Rivista Anarchica Online
Io voglio sapere
di Cristina Valenti
Uno spettacolo in piazza per testimoniare il dovere della memoria, vent'anni dopo la strage di piazza della
Loggia a Brescia.
Brescia, piazza della Loggia, 28 maggio 1974: molta gente in piazza per una
manifestazione antifascista, la voce
amplificata del sindacalista dal palco, rumore di pioggia, un'ordinata scenografia di ombrelli, stendardi, bandiere
... poi lo scoppio, il fumo, i corpi a terra, le macerie, il rosso del sangue e delle bandiere, le scritte sugli striscioni
come iscrizioni lapidarie, confusione, le parole concitate dal palco ... poi gli idranti che lavano il selciato, i fiori,
le commemorazioni, il lungo percorso della giustizia ... poi la sentenza di archiviazione del processo, il 23
maggio 1993. 29 maggio 1994, un anno dopo la sentenza, vent'anni dalla strage, ancora tanta gente nella
stessa piazza per
affermare coi mezzi del teatro il diritto a sapere e il dovere di non dimenticare. Io voglio sapere
è il titolo di
questo evento straordinario, che è fino in fondo spettacolo e fino in fondo cerimonia, assemblea civile,
come
vuole uno dei miti più antichi del teatro: un'esigenza ricorrentemente inseguita e raramente realizzata,
che si
è compiuta a Brescia in questa occasione grazie soprattutto al carattere di base dell'iniziativa.
L'idea di scendere in piazza e «di prendere la parola per testimoniare il dovere della memoria» è
venuta a tre
insegnanti, Silvia Guerra, Maria Longo e Marisa Veroli, attive nel mondo dell'associazionismo cittadino e
animatrici dell'organismo culturale Teatro Due, e da loro è stata lanciata alle persone e ai gruppi attivi
nel teatro
in città e in provincia. Di qui l'incontro con gli altri firmatari del progetto: l'Associazione Beppe Anni,
il Nikel
Odeon Teatro, Lo Spiraglio, Quarta Corsia, il Gruppo Teatro Scuola (formato da studenti e da insegnanti
lavoratori dell'Istituto Gambara), Lino Pedullà (che ha curato la drammaturgia) e Giorgio Testa (che
ha
coordinato il laboratorio drammaturgico di partenza).
Teatro di resistenza Il lavoro si è ispirato a Le Troiane
di Euripide, la storia di un gruppo di donne sopravvissute alla distruzione
della loro città, che hanno perso i mariti, i figli, i padri, i fratelli e che attendono di diventare bottino
dei
vincitori. Un testo che illumina le pieghe oscure della storia: i drammi privati di chi è protagonista
indiretto
della violenza, le loro parole, le immagini e i ricordi che custodiscono, qualcosa di prezioso e alto, pari al valore
di quanto si è perso ... e che rischia di perdersi ancora, come insegna la storia delle stragi nel nostro
paese, nelle
tenebre dei meandri giudiziari, fra archiviazioni e depistaggi. Una volta elaborato collettivamente lo
schema per la messa in scena, il gruppo ne ha affidato la realizzazione
a un regista, Alberto Grilli, del Teatro Due Mondi di Faenza, esperto in spettacoli di strada e allestimenti
all'aperto, che definisce il suo un teatro «di resistenza, non ancora catturato». Ho parlato con Alberto, in questa
fase del progetto, quando era stato appena contattato e stava decidendo di accettare l'incarico; mi ha detto che
l'aveva colpito il fatto che fra di loro, le persone coinvolte nell'iniziativa, si chiamassero normalmente
«compagni»: una parola che in una città di storica tradizione democristiana e di attuale insediamento
leghista
aveva ancora, evidentemente, un significato connotante identità e differenza.
