Rivista Anarchica Online
W il bambino tecnologico
di Filippo Trasatti
Le elezioni, che ormai sembrano lontane, hanno lasciato a molti probabilmente
un ritornello nell'orecchio: i
giovani più degli adulti hanno votato per le destre più o meno moderate e in particolare per il
grande
dispensatore di sogni gratis, il cavaliere nero su un cavallo di luce che si chiama volgarmente televisione. E
allora dàgli con le analisi, i rimorsi di coscienza, le crisi generazionali in una chiacchiera generalizzata
che
è davvero il veicolo migliore dell'incultura televisiva. Eppure non si può negare che forte
sia e sia stata l'influenza della televisione e degli altri media sulle
generazioni che oggi hanno 18 anni. Una recente e interessante indagine dello IARD (1) che ha fotografato un
consistente campione di giovani tra i 15 e i 29 anni in Italia, mostra come ci sia un rapporto inverso tra consumo
televisivo e consumo di carta stampata: i lettori assidui di libri e quotidiani non sono grandi consumatori di
televisione, mentre questi ultimi accedono poco se non nulla alla carta stampata, se non quella che viene
propinata obbligatoriamente a scuola. Ancora un dato, poi abbandoniamo le statistiche: più del
75% dei giovani intervistati dedica giornalmente da
1 a 4 ore alla visione della TV. Questa esposizione alla TV (come dicono gli esperti con un'espressione che
ricorda il contatto con la
radioattività oppure più curiosamente l'idea che noi ci mostriamo allo schermo che ci scruta di
orwelliana
memoria), non può non incidere fortemente sulle scelte culturali, sugli stili di vita, sui comportamenti,
sul modo
di pensare il mondo. Ma qui le strade si dividono abbastanza nettamente: c'è chi pensa e si
preoccupa più dei media come
dispensatori di contenuti e chi invece come dispensatori di forme (in-formatori nel vero senso della parola) della
percezione, di modalità cognitive e di rapporto con il mondo. I primi in genere non si sono accorti
della lezione di Marshall McLuhan, solitario esploratore del Nuovo mondo
dei media, che puntava il dito sulle trasformazioni cognitive e percettive indotte da ciascun media; i secondi
hanno forse dimenticato di ormeggiare la nave e vanno senza fine nella deriva postmodernista dell'assenza di
senso. Tenendo d'occhio entrambe le strade, è necessario riflettere a fondo sul rapporto tra i giovani
e i media; prima
ancora che agli esperti dovrebbe stare a cuore ai genitori e agli insegnanti discutere a partire dalle esperienze
comuni, senza isterismi né demonizzazioni, superando il fatalismo che è ormai pandemico.
È stato pubblicato
di recente un libro che riapre, dal punto di vista della didattica, la discussione su questa tematica:
Manuale di
didattica multimediale di Roberto Maragliano (ed. Laterza, Roma-Bari 1994). È
dedicato soprattutto agli insegnanti, ma offre larghi spunti di riflessione a tutti coloro che ad esempio si
interessano di nuove tecnologie della comunicazione, dell'incrocio tra i diversi linguaggi audiovisivi.
Maragliano è un noto pedagogista dell'Università di Roma, che da anni si occupa di
innovazione didattica, ma
che ha anche la grave responsabilità di aver pompato nella scuola italiana negli anni Ottanta quella che
io
chiamo "l'ideologia della programmazione", o altrimenti detta in versi: in classe non si muova foglia / che il
curricolo non voglia. Da un po' di tempo probabilmente si è in parte pentito ed esplora nuovi
territori e quale è più promettente e
stimolante delle nuove tecnologie della comunicazione con meraviglie scintillanti come cd-rom, ipertesti, ma
anche videoclip, enciclopedie multimediali? Non so se avete notato che spesso anche gli esperti più
seriosi
davanti alle meraviglie tecnologiche diventano come bambini davanti ai nuovi balocchi: si entusiasmano e
vogliono tornare a giocare. Nulla in contrario, ma torniamo ai nostri media. Maragliano fa accuse circostanziate
e sacrosante alla scuola che non ha saputo cogliere lo spirito dei tempi, la portata del mutamento in corso,
né
instaurare un vero dialogo con i giovani sempre più lontani dalla cultura degli adulti e fin dalla nascita
immersi
in un ambiente multimediale che ha profondamente modificato il loro modo di percepire e vedere il mondo, di
acquisire conoscenze, di rapportarsi agli apprendimenti. Spaventati dalle macchine che non comprendono nella
loro peculiarità e potenzialità (invero soprattutto per mia esperienza le insegnanti di sesso
femminile che fanno
senza saperlo una critica del macchinismo e dell'artificialismo maschili), gli insegnanti vedono come fumo
tossico i walkman e come vero e proprio demonio la televisione. I computer vengono invece accettati
più facilmente purché dispensatori di buoni programmi didattici (che
peraltro quasi non esistono, data l'esiguità del mercato scolastico italiano di software specifico) o ancora
più facilmente come strumenti per scrivere o risolvere problemi matematici. La risposta
adeguata non è certo bamboleggiare, facendo il verso ai giovani, seguendo le loro mode e i loro
desideri, ma usare questi strumenti come ulteriori occasioni di apprendimento, insieme ad altri, realizzando
dunque un'effettiva didattica multimediale. Ma qui comincia il discorso più interessante: come
usare questi media e con quali effetti sugli apprendimenti?
