Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 23 nr. 199
aprile 1993


Rivista Anarchica Online

Dalle piazze della Sardegna
di Cristina Valenti

Il Cada Die Teatro nasce a Cagliari nel 1982. A fondarlo è Giancarlo Biffi, bergamasco, proveniente dall'esperienza della Comune Santa Marta di Milano e di recente laureatosi al DAMS di Bologna. Tutti gli altri membri del gruppo sono sardi. Del nucleo originario fanno ancora parte del Cada Die, oltre a Giancarlo Biffi, gli attori Alessandro Mascia e Pierpaolo Piludu.
La ricerca del gruppo si orienta fin dal primo momento nel senso della costruzione di metodi e pratiche originali, al fine di dare vita ad un proprio "teatro possibile", al di là di filiazioni specifiche. Si concentrano sulle tecniche del teatro di strada, sul lavoro dell'attore, sulla scrittura drammaturgica. I loro primi spettacoli scelgono temi di impegno civile e politico: la guerra civile spagnola, il carcere, il dramma di una generazione che ha conosciuto il terrorismo e la droga. Dal 1988 la loro ricerca si applica principalmente allo studio sul testo, sia attraverso adattamenti (in particolare da Pinter) sia con la produzione di lavori artigianali. Nel 1990 nasce Senzaterra, uno spettacolo sulla speculazione edilizia in Sardegna.
L'Omicidio Satov, che ha recentemente debuttato a Bologna, al teatro universitario La Soffitta, è basato sul romanzo I Demoni di Fedor Dostoevskij e rappresenta la seconda tappa di un progetto biennale che il Cada Die ha dedicato al grande scrittore russo. La prima tappa, La notte dei ricordi, era uno spettacolo quasi privato, che il gruppo rappresentava nelle case dove veniva invitato, davanti a un pubblico-ospite organizzato per l'occasione. Quattro angeli neri bussavano alle porte dei salotti privati dopo le 22, offrivano vodka ai loro ospiti e proponevano le loro storie nere.
Uno spettacolo vero e proprio è invece L'omicidio Satov. Giancarlo Biffi ne ha firmato l'elaborazione drammaturgica e la regia. Gli attori sono Sabina Barlini (Mar'ja Satova), Giancarlo De Montis (Petr Verchovenskij), Alessandro Mascia (Aleksej Kirillov), Pierpaolo Piludu (Ivan Satov).
I personaggi di Dostoevskij sono colti, in questo lavoro, nelle caratteristiche irriducibili ed estreme della loro individualità: uomini che non si adeguano alla dimensione utilitaristica del vivere e rifiutano totalmente la logica del potere. Le loro scelte rispondono a qualcosa di superiore. La vita umana è per loro sovrana. E la morte sarà la tragica ricompensa di esistenze eroiche e "maledette".
Nella follia di questi personaggi gli attori del Cada Die affermano di avere ritrovato i propri "demoni" personali: le visioni capaci di accendere e bruciare esistenze vissute al di fuori di solchi già tracciati. Una scelta di parallelismo che il teatro conosce molto bene.
"Noi attori, gente di teatro, non possiamo che scegliere loro - si legge nel programma di sala che accompagna lo spettacolo - Sono loro che ci turbano: pazzi che continuano a credere che nel come si fa una cosa esiste già la forma di quello che ne sarà, e che solo nel rifiuto dei modi e dei mezzi del potere può esistere la vera ed unica utopia dell'assenza di questo. Sono queste donne e questi uomini tanto caldi da bruciare in un attimo le loro esistenze e tanto freddi da giocare a scacchi con la morte, che il teatro deve portare in palcoscenico".
L'intervista che pubblichiamo è estratta dalla registrazione dell'incontro (curato da chi scrive) che il regista e gli attori del Cada Die hanno avuto con gli studenti del DAMS di Bologna in occasione della prima nazionale dell'Omicidio Satov.

Cristina Valenti

Cristina Valenti - Cosa significa per un gruppo di teatro di ricerca avere sede in Sardegna?

