Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 23 nr. 202
estate 1993


Rivista Anarchica Online

La condizione indecente
di Cristina Valenti

Tre storie di solitudine, emarginazione, vulnerabilità alla base dell'ultimo spettacolo di Danio Manfredini: Tre studi per una crocifissione.

Dai suoi spettacoli si esce molto turbati e un po' impauriti. Le chiacchiere del dopo teatro slittano in un territorio insicuro: diventa inadeguato il formulario di maniera, fuori luogo il pettegolezzo leggero. Le stente impressioni scambiate riguardano la verità dell'interpretazione, il trauma del testo, la durezza delle immagini. E come spesso accade quando una rappresentazione teatrale si intreccia e si mescola con le zone più oscure e profonde delle nostre rappresentazioni psichiche, ecco che la paura del confronto ci fa dire che è lo spettacolo ad essere imbarazzante, spudorato, inquietante. In verità, ad imbarazzarci e inquietarci è il dialogo fra i personaggi interpretati sulla scena e quelli che popolano il nostro palcoscenico interiore. E a farci paura non è la verità della rappresentazione, ma la forza della sua apparenza. Esattamente il contrario di quello che solitamente si dice. E proverò a spiegarmi.
Nel suo ultimo spettacolo, Tre studi per una crocifissione, ispirato all'omonima serie pittorica di Francis Bacon, Danio Manfredini sceglie tre storie di solitudine, emarginazione e vulnerabilità per porle idealmente alla base di una moderna crocefissione, un malato di mente ricoverato in un ospedale psichiatrico, un emigrato che insegue un incontro con uno sconosciuto nella notte metropolitana, un transessuale che prepara il suo suicidio annodando ricordi strappati. Il primo testo si basa su appunti personali di Manfredini: conversazioni ed incontri con i ricoverati di un ospedale psichiatrico dove l'attore tiene da diversi anni un «laboratorio di creatività»; il secondo è tratto da La notte poco prima della foresta di Bernard-Marie Koltès e il terzo è la riduzione in monologo teatrale del film di Fassbinder Un anno con tredici lune. «Tre soggetti diversi fra loro» scrive Manfredini «di cui intuivo un'unità di condizione umana: la vulnerabilità». Il trittico di Bacon interviene come «proposta sulla possibile struttura formale del lavoro»: «Volevo tentare qualcosa di simile», spiega, «rendere sulla scia della brutalità di Bacon la condizione di tre soggetti sociali sacrificati nel nostro tempo».
Bacon ha raffigurato l'uomo e il suo carcere esistenziale in figure d'incubo, contorti ectoplasmi chiusi negli spazi alienati della civiltà dei consumi, tra mobili tubolari e arredamenti da clinica. Di questi esseri, Manfredini ha saputo ricostruire, sulla sua pelle e sul suo corpo, la condizione «indecente»: anche i suoi personaggi sono esposti senza pudore a un morboso senso di pietà e insieme di orrore. Il pubblico scopre che a incutere paura è la ferita aperta, la vulnerabilità, e non già l'aggressività del diverso, dell'emarginato, del dannato.

