Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 24 nr. 208
aprile 1994


Rivista Anarchica Online

Da Torino a Detroit
di Maria Matteo

Spesso nelle autostrade in prossimità delle località più importanti sono collocati cartelli di presentazione che ne illustrano le peculiarità principali: ci sono le città d'arte, i luoghi famosi per la produzione vinicola, quelli legati alla commemorazione di un avvenimento storico e tanti altri. Chi arriva a Torino sui bordi della tangenziale vede un'insegna blu in cui campeggia il disegno stilizzato di una vettura e la scritta «Torino città dell'automobile». In questa breve dicitura si condensa la storia degli ultimi cent'anni di questa città, che all'industria automobilistica ha legato il proprio destino, un destino che con gli anni ha finito con l'assumere un unico marchio, quello della Fiat. La memoria di chi è nato e vissuto a Torino così come dei tanti che vi sono emigrati nei decenni successivi è indissolubilmente segnata dalla presenza degli stabilimenti della Fiat. E' la memoria del boom economico e del sogno di una crescita inarrestabile, ma anche quella delle lotte per la casa e per i servizi in una città cresciuta troppo in fretta. La città della Fiat, la città degli Agnelli, i padroni per antonomasia, è stata anche la città delle grandi lotte operaie, la città che nel '17 scioperò contro la guerra, erigendo barricate elettrificate, la città dell'occupazione delle fabbriche, la città il cui cuore autentico batteva nelle barriere proletarie ove l'orgoglio della condizione operaia alimentava uno spirito mai sopito di ribellione. Persino nei periodi più bui, dopo la strage di Torino in cui la ferocia delle squadracce di Brandimarte si abbatté su alcuni dei più noti esponenti delle lotte sindacali di quegli anni, numerosi gruppi continuarono clandestinamente la propria attività in barriera di Nizza, a Campidoglio, in barriera di Milano. Forse per i più Torino è solo la città della Fiat, la città di Agnelli, ma per molti altri Torino è anche e soprattutto la città di quegli operai come Pietro Ferrero, protagonista delle lotte e degli scioperi degli anni '10 e '20, assassinato dai fascisti.

Muri invisibili
Le vicende degli ultimi mesi paiono indicare che il futuro di Torino non sarà più connesso alla Fiat e probabilmente nemmeno alla classe operaia. Soltanto pochi mesi fa la miliardaria kermesse pubblicitaria organizzata per il lancio della punto riproponeva il connubio tra la città e la Fiat. Non si erano ancora spenti i riflettori della festa che già prendeva corpo quello che ormai tutti sapevano: cassa integrazione, ridimensionamento e chiusura di impianti, risibili promesse di riconversione industriale rapida. Gli accordi siglati a fine febbraio tra CGIL, CISL e UIL e padronato si limitano ad attivare meccanismi di ammortizzazione sociale ma non aprono certo prospettive per il domani. I grandi cortei che hanno preceduto la trattativa hanno assunto le caratteristiche d'un rituale obbligato ma ormai liso, privo del mordente necessario per una battaglia che i più hanno dato per persa prima di iniziarla.
Il maggior segno di vitalità lo hanno dato gli operai dell'Alfa di Arese, che, giunti da Milano per manifestare, si sono arrampicati sulla collina sino alla villa del padrone. Il tecnocrate sindaco della città, il progressista Castellani, preconizza per Torino un avvenire all'insegna della tecnologia e del terziario avanzato e vara un piano regolatore la cui realizzabilità dipenderà in buona misura da una quantomeno improbabile disponibilità dei privati a fare grossi investimenti.
Lo scenario concreto che ci troviamo di fronte è ben altro: la crescita della disoccupazione e l'impossibilità di attivare strumenti di ammortizzazione sociale sul lungo periodo rendono credibile lo stabilizzarsi di ampie fasce di marginalità come elemento strutturale del panorama sociale. Il maggior interesse dell'amministrazione pubblica e dell'imprenditoria è di ridisegnare la città in modo che i confini anche fisici tra aree produttive e di servizi e le periferie condannate al degrado divengano sempre più netti ed invalicabili. L'inevitabile aumento della conflittualità sociale conseguente alla disoccupazione, all'impauperimento, alla riduzione dei servizi, al peggiorare della qualità della vita potrà essere gestita in meri termini di ordine pubblico.
Comincia ad aleggiare lo spettro di Los Angeles, di Detroit, delle grandi città americane in cui, separate da muri invisibili ma solidi, coesistono nello stesso ambito metropolitano zone sviluppate ed opulente e ghetti degni del terzo mondo. E' un processo lento ma inequivocabile che investe non solo Torino ma tutte le grandi città. Persino gli interventi relativi alle questioni del traffico, dell'ambiente, dei servizi paiono andare in questa direzione. Il centro cittadino espelle lentamente ma inesorabilmente i residenti meno abbienti: pensionati, immigrati, piccoli commercianti e si trasforma in vetrina lussuosa, ricca d'uffici e di negozi, con ampie zone interdette al traffico, preservate dall'inquinamento, dalla congestione. Un'isola felice in mezzo al meccanismo infernale della metropoli, che non si può né si vuole tentare di smontare. Le ferite e gli steccati che segnano lo spazio fisico sono lo specchio più eloquente delle fratture e della disgregazione che attraversano l'ambito sociale. L'affievolirsi dei legami di solidarietà, l'incapacità di ricostruire percorsi identitari comuni fondati sull'autonomia dei singoli si traduce in una sempre più accentuata anomia del corpo sociale.

