Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 23 nr. 203
ottobre 1993


Rivista Anarchica Online

La lunga attesa
di Carlo Oliva

Le campagne elettorali, come gli esami, non finiscono mai. Soprattutto in Italia, dove sembrano rappresentare a tutti gli effetti l'attività preferita della classe politica. Non per niente i nostri governanti ce ne hanno inflitto una di tre anni su cinque nella precedente legislatura, ai tempi di Craxi e Andreotti, e ne hanno avviato immediatamente un'altra nell'attuale, sotto gli auspici del nuovo che avanza. Ovvio, dal punto di vista di un corpo politico che si preoccupa soprattutto della propria perpetuazione, ma un po' defatigante per il cittadino medio, soprattutto quando si tratta, per così dire, di una campagna al quadrato, in cui ci si deve preoccupare, oltre che di raccogliere consenso, di giustificare agli occhi dei consenzienti la propria maggiore o minore propensione ad andare alle urne. Una campagna al tempo stesso elettorale e non-elettorale, nel senso che alcuni dei suoi protagonisti più attivi, per esempio il Presidente della Repubblica e quello del Consiglio, devono fare lo sforzo di spiegare, magari dall'alto di una posizione «al di sopra delle parti», che, pur essendo estremamente opportuno votare per la loro parte, molto meglio sarebbe non andare affatto al voto. Una faticaccia.
Tuttavia, sembra che buona parte delle condizioni che la maggioranza poneva per andare alle urne si siano ormai realizzate. E' stata approvata una legge elettorale che, mentre formalmente si adegua all'ideologia maggioritaria che i referendum Segni-Pannella hanno «venduto» con tanto successo all'elettorato, garantisce di fatto la sopravvivenza di quasi tutte le forze politiche attuali e in particolare, grazie all'ingegnoso meccanismo del recupero proporzionale scorporato su lista bloccata, assicura la rielezione di tutti gli esponenti, o quasi, della nomenclatura uscente. I vecchi partiti hanno già provveduto, quale più quale meno, alla loro rituale rifondazione e hanno accampato tutti i volti «nuovi» disponibili in magazzino. I portatori di detti volti si sono sottoposti alle necessarie pratiche d'investitura: viaggi negli Stati Uniti, partecipazione a talk show televisivi, ostensione della propria condizione verginale (in senso politico, naturalmente, salvo nel caso di Rosy Bindi, che è andata oltre e avrà avuto i suoi motivi). Stragi, attentati e autobombe hanno permesso a chi di dovere di riaffermare i valori della legalità e della pacifica convivenza, nonché il proprio ruolo personale di insostituibile garante dei medesimi. In sostanza, restano aperti due soli problemi di un certo interesse: liberarsi in un modo o nell'altro dell'ipotesi di Alleanza Democratica (che era stata concepita nell'ottica di una legge elettorale diversa e si è mostrata comunque troppo labile: personalmente credo che finirà per ridursi a una sorta di «rifondazione» del Partito Repubblicano) e aspettare che qualche magistrato volonteroso riesca finalmente a incastrare il PCI/PDS in una grossa storia di tangenti. A questo punto, tranquillizzati all'idea di essere tutti sulla stessa barca, ci porteranno buonini buonini a votare. La lunga attesa sarà finita.
Sì, ma dopo? Dopo, avremo un parlamento diverso, naturalmente, ma non troppo (niente socialisti e meno democristiani, se va bene, ma tanta Lega in più: non mi sembra una diversità entusiasmante) e senza maggioranza precostituita, proprio come l'attuale. Non credo che con tutta la buona volontà del mondo questo schema permetta di prefigurare dei giochi politici radicalmente nuovi o di immaginarci delle facce nuove al potere (non più nuove, comunque, di quanto lo siano oggi quelle del pio Scalfaro e dell'abile Ciampi rispetto alla già citata era di Craxi e Andreotti). In fondo la paranoia elettorale, nonostante il gran parlare che fa di programmi, si concentra di necessità sugli schieramenti, e l'unico effetto che può produrre è l'instaurazione di un nuovo sistema di schieramenti. Che, non sembri strano, non è la stessa cosa di una nuova politica.
Mi spiego. Da sempre, nel sistema italiano corrente, all'elettore viene comunicato con una certa diffusa, anche se non sempre affidabile, circonstanzialità con chi e contro chi si schiereranno gli eletti, ma sui contenuti programmatici del futuro schieramento si preferisce muoversi con maggiore cautela. Chi sostiene (e ce ne sono) che quel che conta sono i programmi, di solito intende soltanto riservarsi mano libera per contrattare il suo appoggio a seconda dei casi. I partiti si impegnano soltanto su delle opzioni ideologiche generali, rese insignificanti dalla loro stessa non falsificabilità (perdonatemi il facile popperismo: mi riferisco solo ad impegni come quello a promuovere la democrazia e combattere la corruzione, e vorrei proprio vedere chi sosterrebbe di voler promuovere la corruzione e combattere la democrazia) o su un tale insieme di minuzie che poco importa a nessuno se non se ne realizza qualcuna, per cui naturalmente si finisce con il lasciarle perdere tutte. Questo costume accomuna partiti vecchi e nuovi: la Lega Nord, che molti considerano la quintessenza del nuovo, sostiene di rappresentare un'opzione «federalista» e antistatale (ahimè), ma non ha mai precisato i termini della sua proposta federale, nemmeno al livello minimo della definizione delle entità da confederare. E alle elezioni comunali in cui ha così clamorosamente trionfato nello scorso giugno, aveva presentato dei programmi tanto dettagliati e «concreti» che le amministrazioni insediate dopo la sua vittoria non si sono neanche provate ad applicarli.
Se questo rappresenta il nuovo, figuriamoci il vecchio. Ma non commettiamo l'errore di giudicare questa realtà in termini moralistici, imputandola a un'innata propensione alla menzogna dei nostri politici: un giudizio in sé probabilmente corretto, ma non esaustivo, che, in sé, lascerebbe spazio all'inane tentativo di cercarne e trovarne qualcuno sincero. Il fatto è che nei sistemi rappresentativi moderni è insita una spiccata tendenza del ceto politico a interpretare il suo ruolo senza limiti di mandato, a misurare i suoi atti secondo criteri «interni» e a rinnovare i suoi ranghi soprattutto per cooptazione. A questo, in fondo, serve la complessità sempre maggiore di leggi e regolamenti elettorali. In altre parole, quella dell'investitura popolare è la giustificazione ideologica di un potere che ha altrove le proprie radici. Ma questo non devo certo spiegarlo ai lettori di questa rivista.
Modesta proposta. E' vero che queste verità sono abbastanza risapute. Anzi, in un certo senso, sono ovvie. Ma forse varrebbe la pena, per chi è almeno parzialmente immune dal virus elettoralistico (dovrebbe essere, salvo errore, proprio il caso nostro) di assumerle a un livello più alto di quello della mormorazione. E' da parecchio che nessuno cerca di impostare una qualche forma politicamente significativa di boicottaggio dell'appuntamento elettorale. Che in sé, naturalmente, non significherebbe molto, trattandosi soltanto di un'altra proposta di schieramento, ma potrebbe rappresentare il primo passo di una riorganizzazione politica di cui, francamente, si comincia a sentire la necessità. O, per mal che vada, potrebbe permetterci di passare i mesi di lunga, tediosa e molesta campagna elettorale che ancora ci attendono in un atteggiamento non esclusivamente passivo.