
stesso valore
intrinseco della lettura e della cultura ad essere esplosivo nell'ambito delle relazioni di potere e che anche
l'invadenza dell'industria culturale con la sua massiccia propaganda è un sistema essenzialmente
totalitario (con
l'inabissamento di valida letteratura a favore dei best-sellers e della letteratura di massa, con il silenzio o
l'ostracismo mascherato nei confronti degli autentici scrittori, con la politica scolastica che porta a paralizzare
il gusto degli alunni e spessissimo ad odiare i classici per tutta una vita). In alcune pagine infatti Shalamov
stesso parla del tempo sprecato a leggere migliaia di pagine stampate della
letteratura di massa, diffusa in gran quantità dalla dittatura sovietica (un crimine gravissimo, che la
Russia sta
ancora pagando, per il cronico deficit di carta da stampa): un fenomeno che si discosta solo per differenza di
grado dalla nostra cultura di massa. D'altra parte non è per caso che già un proto-anarchico
come De la Boétie aveva contrapposto la cultura di una
comunità politica alla servitù volontaria e al dominio supportato dal consenso. Dal quadro
di Shalamov risulta limpidamente una sorta di vita sotterranea, quella a contatto con i libri, che può
svolgersi, sebbene a fatica e a singhiozzi, anche e persino in un regime, come quello sovietico, di privazione
totale della libertà; una vita sulla quale nulla può il potere, nonostante i repulisti di biblioteche
e i roghi di libri
che, come Shalamov testimonia in modo definitivo, con immagini simili al film di Truffault «Fahrenheit 451»,
sotto Beria avvenivano con regolarità e senza pubblicità. Risulta una vita personale,
profondamente innervata dall'amore per la libertà, a fronte della quale tutto il resto
appare meschinità e gelido vuoto. «I libri sono esseri vivi (...), sono quel che di meglio abbiamo
nella vita, sono la nostra immortalità», afferma
Shalamov. Non a caso e giustamente nella brevissima ma densa introduzione la Pasquinelli ricorda come
ciò che più si
avvicina allo spirito di questa breve ma fondamentale opera dell'autore russo sia il verso di Ezra Pound:
«Quello
che veramente non ti verrà strappato / Quello che veramente ami è la tua vera eredità».
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