Americanizzazione della scena sociale
Nella città della Fiat la città dei cittadini aveva saputo produrre gli anticorpi necessari non a sconfiggere la malattia ma quantomeno a resistervi. Oggi le difese immunitarie appaiono indebolite e nuove e più terribili infezioni minacciano di dilagare. Intendiamoci: nessun rimpianto per il passato sarebbe opportuno od auspicabile, nondimeno è indispensabile interpretare i primi segni d'una trasformazione la cui portata probabilmente era del tutto impensabile soltanto un decennio fa. Nel corso della recente campagna elettorale una destra neoliberista ed aggressiva ha indicato nella riduzione delle tasse, nelle privatizzazioni la ricetta vincente per i problemi occupazionali; sul fronte opposto una sinistra timida e senza prospettive si è arroccata nella mera difesa di ormai esigui margini di Welfare. Gli uni e gli altri hanno finto di ignorare che le questioni del debito pubblico e della ripresa produttiva non possono essere affrontate in termini di riduzione di spesa, di trasformazione del sistema fiscale o attraverso una svendita delle aziende di stato. È e resterà di gran lunga più conveniente per le imprese investire in Polonia, in Brasile o magari in Nordafrica. La possibilità di un'americanizzazione della scena sociale appare quindi tutt'altro che remota ed obbliga l'immaginario sovversivo a pensare nuove strategie per il conflitto sociale.
Questioni quali la fuoriuscita dal lavoro salariato sono state argomento di riflessione e dibattito o, al più, terreno di sperimentazione e ricerca nei ristretti ambiti di alcuni gruppi radicali. Oggi il superamento del lavoro salariato oltre che una virtù di pochi è divenuto per molti una necessità non certo voluta.
Sinora l'economia alternativa ha tentato di svilupparsi lungo le coordinate tracciate da un'urgenza di carattere etico e politico, non certo materiale. Lavorare per costruire nel qui ed ora prospettive di lavoro fuori dalla logica del profitto, nonché occasioni di socialità e incontro che ridefiniscano uno spazio pubblico estraneo all'ambito statale significa scommettere sulla possibilità che l'emarginazione e il ghetto non siano per molti un destino ineluttabile.
Quest'impostazione non piacerà ai mistici della marginalità, ai buontemponi convinti che l'autogestione si riduca ad un posto dove si beve, si suona e si balla: un dopolavoro per chi non ha o non vuole avere lavoro. D'altra parte è assai improbabile che incontri il favore di chi, da un lato opposto ma specularmente simmetrico, ritiene il lavoro salariato una dannazione necessaria e punta sulla riduzione dell'orario o, in subordine, ad una salario sociale per i disoccupati.
Questi e quelli giocano una partita con carte truccate e con una posta incerta, rischiando seriamente di finire spennati. Naturalmente la creazione di luoghi di socialità non mercificata o la lotta sindacale sull'occupazione sono obiettivi nobili e sensati sui quali può valer la pena di spendere energie, ma rischiano seriamente di avere il respiro corto se non riescono ad inserirsi in una prospettiva più ampia.

