Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 24 nr. 211
estate 1994


Rivista Anarchica Online

W il bambino tecnologico
di Filippo Trasatti

Le elezioni, che ormai sembrano lontane, hanno lasciato a molti probabilmente un ritornello nell'orecchio: i giovani più degli adulti hanno votato per le destre più o meno moderate e in particolare per il grande dispensatore di sogni gratis, il cavaliere nero su un cavallo di luce che si chiama volgarmente televisione.
E allora dàgli con le analisi, i rimorsi di coscienza, le crisi generazionali in una chiacchiera generalizzata che è davvero il veicolo migliore dell'incultura televisiva.
Eppure non si può negare che forte sia e sia stata l'influenza della televisione e degli altri media sulle generazioni che oggi hanno 18 anni. Una recente e interessante indagine dello IARD (1) che ha fotografato un consistente campione di giovani tra i 15 e i 29 anni in Italia, mostra come ci sia un rapporto inverso tra consumo televisivo e consumo di carta stampata: i lettori assidui di libri e quotidiani non sono grandi consumatori di televisione, mentre questi ultimi accedono poco se non nulla alla carta stampata, se non quella che viene propinata obbligatoriamente a scuola.
Ancora un dato, poi abbandoniamo le statistiche: più del 75% dei giovani intervistati dedica giornalmente da 1 a 4 ore alla visione della TV.
Questa esposizione alla TV (come dicono gli esperti con un'espressione che ricorda il contatto con la radioattività oppure più curiosamente l'idea che noi ci mostriamo allo schermo che ci scruta di orwelliana memoria), non può non incidere fortemente sulle scelte culturali, sugli stili di vita, sui comportamenti, sul modo di pensare il mondo.
Ma qui le strade si dividono abbastanza nettamente: c'è chi pensa e si preoccupa più dei media come dispensatori di contenuti e chi invece come dispensatori di forme (in-formatori nel vero senso della parola) della percezione, di modalità cognitive e di rapporto con il mondo.
I primi in genere non si sono accorti della lezione di Marshall McLuhan, solitario esploratore del Nuovo mondo dei media, che puntava il dito sulle trasformazioni cognitive e percettive indotte da ciascun media; i secondi hanno forse dimenticato di ormeggiare la nave e vanno senza fine nella deriva postmodernista dell'assenza di senso.
Tenendo d'occhio entrambe le strade, è necessario riflettere a fondo sul rapporto tra i giovani e i media; prima ancora che agli esperti dovrebbe stare a cuore ai genitori e agli insegnanti discutere a partire dalle esperienze comuni, senza isterismi né demonizzazioni, superando il fatalismo che è ormai pandemico. È stato pubblicato di recente un libro che riapre, dal punto di vista della didattica, la discussione su questa tematica: Manuale di didattica multimediale di Roberto Maragliano (ed. Laterza, Roma-Bari 1994).
È dedicato soprattutto agli insegnanti, ma offre larghi spunti di riflessione a tutti coloro che ad esempio si interessano di nuove tecnologie della comunicazione, dell'incrocio tra i diversi linguaggi audiovisivi.
Maragliano è un noto pedagogista dell'Università di Roma, che da anni si occupa di innovazione didattica, ma che ha anche la grave responsabilità di aver pompato nella scuola italiana negli anni Ottanta quella che io chiamo "l'ideologia della programmazione", o altrimenti detta in versi: in classe non si muova foglia / che il curricolo non voglia.
Da un po' di tempo probabilmente si è in parte pentito ed esplora nuovi territori e quale è più promettente e stimolante delle nuove tecnologie della comunicazione con meraviglie scintillanti come cd-rom, ipertesti, ma anche videoclip, enciclopedie multimediali? Non so se avete notato che spesso anche gli esperti più seriosi davanti alle meraviglie tecnologiche diventano come bambini davanti ai nuovi balocchi: si entusiasmano e vogliono tornare a giocare. Nulla in contrario, ma torniamo ai nostri media. Maragliano fa accuse circostanziate e sacrosante alla scuola che non ha saputo cogliere lo spirito dei tempi, la portata del mutamento in corso, né instaurare un vero dialogo con i giovani sempre più lontani dalla cultura degli adulti e fin dalla nascita immersi in un ambiente multimediale che ha profondamente modificato il loro modo di percepire e vedere il mondo, di acquisire conoscenze, di rapportarsi agli apprendimenti. Spaventati dalle macchine che non comprendono nella loro peculiarità e potenzialità (invero soprattutto per mia esperienza le insegnanti di sesso femminile che fanno senza saperlo una critica del macchinismo e dell'artificialismo maschili), gli insegnanti vedono come fumo tossico i walkman e come vero e proprio demonio la televisione.
I computer vengono invece accettati più facilmente purché dispensatori di buoni programmi didattici (che peraltro quasi non esistono, data l'esiguità del mercato scolastico italiano di software specifico) o ancora più
facilmente come strumenti per scrivere o risolvere problemi matematici.
La risposta adeguata non è certo bamboleggiare, facendo il verso ai giovani, seguendo le loro mode e i loro desideri, ma usare questi strumenti come ulteriori occasioni di apprendimento, insieme ad altri, realizzando dunque un'effettiva didattica multimediale.
Ma qui comincia il discorso più interessante: come usare questi media e con quali effetti sugli apprendimenti? Nessuno, e dunque neppure il nostro, ha risposte precise in merito, ma è certo che questa è una delle strade più interessanti per l'esplorazione didattica degli anni a venire. Veniamo dunque al cuore del discorso.