Giancarlo Biffi - Io penso che in Sardegna ci siano paradossalmente delle condizioni migliori che a Milano. L'anomalia consiste nel fatto che il teatro di ricerca occupa in Sardegna lo stesso spazio del teatro di tradizione: le forze si pareggiano. Esiste un centro teatrale gestito dall'Akroama, esiste una compagnia come la nostra (noi quest'anno siamo stati inseriti nell'articolo 20 tra le compagnie di ricerca a livello nazionale) e c'è un'altra situazione storica, il gruppo Alkestis di Gianfranco Zappareddu, che ha vissuto fino al'83-84 un cammino molto proficuo per il teatro sardo. Questa anomalia deriva dal fatto che in Sardegna non si è mai riusciti a creare un teatro stabile, un teatro che in qualche modo fagocitasse tutta la ricchezza presente e la soffocasse. C'è sempre stata questa libertà e questa grande forza creativa. Poi, per quanto riguarda l'aspetto produttivo, la Sardegna consente dei tempi un po' più dilatati: e questo è vitale. Non c'è la tensione della prima per forza., quando si va in produzione vuol dire che il lavoro è già abbastanza pronto per essere mostrato. Inoltre, l'isolanità fa sì che ogni spostamento sia un vero e proprio viaggio, comporti una traslazione mentale e fisica: e questo è uno svantaggio, ma anche un vantaggio. E' uno svantaggio per le difficoltà di entrare nei mercato di distribuzione, e un vantaggio perché ci permette di preservarci dall'imbarbarimento, cioè di selezionare le occasioni che ci interessano.

Voi siete partiti dal teatro di strada...

Sì, questo è avvenuto per due ragioni. La prima è che in Sardegna c'è difficoltà a trovare luoghi dove poter fare teatro e inoltre, se si escludono i 4 o 5 mesi più freddi, alla gente piace stare in spazi aperti. Tutti i paesi della Sardegna hanno una piazza, e tutti fanno feste popolari, dove è possibile fare teatro all'aperto. La seconda ragione è che nella strada entra in gioco l'imprevisto in maniera cento volte maggiore che in una sala teatrale. Per questo il teatro di strada rappresenta una fondamentale scuola d'attore. Il teatro di strada ci ha permesso prima di tutto di campare, perché vendevamo bene i nostri prodotti, e in secondo luogo di rafforzarci anche a livello drammaturgico, di drammaturgia scenica. Il nostro tentativo era di teatralizzare lo spazio urbano. Vivevamo il teatro di strada quasi come un attacco al paese, in termini militari si potrebbe dire, una presa di posizione, diretta al centro, alla piazza del paese.

Questa forza di impatto è ancora caratteristica del vostro teatro, anche se ora fate prevalentemente spettacoli al chiuso. II vostro teatro continua a rappresentare un attacco, a prendere posizione. Penso in particolare a Senzaterra, dove si parlava della speculazione immobiliare in Sardegna, dei politici che decidono l'abbattimento di case e miniere per far posto a nuovi residence. Un argomento che anticipava una questione quanto mai attuale oggi, quella delle lotte dei minatori. Era uno spettacolo molto forte, per certi versi aggressivo...

Sì, è un po' un'idea guerrigliera del teatro. Noi partiamo sempre da un bisogno, da un'urgenza. Se facciamo uno spettacolo è perché ci è necessario farlo, se no non lo faremmo. Partiamo da una ragione egoistica, se si vuole. Senzaterra parlava di una memoria di Sardegna, una memoria delle miniere, con tutta la loro cultura. I bacini minerari del sud in Sardegna sono stati calamite di attrazione per veneti, friulani, emiliani... Per la prima volta delle culture diverse si son mischiate in un bisogno oggettivo che è il lavoro. Il lavoro per noi è molto simile al teatro: il lavoro come dimensione oggettiva che unisce una comunità, un insieme di persone dalle quali può nascere una nuova cultura. Pensiamo alle lotte operaie di Bugerru, delle miniere... vedete anche l'estremità, non estremismo, proprio l'estremità delle lotte: un minatore che si chiude per due mesi in una miniera con la dinamite... perché lo fa? Non ci sono i sindacati? Ecco, questa diffidenza rispetto a tutto, il fidarsi solo di se stessi: io non so se il sindacato mi rappresenta bene, so che io mi rappresento bene, allora io divento protagonista. Ed ecco la somiglianza col teatro. Questo bisogno di essere protagonista, che nei nostri lavori cerchiamo di tirare fuori. Anche nel nostro ultimo spettacolo, L'omicidio Satov, dai Demoni di Dostoevskij, noi parliamo di figure normali, di donne, uomini, maestri, insegnanti: non sono i re, gli imperatori, i potenti, sono le persone normali, che però sono straordinarie nel loro cammino. Quello che ci interessa è lo straordinario che c'è in ogni individuo se spinto all'eccesso, all'estremo.