Leggera, fluttuante pensosità
La scena è separata dal pubblico da due corde che si incrociano in una ics. Subito un segno di separazione, l'indicazione di un microcosmo segregato, oppure cancellato dalla nostra civiltà, con una croce sopra ... croce come crocefissione, anche, ma snodata e sbilenca, come per un riferimento blasfemo. Di là dalla ics pochi oggetti quotidiani: quattro sedie, un tavolino da ospedale, un crocefisso attaccato al muro. Un uomo seduto. La leggera, fluttuante pensosità dell'alienato mentale. Con una camminata disarticolata si porta sul proscenio e cerca un dialogo col pubblico-interlocutore al di là delle corde tese. «Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai in una selva oscura, come se avessi visto la morte che di ogni cosa è la più forte... ». Ricordi sconnessi della Divina Commedia si mescolano alle rime baciate della goliardica Ifigonia in Culide; emergono volatili brandelli di vita («Ho fatto tre anni il chierichetto, ho servito 1.000 messe» ... «30 anni fa lavoravo»), e un presente fatto di assenze ed animato da incubi ( «Ho fatto un sogno ... sono ai giardinetti, mi chiamo Loredana ... mi chiamo Dafne»). La smorfia intensa è contraddetta dalla vacuità dello sguardo, l'ingombrante presenza del corpo è resa leggera dai movimenti scoordinati e ripidi che lo governano quasi inconsapevolmente. Elenca quello che ha: un bicchiere, un tavolo, una sedia, gli indumenti che indossa ... «Ho un filin di vita: se volete, tiratemelo via». II pubblico non ride più. II malato mangia seduto dietro il suo tavolino in fondo alla scena. La seggiola sul proscenio forma un'ulteriore grata che ce lo separa. II cibo annoda un flusso di pensieri disperati: quel che gli hanno tolto, gli insulti che gli rivolgono e che ora grida infantilmente: «finocchio ... pirla ... cretino». II gelo rimane sospeso nell'aria mentre Manfredini si cambia a vista, lentamente e ritualmente, per indossare i panni dello straniero del brano di Koltès.
Uno spolverino nero aperto su una camicia a sua volta slacciata sul petto nudo, le mani affondate nelle tasche, il volto concentrato in un'espressione contratta: di struggimento, di rabbia, di dolore, di nostalgia, di amore? Inizia una danza su musiche di Bach, un crescendo sfinito e falsamente scomposto che mescola tip tap a passi di flamenco (lo voglio dire: uno dei pezzi più belli che sia dato vedere a teatro). Sarà che inizia sotto sforzo, il monologo sembra provenire da una persona che non è in grado di infingimenti né di difese, e che non ha tempo di aspettare, mentre il tempo della notte corre veloce, incalzato dal ritmo martellante del suo cuore che sembra spezzarsi. Racconta dell'incontro con uno sconosciuto all'angolo di una strada, con l'intimità e l'abbandono di chi ha il termine della notte come orizzonte finale, e racconta di un'area metropolitana disperata e calda, fra puttane costrette a «mangiare la terra» e «ragazzi non troppo forti» per la cui difesa si propone un «sindacato a scala nazionale». All'inseguimento dello sconosciuto, i pensieri prendono il volo: «corro ... corro ... e sogno il canto segreto degli arabi fra loro», le mani si liberano dalle tasche e le braccia si lanciano e trascinano il corpo in una nuova danza.
Per il terzo brano indossa un reggiseno, una vestaglia verde, calze scure e scarpe coi tacchi alti: è il transessuale che è andato a Casablanca per amore di Kristoff e che al ritorno si trova respinto. Una storia di alcool, di prostituzione, di perdita di identità, raccontata fra guizzi ironici e confusa nelle amnesie, fino alle pillole ingoiate nel finale. La luce si spegne su uno strano, beffardo sorriso: che sembra volersi accattivare una simpatia e una compassione estreme, e invece, più probabilmente, le regala agli altri, in un gesto di disinteresse ormai totale, per sé e per le cose.

Sapiente contraffazione
L'interpretazione più corrente del lavoro di Manfredini è che egli metta in scena se stesso, le sue esperienze, la sua psicologia, e che per questo risulti così impudente: alla lettera, non misurato negli impulsi, nel comportamento, nelle espressioni. Per il suo modo di recitare si è parlato di «caos dell'istintività». E quando ha dedicato il suo spettacolo a Francis Bacon è sembrato che il riferimento confermasse e avvalorasse tale interpretazione. Anche per Bacon si tratta di «arrivare alla forma attraverso un processo istintivo, sorprendente», dice Manfredini. II movimento è impresso alle sue creature deformi attraverso masse di colori saturi che proiettano la propria immobilità su se stesse col risultato di un'emorragia delle forme, che sembra non possano contenere la propria turbolenta, concreta sostanza materica. Ma proprio il riferimento a Bacon è in grado di illuminare un processo di elaborazione che non è abbandono istintuale alla verità personale e neppure alla libera creazione artistica, ma è piuttosto sorvegliatissima e sapiente contraffazione.
Ha scritto di recente un critico che avvicinandosi alle opere di Bacon è possibile coglierne il «tesoro nascosto», che è la bellezza della pittura. Le immagini intollerabili e crude del suo realismo deformato sono realizzate attraverso un tratto pittorico lieve e sorvegliato, una mescolanza dei colori perfetta e assai meditata. La forza tragica dei suoi quadri sta proprio nel segreto di questo contrasto: fra la «violenza dell'impulso» che ci colpisce e la «lenta misura», la «volontà determinata» che ne è all'origine: tra l'istintività apparente e l'intima necessità. Ed è il «tesoro nascosto» che Manfredini ha carpito a Bacon, e che aveva sottratto a Genet nel Miracolo della rosa, scoprendo la sostanza delicata e sapiente di quell'autore «scandaloso» e maledetto. In quel caso, per mostrare la disperazione di un universo esistenziale crudele e caotico, aveva inseguito un «profumo nascosto», un sotto testo lirico in grado di ritessere la trama metrica dei molti spunti casuali: «Sto vivendo nel caos di queste forze che irrompono nella scena e pretendono in essa di trovare una vita, un ordine ... - scriveva allora -. Mi guida il profumo che inseguo tra le righe del romanzo: quello delle ghirlande di rose che cingevano i polsi, le caviglie e la testa dei condannati a morte».
Come avviene nell'arte, come avviene nella poesia, l'attore deve costruire una vita fittizia per la realtà che gli sta a cuore: deve negarla per trasmetterla. Pessoa scrive che il poeta è un mentitore, che per narrare il dolore deve fingere che esso esista. Provare un sentimento non è la via più efficace per comunicarlo. L'arte non può semplicemente accogliere i sentimenti e le visioni dell'artista, ma deve dare loro forma, trasformarli in materia apparente per poterli comunicare. Poi, nel contrasto, o nell'intreccio, tra deformazione e apparenza, tra forma e caos si compie il miracolo della significazione. Così spiegava Bacon: «Io voglio deformare la cosa al di là dell'apparenza ma nello stesso tempo voglio che la deformazione registri l'apparenza». Attraverso la deformazione, e non la restituzione immediata o spontanea della cosa, è possibile registrarne l'apparenza e insieme comunicarne il tormentato «al di là».