Lento incedere E con spirito militante è andato avanti tutto il
progetto. Da marzo a maggio ogni fine settimana cinquanta
persone, lavoratori e studenti, professionisti e dilettanti del teatro, si sono trovate a Collebeato, nello spazio di
una scuola elementare in disuso, per costruire lo spettacolo sotto la direzione di Alberto Grilli e col concorso
volontario di tanti «compagni» in grado di fornire lavoro, materiali, attrezzature. Uno spirito di
comunità che
è arrivato fino allo spettacolo, al quale si sono uniti, il 29 maggio in piazza della Loggia, la Banda
Cittadina di
Brescia, la Banda Musicale di Collebeato, la Scuola Corale del Teatro Grande, e altre 200 persone circa tra
figuranti e servizio d'ordine (associazioni, gruppi, sindacati, gente che non aveva dimenticato, bambini delle
scuole elementari, e alla fine il saluto del Sindaco). «Il seme lasciato dal dolore si è fatto custode
della memoria e del senso di appartenenza civile» si legge nel
foglio preparato per l'occasione. Tutti con pantaloni o gonna neri, casacca bianca e un nastro rosso legato
nel braccio sinistro, le centinaia di
persone coinvolte nell'evento hanno delimitato e animato il grande spazio della piazza con un rituale silenzioso
e solenne, diviso in nove quadri annunciati da altrettanti striscioni bianchi sorretti da bambini e fatti sfilare per
tutta la lunghezza della piazza. A leggere i ricordi della strage si rintracciano immagini, colori, parole e
atmosfere che si ritrovano nello
spettacolo, non per raccontare ma per ricreare, non con valore commemorativo ma partecipativo. «Lo scoppio
in un angolo della piazza, il fuggi fuggi ... la folla si apre, è smarrita, impaurita»: e la folla del
pubblico-partecipante si aprirà molte volte, nel corso della rappresentazione, per essere tagliata come
una ferita dal lento
incedere della banda che percorrerà la piazza longitudinalmente, da un capo all'altro, al suono della
marcia
funebre; e il fuggi fuggi lo vedremo su un praticabile laterale mentre in alto, dalle finestre di un palazzo, otto
figure srotoleranno dal capo altrettanti turbanti viola, che cadranno giù lievi, indugiando appena
nell'aria, per
disporsi diversamente appesi dove capiterà, e lì giaceranno, come corpi abbandonati dalla vita,
mentre dall'altro
lato della piazza, sul praticabile di fronte, le sedici donne che sono entrate all'inizio coperte da ombrelli rossi
e hanno prestato il loro corpo per disegnare rosse sagome umane su bianchi fogli di carta, hanno piegato gli
ombrelli, accartocciato la carta alla lettura della sentenza (l'assoluzione degli imputati per non aver commesso
il fatto) e ora se ne stanno erette, un lungo bastone in mano, commentando la sequenza di morte di fronte a loro
con un'immagine di presidio civile, che è anche l'immagine di una mutilazione: pali senza bandiere
né stendardi
quando si sa che stendardi e bandiere servirono quel giorno per coprire i cadaveri. Poi le donne si chinano e
ricompaiono con una foto sul volto, che appenderanno al palo, mentre sull'altra passerella si susseguono le scene
di morte, i cadaveri vengono ricomposti, i loro effetti personali vanno a riempire dei sacchi neri di immondizia
sui quali vengono affisse delle foto. Ma questi sacchi neri diventano poi le pance di figure incinte e mentre
dall'alto delle finestre rotolano giù palle di carta, la vita continua nella città assediata con le
corse e i canti dei
bambini (e sono pupazzi issati su alti bastoni) che mescolano incoscienza garrula e tragica consapevolezza.
Parlano le Troiane: «I figli, dicevano, sarebbero diventati più forti dei padri. Uccideranno i vostri figli:
si deve
impedire loro di vivere, di crescere. Siete impotenti, ci dissero. Nulla vi può aiutare, nulla difendere,
da nessuna
parte. Dovete riflettere: la città, gli sposi sono periti; voi siete prigioniere. E noi non staremo a temere
una
femmina ... ».