Perché la scelta di Dostoevskij?

Perché Dostoevskij... perché molte volte è bene guardare le cose lontane per vedere quelle vicine. Lontane nel tempo, perciò 1870, e lontane anche nello spazio. Però mai come nei Demoni, mai come in quei racconti, nelle storie di quei personaggi ci sentiamo nella situazione che viviamo oggi dentro e fuori l'Europa. Lo scontro religioso molto forte, ad esempio. Pensiamo alla Jugoslavia: si parla sempre di serbi e musulmani: in realtà si tratta di ortodossi e musulmani. I termini sono molto importanti. In Dostoevskij, che è di religione e cultura ortodossa, troviamo il dio russo, la madre patria, la terra russa, il suolo, cioè questi valori molto forti... e oggi in Russia assistiamo alle sfilate di nazionalisti zaristi e vetero comunisti, uniti, bandiere rosse e bandiere zariste che marciano insieme. Questo ricompattarsi, che vediamo nei teleschermi oggi, non è molto lontano da quello che usciva dagli scritti di Dostoevskij. Il nostro incontro con Dostoevskij è quello con un grande reazionario. Siamo coscienti di questo. E' un incontro-scontro dove non è tutto sereno, non è tutto comodo, anzi è molto difficile. La chiave di lettura dei Demoni la fornisce Dostoevskij stesso citando l'Apocalisse di Giovanni: "poiché sei tiepido e non freddo né ardente, sto per vomitarti dalla mia bocca" (Demoni, III ,7 ,2). Dunque devi essere caldo o freddo, il tiepido verrà vomitato, ecco questo... noi vogliamo queste cose, vogliamo il freddo e il caldo, non desideriamo più il tiepido, il barcamenarsi. Vogliamo che il caldo e il freddo si confrontino fino in fondo, per quello che sono. Dostoevskij leggeva tre giornali al giorno. Tutti i suoi testi partivano dalla cronaca e dal suo vissuto. Lui era epilettico, Kirillov, l'ateo perfetto, il "freddo" nei Demoni è epilettico, il principe Myskin nell'Idiota è epilettico, cioè Dostoevskij parte sempre da cose che conosce bene. I personaggi che vediamo passare nelle sue opere sono personaggi che esistevano realmente nella Russia d'allora. Nel personaggio di Petr Verchovenskij, Dostoevskij ha ritratto la figura di Necaev. Necaev è un rivoluzionario nichilista e populista di cui Bakunin si è infatuato. Secondo un'interpretazione molto verosimile, II catechismo del rivoluzionario, frutto della collaborazione fra Bakunin e Necaev è stato materialmente redatto da quest'ultimo (il testo fu stampato in cifra, a caratteri latini, in un piccolo fascicoletto portato in Russia da Necaev, quando fece ritorno a Mosca dopo la sua prima emigrazione in Svizzera, n.d.r.). Ma Petr Verchovenskij è la macchietta di Necaev, non è Necaev. Dostoevskij odiava talmente i nichilisti che ha voluto togliere a questo personaggio anche il suo alone di eroe negativo, di martire in qualche modo. Il fatto storico da cui prende spunto Dostoevskij è molto semplice. C'erano all'epoca degli organismi rivoluzionari detti Cinquine, che funzionavano un po' come le cellule delle Brigate Rosse, dove i rispettivi membri non si conoscevano fra loro. In una di queste cinquine c'è lo studente Ivanov, che viene accusato di tradimento. Necaev ne ordina l'omicidio e quindi scappa per la seconda volta in Svizzera, dove entra in contrasto con Bakunin, fino alla rottura definitiva. Dopo verrà preso, verrà rinchiuso nella fortezza di Pietro e Paolo a Pietroburgo, condannato a vent'anni di lavori forzati, e quindi alla Siberia a vita, pena che non scontò mai in realtà, perché fu giudicato più prudente rinchiuderlo definitivamente in fortezza. Lì riuscirà a convincere le guardie e gli altri prigionieri a una fuga di massa. La fuga non riesce e Necaev viene incatenato a una parete, dentro una cella, e nonostante le catene lui riesce a trasmettere ancora il suo pensiero, ad esercitare il suo fascino su quanti lo circondano, a partire dai soldati. Dostoevskij si stacca completamente da questa figura. La trasforma un po' in caricatura, si rifiuta di farne un eroe.

