Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 23 nr. 204
novembre 1993


Rivista Anarchica Online

Alle radici dell'antisemitismo
di Pietro Adamo

«Per i cristiani l'antigiudaismo è una componente fondamentale e costitutiva della propria ideologia, uno dei pilastri dell'edificio della chiesa, [che] continuerà a restare fondamentale [nei secoli] non solo per il clero, ma anche per tutte le altre classi che diverranno protagoniste nella storia della cristianità». Cesare Mannucci, nel suo L'odio antico. L'antisemitismo cristiano e le sue radici (Mondadori, Milano 1993, pp. XV+310), si inserisce nel dibattito sui rapporti tra cristianesimo ed ebraismo senza alcun particolare riguardo per la cultura cattolica italiana, né tanto meno per la chiesa di Roma, pronunciandosi molto chiaramente su un argomento che altri intellettuali laici hanno in genere affrontato in toni sommessi, con cautela e moderazione. Secondo Mannucci il cristianesimo è stato il principale vettore dell'antisemitismo nella vicenda che ha portato alla modernità; le altre componenti di quel viscerale odio antiebraico che sembra ricomparire puntualmente nei momenti di crisi e nei periodi di instabilità in Occidente (e non solo in Occidente) - razzismo, xenofobia, ricerca del «capro espiatorio» - sono solo epifenomeni di atteggiamenti e opinioni radicati nel nucleo centrale dello stesso pensiero cristiano. Come è ovvio, l'accusa è pesantissima; se una tesi di questo genere fosse accettata, lo stesso nazismo, nonostante la sua marcata natura paganeggiante, si configurerebbe come un responsabile soltanto indiretto dell'olocausto. Alcuni cattolici hanno già replicato, indignati da tanta inusuale «iattanza», come se la chiesa romana, oltre ad aver sanzionato con la propria autorità ogni genere di massacro compiuto dalle autorità politico-statuali più disparate, non avesse mostrato nel corso dei secoli una spiccata propensione a risolvere i problemi della dissidenza con le forche, i roghi, ecc., ricorrendo a volte a ciò che sembra, in chiave religiosa, la prima formulazione della teoria della «pulizia etnica» (ne sanno qualcosa albigesi, valdesi, musulmani, ecc.). Del resto, basti dare un'occhiata alla recente Veritatis Splendor, questa abbagliante «verità» non è per nulla diversa, nei suoi costituenti essenziali e nella sua pretesa di totale assolutezza, da quella propugnata da Innocenzo III, che inaugurò il suo pontificato plaudendo l'esecuzione di settemila eretici albigesi, tra cui vecchi, donne e bambini (Béziers, 1209), oppure da quella del grande massacratore di banditi Sisto V, acerrimo difensore della proprietà, che nel giorno della sua investitura dichiarò, in modo assai poco evangelico, («finché io vivo, ogni delinquente morirà». Il pregio maggiore di L'odio antico sta nel rifiuto di ogni prospettiva di carattere immediatamente teologico; Mannucci chiarisce da subito di riconoscersi nella scuola della «critica della religione» che, sin dall'epoca dei lumi, ha sostanzialmente equiparato le religioni storiche a costruzioni ideologiche; lo stesso anarchismo ha contribuito non poco allo sviluppo di questa tendenza (si pensi alle considerazioni di un Proudhon, o di un Bakunin, sul ruolo del cristianesimo in Occidente). Il nodo dei rapporti tra ebraismo e cristianesimo non va quindi sciolto sul piano della teologia, ma su quello più propriamente storico; lo sviluppo delle tendenze antiebraiche nel pensiero cristiano risale a una serie di circostanze precise e a una serie di concreti bisogni delle prime comunità cristiane. Riassumiamo le tesi di Mannucci: la vicenda di Gesù va inserita nel quadro più generale della società ebraica del periodo; Gesù fu probabilmente uno dei capi dell'opposizione antiromana, che usò con consapevolezza politica la retorica profetica e millenaristica delle scritture ebraiche; in questa prospettiva egli era pienamente all'interno della tradizione.
Fu Paolo di Tarso - ebreo greco della diaspora e cittadino romano - a inventare un nuovo monoteismo (in contrasto con gli stessi seguaci di Gesù a Gerusalemme), spiritualizzando e universalizzando il messaggio del nazareno, staccandolo dalle concrete radici israelitiche (etiche, politiche e religiose) e affidandosi nella sostanza a quelle religioni misteriche di stampo ellenistico che mostravano marcati tratti mistici. Il progetto di Paolo mirava all'accettazione del «cristianesimo» nelle comunità di lingua greca e latina (in cui cominciavano ad entrare anche alcuni «gentili») e contemporaneamente all'accettazione del nuovo culto da parte dei padroni romani. In questa prospettiva il distacco dall'ebraismo diveniva necessario per due ordini di motivi, che possiamo definire (semplificando) teologici e politici.