Uno strumento non è mai neutrale, nel senso che apre una prospettiva determinata sul mondo, estende le nostre possibilità in una direzione, ma al tempo stesso ce ne sottrae altre. Le facilitazioni che ci offre e l'ottimizzazione in rapporto a determinati fini sono sempre il prodotto di una scelta che si inserisce in un certo modo in un ambiente materiale e culturale più vasto e che contribuisce a modificarlo.
L'errore sta dunque nel cercare di usare un mezzo indifferentemente rispetto ad un altro per trasmettere lo stesso messaggio. Chiunque alterni la scrittura a mano e al computer sa cosa intendo dire.
Oppure pensate al dibattito tuttora in corso sul "buon uso" della TV: la buona TV non è quella che trasmette buoni messaggi, ma quella che li trasmette in un certo modo, a prescindere dal problema inquietante di che cosa sia un buon messaggio e chi decida in merito.
E' assurdo pensare di usare come spesso si fa il film o la cassetta video al posto di una lezione di geografia o di storia.
La scuola, ma più in generale la cultura "alta", sostiene Maragliano riprendendo le tesi di alcuni massmediologi, ragionano entro il paradigma gutemberghiano, che testualizza ogni conoscenza secondo i parametri della linearità, della fissità, della chiusura.
Esiste una ragion tipografica la cui critica è in corso di elaborazione e di cui uno dei precursori è stato il grande Ivan Illich (2), che il nostro non cita nemmeno.
Esiste in parallelo una cultura dell'oralità detta di ritorno (secondo la definizione di Walter Ong) o secondaria che ha elementi in comune ma anche caratteristiche diverse dall'oralità originaria, proprio perché ha attraversato la grande pianura della scrittura e ne ha acquisito alcuni caratteri essenziali. Quest'altra ragion audio-orale, schematizzando un po' (3), è quella dei giovani che ci vivono immersi fin dall'infanzia e cambia profondamente il modo di accostarsi al mondo, che è piuttosto un sentire che un vedere, è immersione in un ambiente piuttosto che analisi e astrazione degli elementi significativi.
Una cultura dell'oralità, seppur di ritorno, ha un rapporto diverso con il tempo e con la storia rispetto a una cultura tipografica.
E qui il pensiero non può che ritornare all'attualità. «Le culture audioaurali - dice Maragliano- non hanno storia nel senso che noi diamo a questa parola. Il loro rapporto col passato è continuamente intermediato dalle esperienze del presente, sta nei discorsi degli uomini e nelle istituzioni che li tengono assieme. Aspetti che noi considereremmo storici, degni di esser fissati nella memoria, si intrecciano con altri di carattere fabulistico e mitologico; altri, pur richiamando sempre lo stesso fatto, cambiano col tempo e si adattano al contesto d'uso; altri ancora integrano in un'unica struttura avvenimenti che la nostra cultura storica giudicherebbe incompatibili perché separati da centinaia d'anni» (p. 125).
Sarebbe un grave errore guardare con compiacenza a queste nuove forme di ignoranza, scambiandole per nuove modalità conoscitive, come grave sarebbe ignorare, dall'alto della propria cultura, che i nuovi media inducono trasformazioni profonde anche a livello cognitivo e modalità nuove di apprendimento di cui non si può non tener conto. L'attenzione alla multimedialità è dunque necessaria per avvicinarsi e comprendere meglio l'universo giovanile e da qui partire per elaborare nuove strategie didattiche.
Ma decisamente talvolta Maragliano perde il senso del limite, come quando sostiene che «il sistema sensorio dei bambini e dei giovani di oggi è diverso dal nostro» e che «è su questo terreno che registriamo il più grosso elemento di frattura tra il modo di essere di noi adulti e il modo di essere dei bambini e dei giovani» (19). Queste sono davvero enormità prive di solidi fondamenti, prodotti di un determinismo tecnologico molto diffuso nella cosiddetta postmodernità. Come pure appare, a me, sospetta l'idea che ciò che è piacevole, esempio la TV o il videogioco, sia comunque buono per il bambino.
Così ci si consegna mani e piedi alla cultura dell'evasione e dell'intrattenimento televisivo (berlusconiano e non) che mi pare sia composta per il 95% abbondante da spazzatura. I bambini e i giovani hanno bisogno di ben altro che televisione: nonostante l'esposizione giornaliera alla TV sia in costante aumento, non mi sembra che il disagio giovanile sia diminuito.
Questi e altri sono i punti deboli del libro, il cui aspetto comune è che rientrano in quella pericolosa moda di glorificazione dei media che ha contagiato molti intellettuali dei nostri tempi. A parte tutto questo il libro offre degli esempi stimolanti sui possibili incroci multimediali tra linguaggi, mezzi e contenuti diversi, alla ricerca di una logica che è assai diversa dalla consolidata e spesso miserevole pratica didattica quotidiana.

1) Giovani anni '90, a cura di A. Cavalli e A. de Lillo, Il Mulino, Bologna 1993.

2) Si veda in proposito il suo scritto tradotto sul numero 1/87 di - "Volontà" con il titolo Sull'isola dell'alfabeto.

3) È bene non dimenticare che questa è solo una delle interpretazioni proposte. Si pensi ad esempio alla pratica della scrittura femminista come recupero della materialità della scrittura, oppure a certe teorizzazioni degli anni Settanta in Francia, intorno alla rivista "Tel Quel". Per avere un'idea di un altro approccio possibile si veda il testo di R. Barthes Orale/scritto, Enciclopedia Einaudi vol. X.