Come avete lavorato a trasformare la vostra lettura dei Demoni in spettacolo?

Abbiamo cercato di essere molto fedeli. E abbiamo fatto due lavori paralleli. Uno sulla narrazione, che è sfociato nella prima parte del progetto Dostoevskij , La notte dei ricordi, uno spettacolo che portavamo nelle case dove venivamo invitati. Un teatro di stalla moderno. Il teatro di stalla che cos'era: era il luogo più caldo della cascina, dove il vecchio della casa raccontava storie di diavoli, di streghe. Così noi siamo andati in alcune case, in alcuni salotti, a raccontare le storie dei nostri demoni. Le storie della notte dei ricordi sono parallele a quelle dell'Omicidio Satov, che è uno spettacolo vero e proprio e rappresenta la parte conclusiva del nostro progetto. E' stato molto difficile selezionare dai Demoni, che è un romanzo vastissimo, un corpo che ci interessasse. Abbiamo scelto di partire dal ritorno di Mar'ja Satova, cioè quando la moglie di Satov torna a casa. Ci è sembrato un punto straordinario, una trovata straordinaria di Dostoevskij, che fa tornare a casa la moglie nel momento in cui si prepara l'omicidio di Satov. Il momento in cui lui sente arrivare la felicità, il momento in cui le sue difese si allentano, ecco che è il momento in cui lo colgono. E da lì c'è questo ruzzolare di tutto il dramma verso un nero sempre più profondo. I personaggi sono Kirillov, Mari'ja Satova, Satov e Pétr Verchovenskij: l'ateo perfetto, la donna perduta che cerca una sua liberazione, il nichilista pentito, e il fanatico terrorista. All'elaborazione drammaturgica siamo arrivati facendo congiungere le parti narrative ai momenti di dialogo, più fedeli al testo. Gli attori hanno lavorato secondo il metodo che usiamo sempre: per arrivare alla costruzione del personaggio senza "recitarlo". L'attore deve portare molto di sé nel personaggio, il suo alfabeto, la sua poesia, per non cadere nel rischio di recitare una parte non sua, di costruire una macchietta. Occorre tradire il personaggio per non tradire l'attore. E al tempo stesso l'attore deve cercare di sviluppare, di amplificare quella parte di sé che è più affine al carattere del personaggio, in modo che ci sia confronto e rielaborazione personale, non semplice riproduzione di una parte.

Siete stati tentati dalla possibilità di una lettura attualizzante di Dostoevskij?

Il nostro terrorista, il terrorista che Dostoevskij si rifiuta di trattare da eroe, noi sappiamo chi è nell'attualità di oggi. Che ci sia stata una cupola in Italia che in qualche modo abbia deciso la sorte di 45 anni della nostra storia, è evidente. Ed ecco perché anche noi diciamo freddo o caldo: la democrazia, per quello che è, è un grave imbroglio. La democrazia ti permette di essere sempre minoranza per tutta la vita, ma facendoti pensare che tu puoi agire nel gioco. Ecco dov'è la grande presa in giro. Noi ci siamo sempre illusi di poter essere storia, di poter fare la storia, ma abbiamo capito che comunque il nostro muoverci era controllato e vigilato, se non indotto. Così come forse è stata indotta parte del terrorismo. Allora ecco perché ci interessa questa esaltazione delle semplici vite del quotidiano, dell'uomo che vive fino in fondo la sua follia, che ne è protagonista, fino alle estreme conseguenze... Per noi la parola democrazia è la più falsa che può esistere, se è la democrazia che abbiamo conosciuto finora, dove il gioco democratico era fatto da altri, le regole erano stabilite da altri, che le modificavano secondo la loro convenienza. Perciò noi giocavamo questa partita ma con due palloni: il nostro era sempre sgonfio, il loro andava sempre in porta.