Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 23 nr. 204
novembre 1993


Rivista Anarchica Online

Radici ortodosse e non
di AA. VV.

Il 20 novembre si tiene a Milano, al Centro studi Libertari, un seminario sul tema «Anarchismo: radici ortodosse e non». Pubblichiamo in queste pagine una traccia delle relazioni che costituiranno la base per la riflessione ed il dibattito. E, qui sotto, la presentazione del seminario da parte di Amedeo Bertolo, del Centro studi Libertari.

Non c'è un anarchismo, come c'è l'alcol puro, se non in laboratorio. Ci sono tanti anarchismi «reali» quanti i tempi, i luoghi, i contesti culturali in cui s'è manifestato, si manifesta e si manifesterà... al limite tanti quanti gli individui che l'incarnano e l'incarneranno. Così come le innumerevoli bevande alcoliche sono l'alcol «reale» delle varie realtà naturali e culturali (qua della vite là dell'agave, ora per semplice fermentazione ora anche per distillazione...).
Fin qui la metafora. Fuor di metafora, la diversità, le difformità, forsanco le contraddizioni dell'anarchismo, possono essere ricondotte (e quanto?), oltre che a diversità diciamo ambientali, anche a diverse origini, a diverse radici? (La botanica mi perdoni). O vi è un'unica radice? E quale? Il discorso sulle radici dell'anarchismo non è di puro interesse storico. Esso esprime anche inevitabilmente, diverse concezioni dell'anarchismo in quanto va alla ricerca, in fondo, della sostanza-anarchismo. E dunque non può essere un discorso neutrale.
C'è chi fa nascere l'anarchismo con il movimento anarchico storico e dunque con il socialismo della metà dell'Ottocento.
C'è chi fa risalire l'anarchismo ad alcuni secoli prima dell'era cristiana, al taoismo del Lao-Tzu.
Nel seminario organizzato del Centro studi libertari si confronteranno tre ipotesi sulle origini dell'anarchismo. Tre ipotesi ben diverse che non necessariamente si escludono, ma che forse si possono integrare fra loro e con altre ipotesi ancora, in un processo interpretativo aperto e non riduttivo.
Tre ipotesi di cui una quasi ortodossa (radici illuministiche), un'altra (radici cristiane) non del tutto nuova e un'altra ancora (radici ebraiche) decisamente eterodossa.
È, credo, ovvio che un tema del genere e in particolare le tre ipotesi delineate aprano subito anche un problema diciamo epistemologico: quanto le radici sono veramente radici (mi perdoni di nuovo la botanica ed anche l'agronomia) e quanto sono proiezioni dell'albero o di rami dell'albero.
Cioè quello che dicevo poco più sopra a proposito di non neutralità del discorso sulle origini.

