Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 23 nr. 204
novembre 1993


Rivista Anarchica Online

Una fragile pace
di Furio Biagini

«C'è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per la guerra e un tempo per la pace» così recita un versetto dell'Ecclesiaste. E il tempo della pace che ancora qualche settimana fa sembrava impensabile, con la stretta di mano fra Rabin ed Arafat, sembra divenuto una realtà.
La pace non sarà probabilmente definitiva e non ci dovremo meravigliare se, come è accaduto anche recentemente, ci saranno nuove, sanguinose violenze.
L'accordo di principio tra Israele e l'OLP è indubbiamente solo un primo passo sulla strada di una soluzione generale dell'annosa questione mediorientale. Giungere ad una pace stabile e duratura richiede un lungo e difficile processo, ma la novità della svolta è rappresentata dalla caduta della barriera tra Israele e l'OLP che fino ad oggi aveva reso impossibile qualsiasi dialogo.
L'odio accumulato per decenni non svanirà in qualche settimana, ma i progressi compiuti in questi ultimi giorni rappresentano un rovesciamento spettacolare della mentalità e della logica bellicista che da più di mezzo secolo aveva pervaso tutti gli Stati della regione.
La guerra arabo-israeliana è durata oltre sessant'anni. Iniziò nel 1929 con sporadici attacchi degli arabi contro gli ebrei che tornavano alla loro madrepatria. Poi è stato tutto un crescendo di guerre e di violenze che hanno causato la morte di migliaia di israeliani e di migliaia di arabi.
Da entrambe le parti non mancano coloro che si dichiarano ostili e si ribellano al negoziato, che preparano imboscate lungo il cammino da percorrere e hanno sempre tentato di trasformare il conflitto tra israeliani e arabi in una guerra di religione o di «razza», una lotta mortale tra ogni ebreo e ogni arabo.
Da sempre gli israeliani hanno proposto ai loro vicini un compromesso dopo l'altro, ma contando sul numero, sullo spazio e sul tempo gli arabi li hanno sempre respinti tutti. Quegli stessi Stati arabi che hanno alimentato il conflitto con Israele per distogliere l'attenzione delle masse popolari dai gravi problemi sociali che le classi dirigenti non possono o non vogliono affrontare: lo scontro tra modernità e tradizione; l'analfabetismo, la povertà diffusa e lo sviluppo demografico; il ruolo umiliante della donna nella società musulmana; la mancanza di democrazia come prassi di governo e di ideologia. Adesso sembra si sia arrivati finalmente al riconoscimento che questa terra tanto «santa» sia la terra di entrambi.
Dal 1947, anno in cui l'Assemblea generale delle Nazioni Unite decise la spartizione della Palestina fra i due popoli, solo oggi gli arabi accettano un compromesso che concede loro molto meno di quanto prevedesse quella risoluzione che gli israeliani riconobbero immediatamente come la base giuridica su cui fondare il loro Stato. Nessuno può pensare di ritornare ai confini geografici stabiliti allora. Se lo Stato arabo di Palestina non vide la luce fu perché gli eserciti dei paesi arabi vicini invasero e occuparono quei territori. Ma ogni compromesso comporta di dover rinunciare a qualche desiderio, e sopprimere qualche aspirazione.
Arafat assomiglia sempre più al Sadat che decise di riconoscere lo Stato ebraico ottenendo in cambio la restituzione del Sinai perduto nella guerra dei sei giorni.
L'indebolimento politico e le difficoltà finanziarie crescenti dell'OLP hanno spinto Arafat verso un accordo con Israele. Il crollo dell'URSS e la guerra del Golfo hanno prodotto questo mutamento. Con la fine della guerra fredda l'OLP e i paesi arabi hanno perso il loro principale sostegno. Inoltre appoggiando Saddam Hussein durante la guerra del Golfo l'OLP ha perduto i petrodollari dell'Arabia Sa udita e del Kuwait. La seconda ragione è stata l'intensificarsi dell'ondata integralista islamica nel mondo arabo, che anche a Gaza e in Cisgiordania stava mettendo in discussione l'egemonia dell'OLP.
Nel mondo arabo si è aperta una vera e propria battaglia tra il fondamentalismo degli integralisti islamici e i regimi laici. Anche all'interno del movimento palestinese si stava verificando un'analoga frattura e i leader laici dell'organizzazione non potevano permettere che la questione palestinese divenisse un'arma potente nelle mani dell'integralismo islamico.
Quanto agli israeliani, stanchi per il prolungarsi di un conflitto di cui non si intravedeva la fine, con la guerra del Golfo hanno scoperto la loro vulnerabilità di fronte ad attacchi missilistici che non provenivano da Paesi geograficamente confinanti. In secondo luogo, l'immigrazione massiccia degli ebrei sovietici, anche se sicuramente fonte di nuove indispensabili energie, ha aggravato la già presente crisi economica e la preoccupante disoccupazione, contribuendo ad incrementare fattori di degradazione sociale quali l'alcoolismo, la droga e la prostituzione finora, se non del tutto sconosciuti, circoscritti e marginali nella società israeliana.
In questo contesto rimane una grossa incognita l'atteggiamento del siriano Assad, deciso a reprimere il fondamentalismo islamico all'interno ma disposto a favorirlo all'esterno, e del giordano re Hussein che teme uno Stato arabo palestinese nella West Bank. Infatti più del 70% dei suoi sudditi sono arabi di Palestina e il suo regno vacillerebbe se sentissero il richiamo dei loro fratelli di Gerico, la città in cui nel 1950 suo nonno re Habdallah dichiarò l'annessione della Cisgiordania al suo regno.
Entrambi possono o favorire quella parte del mondo arabo pregiudizialmente ostile all'ipotesi stessa di un qualunque accordo di pace nella regione o concorrere anch'essi a costruire un futuro migliore.
Decisivo in questo processo di pace sarà comunque il ruolo che potranno esercitare le masse popolari arabe e israeliane nel condizionare le posizioni dei loro governanti e rendersi così arbitre del loro futuro. Sarebbe auspicabile che da questi popoli divisi da una quasi secolare ostilità, che hanno sperimentato le dolorose conseguenze di una contrapposizione esasperata, potesse venire l'esempio di una capacità di convivenza pacifica e di superamento di quei pregiudizi etnici e nazionalistici che credevano scomparsi ed invece stanno dilagando dalla Germania alle Repubbliche disgregate dell'ex URSS, dalla Turchia alla Bosnia.