Le rughe di Emma Gramatica
Durante un incontro con gli studenti del Dams, prima del suo spettacolo, Manfredini ha ridimensionato con fermezza il fatto di mettere in scena frammenti biografici o personaggi legati al suo vissuto. E' vero: usciamo dai suoi spettacoli toccati dalla verità della rappresentazione proprio per lo straordinario tesoro di arte interpretativa che nasconde, che fa sembrare l'apparenza più vera del vero, e domina la tecnica con un tocco trasparente e leggero, tale da mantenere in vita quel «processo istintivo e sorprendente» che si è condensato in forma. L'universo fittizio della scena, sempre inadeguato come specchio del mondo, è però in grado di aggiungere qualcosa alla comprensione dello stesso, magari attraverso pennellate sapienti e deformanti, che ne alterino i falsi equilibri creando squarci e prospettive sghembe. I grandi attori del passato l'avevano capito, che il percorso dell'interpretazione non è mai rettilineo, che la verità a teatro è meno efficace della forma. C'è un aneddoto su Emma Gramatica che credo piacerebbe a Danio Manfredini: ormai anziana, l'attrice doveva interpretare un personaggio esattamente della sua età, e si recava in camerino con buon anticipo, tutte le sere, per cancellare dal suo volto i segni degli anni e poi ridisegnare sulla superficie del cerone delle rughe finte per la scena. Come il poeta, l'attore è un mentitore che deve fingere le rughe che ha per poterle comunicare.


Centri sociali, ospedale psichiatrico, carceri, ecc.
Danio Manfredini inizia la sua attività teatrale nel 1975 frequentando i laboratori di sperimentazione nati nei centri sociali di Milano durante il periodo delle occupazioni edilizie. Nel Centro Sociale Santa Maria lavora con Cesar Brie, proveniente dal gruppo Comuna Baires di Milano. E' attraverso l'attore argentino (che entrerà di lì a poco nell'Odin Teatret) che Danio Manfredini conosce il lavoro di Iben Nagel Rasmussen, con la quale studia le tecniche di trainig.
Negli anni '80 realizza La crociata dei bambini, lavoro ispirato a un poema di Brecht, di cui è interprete unico, e Notturno, in collaborazione con il Tico Teatro.
E' dell'89 lo spettacolo che lo ha fatto conoscere, Il miracolo della rosa (Premio Ubu 1990), liberamente tratto dall'omonimo romanzo di Genet, di cui Manfredini è ideatore, interprete e regista.
Nell'89 presenta La vergogna, ispirato a Genet e Pasolini: «Sono approdato di nuovo a Genet e in particolare, per molti aspetti, alla struttura drammaturgica di Pompe Funebri, attratto più che dalla trama, dalle tematiche affrontate: l'amore, la perdita, il dolore, il tradimento, la vergogna, la solitudine. Sono approdato a Pasolini, alla sua poesia non esente dalle esperienze di umiliazioni e vergogne. I suoi ritratti della marginalità, le periferie».
Tre studi per una crocifissione ha debuttato nel luglio del '92 all'interno delle manifestazioni di «Milano Estate» ed è stato rifinito e rielaborato durante lo scorso inverno. Ispirato all'omonimo trittico del pittore Francis Bacon, si compone di tre brani, su testi dello stesso Manfredini, di Koltès e di Fassbinder. «Una frase mi ha accompagnato nella scelta dei materiali dello spettacolo: "Ho un filin di vita...se volete, tiratemelo via"; seppur in modo diverso, essa ha influenzato l'elaborazione delle scene».
Mentre continua il suo lavoro laboratoriale nei centri sociali milanesi (e in particolare al Leoncavallo), Manfredini conduce da qualche anno un «laboratorio creativo» coi malati di mente in un ospedale psichiatrico. Si è conclusa anzitempo, invece, per indisponibilità a un controllo troppo pressante, la sua esperienza di lavoro teatrale nelle carceri.