Amedeo Bertolo

nel Protestantesimo
«Se il cristiano non ha più bisogno di alcuna opera, è certamente sciolto da tutti i comandamenti. E se è sciolto, è certamente libero». Quando Martin Lutero scriveva queste parole, nel 1520 circa, l'idea di una libertà individuale, attinente immediatamente e propriamente alla sfera del singolo, era un concetto quasi assente nell'immaginario occidentale. Certo, la tradizione romanica, le teorie giurisprudenziali e le filosofie di ascendenza classica fornivano gli strumenti per definire le libertà civiche o per determinare un certo tipo di diritti (civili, legali, politici) del singolo; tuttavia l'idea che l'individuo, in quanto individuo (e non in quanto cittadino, funzionario, nobile), godesse di uno spazio privato al di fuori della competenza delle autorità, in cui usare liberamente ragione e passioni, violava quasi il senso comune.
Lutero aveva immaginato una liberazione totale del cristiano dal mondo delle istituzioni terrene con lo scopo neanche tanto recondito di svuotare la pretesa della Chiesa di Roma di esser considerata l'unico tramite legittimo tra Dio e l'uomo, l'unico ente in grado di conferire la salvezza. La sua strategia si rivelò a dir poco rivoluzionaria: nell'intento di sganciare il fedele da ogni obbligo politico o sociale, lo dipinse come un ente completamente autonomo, che nulla doveva allo stato, alla chiesa, alla società, alla famiglia; le uniche obbligazioni valide erano quelle dovute a Dio.
Lutero aveva usato un linguaggio che descriveva in termini profondamente individualisti e antigerarchici i rapporti tra l'autorità e il singolo e una logica che sembrava postulare l'assenza di una qualsiasi relazione di dominio tra gli uomini; ben presto lui stesso e i suoi seguaci protestanti si resero conto che, in un'epoca in cui le giustificazioni del potere politico, dei rapporti sociali e della struttura familiare riposavano su una precisa analogia tra l'ordine teo-cosmologico e le diverse forme di autorità terrene, concedere ai singoli un'autonomia di giudizio nella sfera teologica significava conceder loro un'analoga autonomia nelle altre sfere del comportamento umano. E infatti non doveva passare molto tempo prima che anabattisti, libertini e spiritualisti vari si appropriassero del linguaggio libertario di Lutero per reclamare una «sregolata intemperanza», scrisse Calvino, una nuova libertà nell'ambito della convivenza civile, della proprietà, del matrimonio.
E' qui, in questa specie di controcultura protestante, che nasce a mio parere l'ethos anarchico. Sia ben chiaro, non è mia intenzione sostenere che le dottrine tipiche del «classicismo» anarchico ottocentesco derivino in qualche modo dalla radical reformation; al contrario, temi tanto diversi come l'analisi delle finzioni strutturali della democrazia, la soppressione delle potenzialità individuali a opera degli apparati governativi, la valorizzazione dell'associazionismo spontaneo, la teorizzazione dell'estinzione dello stato, sono indissolubilmente legate a una precisa situazione storica e a un preciso contesto intellettuale (l'Europa tra lumi e trionfo borghese, tra rivoluzione industriale e nascita della classe operaia). Mi riferisco piuttosto a una suggestiva operazione dell'immaginario, alla creazione di alcuni strumenti intellettuali tramite i quali un'esperienza come quella anarchica diventa pensabile, diventa concepibile, diventa possibile: un ethos appunto, una griglia interpretativa su cui impostare criteri di condotta individuale, regole di convivenza civile, processi di apprendimento e norme del confronto intellettuale.
A mio parere l'ethos anarchico - radicalmente individualista, antigerarchico, fallibilista ed egualitario - ha le sue lontane origini in certa teologia protestante. Nel coacervo di processi ed esperienze che portano alla modernità, le varianti più estremiste, marginali e concretamente antiistituzionali della radical reformation hanno fornito un paradigma complessivo con cui interpretare la condizione umana e i modelli di convivenza civile in senso libertario; non si tratta quindi di un fenomeno metastorico, ma dello sviluppo di un preciso linguaggio, determinato da precise condizioni, con cui pensare l'esperienza dell'uomo.
Più in specifico, tra le elaborazioni alternative delle prime intuizioni di Lutero la più significativa ed emblematica mi sembra essere quella degli antinomiani. Questi ultimi (anti+nomos = contro la legge), partendo da considerazioni puramente teologiche (la caduta dell'obbligo di rispettare la Legge, ovvero il decalogo), giunsero infine, all'epoca della rivoluzione inglese, a teorizzare l'indipendenza assoluta del singolo da qualsiasi istituzione positiva (stato, chiesa, ecc.), l'indifferentismo etico per quel che riguarda la sfera del privato (famiglia, sesso, ecc.), la libera sperimentazione individuale e collettiva (eccentricità programmata, ma anche comunitarismo, ecc.).
Il problema che si pone allo storico è la determinazione del rapporto tra queste esperienze e lo sviluppo dell'anarchismo vero e proprio, soprattutto perché si tratta (nella mia prospettiva) di stabilire la continuità di costituenti intellettuali piuttosto che tracciare la genealogia dei singoli elementi della «filosofia politica» dell'anarchismo. In questo senso la «controcultura» protestante - che, si badi bene, esprime non di rado una cultura religiosa tanto eterodossa quanto quella dei più audaci liberi pensatori del periodo, spesso sconfinante in un misticismo puro quasi ateistico o in un razionalismo estremista di marca agnostica - viaggia nella modernità lungo due assi, penetrando nella cultura ufficiale tramite itinerari contorti e occulti (per es.: protestantesimo radicale - libertinismo - illuminismo) oppure sopravvivendo ai suoi margini come residuo eccentrico escluso dall'ordine accettabile del discorso (potrei dire, con audace anacronismo, che si tratta in questo caso di una cultura underground).
Se un'ipotesi come questa fosse verificata da studi specifici, potremmo rivedere con occhio più consapevole l'intera questione dei rapporti tra anarchismo e illuminismo, scoprendo magari che alcuni elementi spesso associati all'eredità dei lumi (il fallibilismo di Godwin e Proudhon, per esempio) risalgono a esperienze precedenti.
Le difficoltà di un'analisi di questo genere sono abbastanza evidenti per il mainstream anarchico ottocentesco (con l'eccezione, ovvia, dello stesso Godwin). Le analisi storiche e ideologiche di Proudhon, Bakunin, ecc., si concentrano sulla Riforma ufficiale (quella che gli storici definiscono «magisteriale»), interpretandola in modo sostanzialmente corretto come un anello importante nella formazione del sistema di dominio moderno. E tuttavia lo stesso Bakunin, in «Stato e anarchia» discute con grande simpatia la «gloriosa rivoluzione» degli hussiti, valorizzando proprio gli elementi tipici dell'altra riforma, quella «radicale» (di cui gli hussiti sono in genere ritenuti antenati). Se Bakunin ne avesse saputo un po' di più su anabattisti, libertini e antinomiani, che cosa ne avrebbe mai scritto?
Su questo possiamo solo ipotizzare. Tuttavia abbiamo un altro filone dell'anarchismo, trascurato dai più, in cui questo esperimento mentale prende forma concreta. Negli Stati Uniti, dove sin dai primi momenti la controcultura protestante ha avuto un peso molto maggiore che non in Europa, gli anarchici «indigeni» nel corso dell'Ottocento si sono mostrati più che consapevoli del legame tra i costituenti intellettuali dell'esperienza libertaria e l'eredità della Riforma radicale. In seguito l'anarchismo americano si è quasi totalmente europeizzato; e tuttavia, a partire dagli anni Cinquanta e Sessanta, la tradizione indigena ha ripreso fiato. Anche dal mio punto di vista: si vedano infatti le pagine che Murray Bookchin dedica all'altra Riforma nel suo «L'ecologia della libertà».