Per quel che riguarda i primi, era necessario universalizzare il messaggio di Gesù, troppo legato al contesto della Palestina occupata dai romani e alla tradizione scritturale ebraica. Paolo costruisce quindi una teologia della salvezza basata sulla crocefissione, esoterizzandone i contenuti, trasformandola in un avvenimento che trascende la storia stessa e si realizza nel mondo del sovrannaturale. In concreto, si passa da Gesù al Cristo, dal profeta della salvezza del popolo ebraico al profeta della salvezza universale. Inoltre, il messaggio sociale e politico di Gesù viene stravolto dal ricorso al misticismo ellenistico e affogato nella speranza dell'aldilà ultraterreno; il suo attivismo antiromano - che rispecchia le concezioni etiche forti tipiche dell'ebraismo, diviene passiva accettazione dello status quo. Lo sviluppo di un'ideologia specificamente antiebraica è però un evento successivo. L'avvenimento decisivo è la rivolta palestinese del 66 d.C., che si concluse nel 70 in un bagno di sangue producendo una decisa accelerazione del fenomeno della diaspora. Le comunità cristiane nei territori romani sono ormai formate da una maggioranza di non-ebrei; per loro, dice Mannucci, diviene fondamentale «il problema di distinguersi dai giudei offrendo di se stessi l'immagine più rassicurante possibile» (p. 79). Non si tratta solo di rinnegare ogni possibile connessione ebraica, ma di mostrare la propria fedeltà indiscussa a Roma. Tocca a Marco, sulle orme di Paolo, trovare la via d'uscita in una nuova versione della vicenda nel suo «vangelo»: Gesù ha ripudiato in ogni modo l'ebraismo, la comunità israelitica lo ha sempre osteggiato, i romani sono meno colpevoli di quel che sembra. In definitiva - sono stati gli ebrei a ucciderlo, perché avevano capito che il «Salvatore» aveva creato una nuova religione che avrebbe sostituito lo stesso ebraismo. All'accusa di «deicidio» fa da pendant la denigrazione programmatica di molti aspetti della cultura e del modo di vita degli israeliti; gli altri vangeli seguiranno da presso questo modello e gli ebrei, da destinatari del messaggio di Gesù, si trasformano in poco tempo nei suoi principali nemici e soprattutto nei suoi assassini. Mannucci descrive l'assestamento ideologico di questa elaborazione nei secoli successivi, che fu usata dalle élites e dalle classi dominanti per i loro propri fini, producendo i tipici meccanismi d'esclusione degli ebrei dalla vita sociale: le leggi restrittive dell'attività lavorativa, i ghetti, le accuse rituali, le conversioni forzate, i massacri, ecc. Nonostante L'odio antico si fermi agli albori dell'epoca moderna la tesi è chiara: gli elementi generalmente associati all'antisemitismo si ritrovano in toto nell'immaginario cristiano, che costituisce, per così dire, il fondo intellettuale da cui hanno pescato tutti gli antisemitismi successivi (ammesso, naturalmente che siano realmente distinguibili dalla matrice primaria, le scritture evangeliche). La stessa sinistra ha le sue responsabilità. Alcuni dei cattolici «indignati» dalle tesi di Mannucci (Franco Cardini e Vittorio Messori, per esempio), propongono l'illuminismo come colpevole alternativo. L'ipotesi è francamente risibile; e tuttavia l'antisemitismo, nei suoi tratti più irrazionali, compare in alcuni dei riferimenti storici del pensiero progressista. Gli anarchici non hanno bisogno di cercare occasioni di riflessione fuori da casa propria; tornando ai due «classici» che ho citato sopra, le tirate antiebraiche di Bakunin, di stampo slavofilo ortodosso, sono ben note; e che dire di Proudhon: «L'ebreo è il nemico della razza umana. Questa razza deve essere rimandata in Asia, o sterminata»! Vale la pena proporre due considerazioni. Quanta parte ha la persistenza di un certo tipo di immaginario cristiano ultrareazionario nelle elaborazioni di quegli stessi intellettuali che accettano la prospettiva a-tea della religione come costrutto intellettuale? Pensiamo ancora a Proudhon, che ha proposto una feroce interpretazione del cristianesimo come baluardo della proprietà e dello status quo e come principale supporto intellettuale dell'asservimento sociale e politico dell'uomo; il suo antisemitismo e, non dimentichiamolo, le sue peculiari idee sui (non-)diritti della donna, non sono forse un segno della sopravvivenza di valori, concetti ed esperienze tipicamente cristiani? L'antifemminismo proudhoniano sembra una commistione tra la Genesi («la persona completa è l'uomo. La femmina è meno dell'uomo») e le lettere di Paolo («tutto ciò che una donna deve sapere è come cucire le nostre camice e cuocerci una bistecca»). In secondo luogo, a tutt'oggi la sinistra non pare aver superato del tutto la tentazione antisemita.
Quante volte, e insisto: quante volte vi è capitato di leggere commenti su Israele o tirate antisioniste che mostravano, in qualche punto, in qualche momento, per quanto inconsapevole, una certa tendenza a scivolare nell'antiebraismo totale?
Un libro come L'odio antico sembrerebbe un utile contributo per il riconoscimento dei residui dell'ideologia cristiana più conservatrice e tradizionalista ancora presenti nello stesso immaginario della sinistra.