Un'esplosione di silenzio E la folla si aprirà molte volte per essere
tagliata trasversalmente da una sorta di barella portata a braccia sulla
quale sta un uomo inginocchiato e macchiato di rosso («a terra i cadaveri ... in ginocchio i soccorritori» si legge
nei materiali del laboratorio) che a un certo punto si leva in piedi e brandisce due bastoni come un guerriero
(è
lui, allora, il nemico? e la barella è una macchina di guerra? oppure è la città ferita che
si alza dalla prostrazione
e reagisce combattendo?) e su un'altra portantina compare una donna velata di viola con una valigia in mano,
il suo equilibrio è precario, la città vittima e guerriero la insegue; i bambini sono tanti ora, alti
pali vestiti di
giacche colorate che fanno muro contro l'avanzare della morte, e le parole della tragedia recitano il Coro dei
bambini sgomenti: «Io voglio sapere ... Voglio sapere se tu ci pensi». La marcia funebre avanza
incontrando un altro corteo, quello dei bambini e dei loro ricordi: «Mia sorella era
là ... Io ero piccola ... faccio così fatica a ricordare ... ». Nella piazza c'è un enorme
silenzio. Parole e gesti tanto
comuni che diventano così drammatici: come le immagini di quelle figure di donne in alto, che si
intravedono
da dietro le finestre e che descrivono con pochi gesti quella che deve essere stata la tragedia di tante famiglie,
mentre risuonano le domande difficili dei bambini e le difficile spiegazioni, e il silenzio si impadronisce sempre
più della piazza e il pubblico-partecipante si muove con cautela, per non romperlo, quel silenzio che
si è
gonfiato pian piano di memorie da custodire e da condividere. La città guerriero intanto è
sconfitta, tre bastoni conficcati nel corpo, le braccia a ciondoloni mentre risuonano
le parole della tragedia: «... morire non è come vivere. La morte è il nulla. La vita è
speranza». E la vita è
l'immagine femminile della madre, di Ecuba forse, custode del dolore e del ricordo, ossia del patrimonio della
città da trasmettere alle nuove generazioni. La folla si apre per l'ultima volta, mostra la ferita della
lacerazione prodotta e la ricompone con la conclusione
del rituale: il «servizio d'ordine» forma due cordoni e di mano in mano, da un capo all'altro della piazza,
vengono passate delle piccole piantine fiorite, sempre più velocemente, cercando anche le mani degli
spettatori,
anche loro coinvolti nel fare arrivare le piantine fino in fondo, dove formeranno un letto fiorito sotto le lapidi.
Uno spettacolo per ricordare il fragore di una strage, il fumo e la devastazione, i morti, la confusione e le
macerie e che per farlo ha scelto un rituale solenne e silenzioso, fatto di immagini soffuse di intimità
violata,
commentato dai canti delle donne e dalle voci dei bambini. Mi sono chiesta cosa ci fosse di così
drammatico
in quel silenzio, di così solenne e partecipato, di così sovrastante e però intimo e
vibrato. Ho capito che era il
silenzio che i bresciani devono aver sentito dentro di loro, quel 28 maggio del 1974, e che ancora risentivano
con commozione durante lo spettacolo. Ecco che cos'è una strage, un'esplosione di silenzio, alla quale
seguirà
ancora silenzio, e cancellazione, e impossibilità di giustizia, e rimozione. Alla fine dello spettacolo,
ognuno ha ricevuto una cartolina con una poesia di Bertold Brecht: «Davvero, vivo
in tempi bui! / La parola innocente è stolta. Una fronte distesa / vuol dire
insensibilità. / Chi ride, la notizia
atroce / non l'ha ancora ricevuta. // Quali tempi sono questi, quando /
discorrere d'alberi è quasi un delitto /
perché su troppe stragi comporta il silenzio?».
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