Pietro Adamo

nell'Illuminismo
In estrema sintesi, la natura di un movimento politico e sociale si può individuare con grande chiarezza nella sua genesi (G.B. Vico), cioè nelle origini. Ma per capire quali sono le vere origini (se vogliamo mantenere questo paradigma), occorre prima stabilire qual è la natura del movimento stesso. L'anarchico è compiutamente tale solo nella sua piena maturità ideologica (tracce e spezzoni di anarchismo costellano tutta la storia umana), che si manifesta nella seconda metà dell'Ottocento. È inutile qui ripetere che cos'è l'anarchismo, tutti lo sappiamo, quando lo si deve intendere in questa piena maturità. È sufficiente osservare che le grandi argomentazioni anarchiche, sia sotto il profilo della critica dell'esistente sia sotto quello delle proposizioni per il futuro, portano i tratti originali dell'illuminismo radicale. La critica del principio di autorità era partita dal Cinquecento (se vogliamo), ma è solo nell'età dei lumi che trova la sua logica più forte (a cominciare dall'ateismo sia esso postulatorio-esistenziale o teorico-filosofico). L'ideazione antropologica che svincola il concetto di società umana dalla formazione politica della forza come momento ineliminabile della sua amministrazione è sempre in questo stesso periodo che ha la sua autentica gestazione. Ugualmente, tutte le postulazioni della libertà individuale, nate già con il libertarismo del Seicento (Locke, Spinoza) hanno però la loro sanzione forte con la premessa che la libertà non può che essere universale. E, come si sa, l'universalismo - o cosmopolitismo - è forse la dimensione più classica e precipua dell'illuminismo. Sempre, naturalmente, se manteniamo ferma l'idea che il principio informatore dell'anarchismo sia la libertà.