Nessuno, e dunque neppure il nostro, ha risposte precise in merito, ma è certo che questa è una
delle strade più
interessanti per l'esplorazione didattica degli anni a venire. Veniamo dunque al cuore del discorso. Uno
strumento non è mai neutrale, nel senso che apre una prospettiva determinata sul mondo, estende le
nostre
possibilità in una direzione, ma al tempo stesso ce ne sottrae altre. Le facilitazioni che ci offre e
l'ottimizzazione
in rapporto a determinati fini sono sempre il prodotto di una scelta che si inserisce in un certo modo in un
ambiente materiale e culturale più vasto e che contribuisce a modificarlo. L'errore sta dunque nel
cercare di usare un mezzo indifferentemente rispetto ad un altro per trasmettere lo stesso
messaggio. Chiunque alterni la scrittura a mano e al computer sa cosa intendo dire. Oppure pensate al
dibattito tuttora in corso sul "buon uso" della TV: la buona TV non è quella che trasmette
buoni messaggi, ma quella che li trasmette in un certo modo, a prescindere dal problema inquietante di che cosa
sia un buon messaggio e chi decida in merito. E' assurdo pensare di usare come spesso si fa il film o la
cassetta video al posto di una lezione di geografia o
di storia. La scuola, ma più in generale la cultura "alta", sostiene Maragliano riprendendo le tesi
di alcuni massmediologi,
ragionano entro il paradigma gutemberghiano, che testualizza ogni conoscenza secondo i parametri della
linearità, della fissità, della chiusura. Esiste una ragion tipografica la cui critica è
in corso di elaborazione e di cui uno dei precursori è stato il grande
Ivan Illich (2), che il nostro non cita nemmeno. Esiste in parallelo una cultura dell'oralità detta di
ritorno (secondo la definizione di Walter Ong) o secondaria
che ha elementi in comune ma anche caratteristiche diverse dall'oralità originaria, proprio
perché ha attraversato
la grande pianura della scrittura e ne ha acquisito alcuni caratteri essenziali. Quest'altra ragion audio-orale,
schematizzando un po' (3), è quella dei giovani che ci vivono immersi fin dall'infanzia e cambia
profondamente
il modo di accostarsi al mondo, che è piuttosto un sentire che un vedere, è immersione in un
ambiente piuttosto
che analisi e astrazione degli elementi significativi. Una cultura dell'oralità, seppur di ritorno, ha
un rapporto diverso con il tempo e con la storia rispetto a una
cultura tipografica. E qui il pensiero non può che ritornare all'attualità. «Le culture
audioaurali - dice Maragliano- non hanno storia
nel senso che noi diamo a questa parola. Il loro rapporto col passato è continuamente intermediato dalle
esperienze del presente, sta nei discorsi degli uomini e nelle istituzioni che li tengono assieme. Aspetti che noi
considereremmo storici, degni di esser fissati nella memoria, si intrecciano con altri di carattere fabulistico e
mitologico; altri, pur richiamando sempre lo stesso fatto, cambiano col tempo e si adattano al contesto d'uso;
altri ancora integrano in un'unica struttura avvenimenti che la nostra cultura storica giudicherebbe incompatibili
perché separati da centinaia d'anni» (p. 125). Sarebbe un grave errore guardare con compiacenza
a queste nuove forme di ignoranza, scambiandole per nuove
modalità conoscitive, come grave sarebbe ignorare, dall'alto della propria cultura, che i nuovi media
inducono
trasformazioni profonde anche a livello cognitivo e modalità nuove di apprendimento di cui non si
può non tener
conto. L'attenzione alla multimedialità è dunque necessaria per avvicinarsi e comprendere
meglio l'universo
giovanile e da qui partire per elaborare nuove strategie didattiche. Ma decisamente talvolta Maragliano
perde il senso del limite, come quando sostiene che «il sistema sensorio
dei bambini e dei giovani di oggi è diverso dal nostro» e che «è su questo terreno che
registriamo il più grosso
elemento di frattura tra il modo di essere di noi adulti e il modo di essere dei bambini e dei giovani» (19).
Queste sono davvero enormità prive di solidi fondamenti, prodotti di un determinismo tecnologico
molto
diffuso nella cosiddetta postmodernità. Come pure appare, a me, sospetta l'idea che ciò che
è piacevole, esempio
la TV o il videogioco, sia comunque buono per il bambino. Così ci si consegna mani e piedi alla
cultura dell'evasione e dell'intrattenimento televisivo (berlusconiano e non)
che mi pare sia composta per il 95% abbondante da spazzatura. I bambini e i giovani hanno bisogno di ben altro
che televisione: nonostante l'esposizione giornaliera alla TV sia in costante aumento, non mi sembra che il
disagio giovanile sia diminuito. Questi e altri sono i punti deboli del libro, il cui aspetto comune è
che rientrano in quella pericolosa moda di
glorificazione dei media che ha contagiato molti intellettuali dei nostri tempi. A parte tutto questo il libro offre
degli esempi stimolanti sui possibili incroci multimediali tra linguaggi, mezzi e contenuti diversi, alla ricerca
di una logica che è assai diversa dalla consolidata e spesso miserevole pratica didattica quotidiana.
1) Giovani anni '90, a cura di A. Cavalli e A. de Lillo, Il Mulino,
Bologna 1993.
2) Si veda in proposito il suo scritto tradotto sul numero 1/87 di - "Volontà"
con il titolo Sull'isola dell'alfabeto.
3) È bene non dimenticare che questa è solo una delle interpretazioni
proposte. Si pensi ad esempio alla pratica della scrittura
femminista come recupero della materialità della scrittura, oppure a certe teorizzazioni degli anni
Settanta in Francia, intorno alla
rivista "Tel Quel". Per avere un'idea di un altro approccio possibile si veda il testo di R. Barthes
Orale/scritto, Enciclopedia Einaudi
vol. X.
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