Pratica d'autogestione
Una prospettiva che recuperi una dimensione progettuale in cui il buon senso e l'utopia, il radicamento caparbio nel presente e la scommessa sul futuro sappiano saldarsi intimamente. Pensare ed operare per tracciare ambiti di autonomia sociale, economica e politica di segno libertario ed egualitario implica una radicale ridefinizione del conflitto con la società del dominio.
Molti sono convinti che le correnti municipaliste ed autogestionarie mirino ad eludere il conflitto, ad aggirarlo, scavandosi piccole nicchie di libertà tutto sommato compatibili con l'esistente. E' innegabile che questo sia un rischio possibile specie per quelle esperienze che non sanno o non vogliono uscire dalla propria specificità e ricercare forme di collegamento e cooperazione, tuttavia non è certo un percorso obbligato. Anzi. I sostenitori dell'attuale assetto politico e sociale devono il credito di cui godono non tanto alla capacità di fornire risposte soddisfacenti alle domande di libertà, benessere materiale ed equità sociale ma alla mancanza di alternative credibili. Per molti questo non è certo il migliore dei mondi possibili ma costituisce sicuramente il meno peggiore in cui sia dato vivere.
Tra il liberismo delle destre e la riproposizione sia pure riveduta e corretta dello stato sociale a sinistra la differenza può apparire abissale sia in termini politici che etici, tuttavia vi è un punto focale di convergenza nel negare la possibilità di percorsi di autonomia politica e sociale dall'istituito. Tutti parlano di riduzione delle tasse o di riequilibrio del sistema fiscale: per gli uni questo significa diminuzione della pressione sulle imprese, per gli altri alleggerimento dei carichi gravanti sul lavoro dipendente.
Nessuno però pensa possibili forme di solidarietà e cooperazione sociale che prescindano dalla mediazione e dalla pesante tutela dello stato.
Proporre e praticare sin da ora una gestione diretta del territorio attraverso strutture di autogoverno comunitario, moltiplicare le attività produttive e di servizio autogestite, far crescere una rete di comunicazione e cultura libertaria è il modo più efficace di dar corpo e linfa vitale ad un'alternativa concreta all'esistente.
Un'alternativa che non si limita al pur affascinante ambito della sperimentazione sociale, costituendo iniziative di grande valore esemplare ma limitate, e riesce altresì ad avere una forte pervasività sociale.
In questa prospettiva il conflitto, lungi dall'essere aggirato, subisce un radicale spostamento, consentendo di giocare la propria partita su terreni diversi da quelli predisposti dal dominio. Tutti coloro che vengono espulsi dal processo produttivo o non ci sono mai entrati o non hanno alcuna intenzione di farlo potrebbero avere una chance di eludere un meccanismo che li condanna al ghetto, alla marginalità senza prospettive, in cui anche la rivolta non è che sfogo ineffettuale.
Non si può che auspicare un approfondimento della riflessione e della pratica d'autogestione che consenta di affinare gli strumenti utili a far crescere le esperienze e con esse la capacità di cooperazione, scambio, mutuo appoggio. Torino non è Detroit ma potrebbe diventarlo.