Nico Berti

nell'Ebraismo
All'interno del movimento operaio ebraico l'anarchismo fu un fenomeno quasi esclusivamente limitato ai lavoratori di origine russo-polacca o rumena, una plebe miserabile, supersfruttata, omogenea dal punto di vista dell'origine geografica, della lingua, delle condizioni sociali, delle sue tradizioni e riferimenti culturali. Un proletariato costretto dalla natura dello Stato zarista, impero multinazionale, autoritarìo ed antisemita, a vivere in una condizione di paria caratterizzata dalla miseria, dalla disoccupazione e dalla sottoccupazione cronica, dalla segregazione, dalla discriminazione, dalle persecuzioni, da ondate periodiche di pogrom, da una emigrazione di massa che portò milioni di Ostjuden verso nuovi centri sparsi per tutto il mondo. Una comunità di uomini e donne che da russa diverrà cosmopolita, e che ribellandosi ad un presente precario e senza speranza cercando di risolvere i problemi di un popolo oppresso sarà attratta dall'antiautoritarismo e dall'internazionalismo anticapitalista dell'ideologia libertaria.
Tra questa folla immensa e differenziata che tra la fine dell'800 e lo scoppio della prima guerra mondiale aderì al movimento anarchico, un posto preminente come organizzatori, ideologi e teorici fu occupato da numerosi giovani usciti dalle yeshivot, le scuole talmudiche, ed allevati nel timore di Dio e nel rispetto delle tradizioni religiose. Con l'adolescenza e la giovinezza trascorse sulla Torah, sui testi dei rabbini e sulle opere classiche della letteratura ebraica, questi giovani che preannunciavano i giorni del Messia avevano finito per essere particolarmente colpiti dalle corrispondenze tra gli elementi profetici ed apocalittici della loro tradizione religiosa e quelli presenti nella propaganda socialista che gli agitatori anarchici diffondevano tra le masse. Una intelligentsija, sradicata e marginale, con una forte componente ascetica, orgogliosa e pronta al sacrificio di sé, determinata a tradurre il pensiero in azione, il sogno in realtà, che si ergeva contro l'esistente e lo condannava in nome del riscatto futuro. Giovani ribelli, pervasi di giudaismo antico, che trascinati dalla grande corrente dell'utopia rivoluzionaria, aspiravano a un mondo radicalmente altro, al Regno di Dio in terra, al Regno dello Spirito, della libertà e della pace. Il loro ideale era la comunità egualitaria, il socialismo libertario, la rivolta antiautoritaria, la rivoluzione permanente dello spirito. Essi incarnavano il radicalismo di un proletariato che intravedeva il Messia tra i portavoce dell'ideologia libertaria.
Ma cosa poteva avere in comune l'ebraismo di un yeshiva bocker, profondamente convinto di essere chiamato ad assolvere una missione di redenzione del mondo, e l'anarchismo di un Bakunin o di un Kropotkin? Esistono forse nella religione ebraica particolari aspetti che possono connettersi con una visione del mondo rivoluzionaria, atea e materialista come quella anarchica?
Non solo secoli di autogestione comunitaria predisponevano il popolo di Israele a recepire le teorie dell'associazionismo mutualistico, del federalismo e dell'autonomia comunale propagandate dai teorici libertari; era la stessa componente etica della spiritualità ebraica, assieme alla religiosa la principale essenza dell'ebraismo fino ad oggi, ad orientare in situazioni sociali e culturali particolari un certo numero di ebrei verso il pensiero libertario i cui principi basilari, in fondo, non sono altro che un codice etico.
Nella sua affermazione etica del mondo e della vita, la religione ebraica sviluppa forti impulsi alla civiltà, incita gli uomini alla giustizia, alla santità nel pensiero e nell'azione, alla solidarietà verso gli oppressi. Inoltre non bisogna dimenticare che il fulcro dell'insegnamento profetico, che tanto ha influito sulla vita degli ebrei della diaspora, era incentrato da un lato sulla condanna dei vizi morali e delle ingiustizie sociali e, dall'altro, sulla glorificazione di un nuovo regno, dove gli uomini sarebbero vissuti felici e liberi dalla coercizione e dallo sfruttamento. La loro visione del futuro prediceva l'avvento di un nuovo mondo di universale fratellanza e di assoluto benessere per tutta l'umanità. Questa aspirazione escatologica ad un avvenire radicalmente nuovo, ad un mondo che non è mai esistito si manifestava talvolta accompagnata da una tendenza restauratrice, volta verso il ristabilimento di uno stato ideale del passato, un'età dell'oro ormai perduta, un'armonia paradisiaca spezzata.
Questa combinazione tra restaurazione ed utopia è pure una costante dell'anarchismo; nei maggiori esponenti del pensiero libertario «l'utopia rivoluzionaria si accompagna sempre ad una profonda nostalgia delle forme del passato precapitalista, della comunità contadina tradizionale o dell'artigianato». All'ansia ed alla tensione verso un epoca di ristabilimento e di armonia si congiunge l'idea messianica. Per il messianismo ebraico la redenzione del genere umano ed il riscatto definitivo per Israele disperso è un avvenimento che si produce necessariamente sulla scena della storia, un evento pubblico che si manifesta essenzialmente nel mondo visibile ed implica una distruzione totale dell'ordine esistente, un cataclisma rivoluzionario universale. Nel Messia, che arriverà in un'epoca di corruzione e di totale colpevolezza, si concentrano così due aspetti fondamentali: il catastrofico e l'utopico. Fra tutte le correnti socialiste è nell'anarchismo che l'aspetto rivoluzionario-catastrofico dell'emancipazione è più evidente ed ogni possibilità di miglioramento dell'ordine costituito è considerato puramente illusorio e la rivoluzione concepita come una irruzione nel mondo.
Queste analogie non significano certamente che l'anarchismo sia una filiazione diretta dell'ebraismo e le teorie di un Proudhon o di un Bakunin, tra l'altro entrambi antisemiti, non hanno alcun rapporto con la tradizione religiosa ebraica. È in un'epoca storica determinata ed in un contesto sociale e culturale preciso che avviene l'incontro fra queste due espressioni spirituali. È tra gli ebrei emigrati in Inghilterra o negli Stati Uniti, provenienti dalla Zona di residenza coatta, l'immenso territorio nel quale erano costretti a vivere secondo l'iniqua legislazione zarista, che si verifica questo processo di attrazione e di fusione tra tradizione religiosa ebraica ed utopismo libertario.

Furio Biagini