Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 23 nr. 198
marzo 1993


Rivista Anarchica Online

Concrete esistenze
di Maddalena Cerutti

A proposito del film "Pomodori verdi fritti", alcune riflessioni su memoria, linguaggio, metafore. Un film da vedere e da ascoltare. Un viaggio di alcune donne, così diverse l'una dall'altra, da rendere possibile una rete di relazioni dove ognuna è protagonista.

Accade di ritrovarsi nel luogo stesso dello smarrimento. Fu così per il "sommo" Dante che, dalla "selva oscura" trovò il cammino luminoso del paradiso poetico. Quanto dogmatismo, però, nella traccia del suo smarrimento!... con la pretesa universale di cancellare tutte le perdizioni e le resurrezioni dei nostri banali, ma piacevolissimi universi giornalieri. In essi si muovono le figure qualsiasi, come la prima, in ordine d'apparizione, del film "Pomodori verdi fritti".
Inserita in uno spazio iperquotidiano, un'auto in sosta, la donna si è smarrita in un orizzonte di insoddisfazioni personali e di luoghi abbandonati, con nomi insignificanti. Stempera, a malapena, l'amarezza del vissuto con colpevoli morsi ad un cioccolato ipercalorico. Tenta anche di trovare un'indizio attraverso fuggevoli sguardi alle scritte di un ex locale-ristoro. L'impianto è ormai invaso dalle erbe ed è avvolto nella polvere sollevata dal ridotto traffico di un unico binario, che scaraventa per l'aria rumore e foglie secche. Tuttavia il luogo, a poco a poco, irradia un che di magico portato dal fischio e dallo sferragliare di un treno in piena corsa.
Amareggiata per aver erroneamente indirizzato il marito sul percorso, la donna esprime ancora tutto il suo disagio con l'imbarazzo di chi si sente inutile e perennemente fuori posto. I due, una coppia di grassoni appesantita dalla miseria di un rapporto senza nuovi scambi e senza passione, devono far visita alla vecchia zia; anch'essa parcheggiata in un ospizio, talmente decentrato dalla città in cui vivono, da rendere evidente l'idea di quanto obbligante e priva di piacere sia la consuetudine della visita settimanale. Nel film la zia non è mai rappresentata e gli incontri finiscono ancor prima di nascere.
La "selva oscura" dalla quale allontanarsi, rimanda al senso di estraneità ma non con la pesantezza allegorica della rappresentazione dantesca. Quella del film è intrisa piuttosto di un ironico, leggero simbolismo metonimico. Il titolo stesso "Pomodori verdi fritti" suggerisce il desiderio materiale di concrete esistenze che sanno assaporare tutto il gusto della vita: un viaggio affascinante di alcune donne, così diverse l'una dall'altra, da rendere possibile una rete di relazioni dove ognuna è protagonista.
Ma è la particolare struttura narrativa che fa di "Pomodori verdi fritti" un autentico intreccio, un film intrigante. Le sequenze si svolgono su tre livelli di narrazione: una soffocata dall'implacabile ristrettezza del presente realistico; un'altra evocatrice di un passato che smuove il tempo interiore ed infine quella "surreale", dove il gioco trasversale dei personaggi e l'obliquità della significazione storica delle loro vite contribuiscono a renderla una narrazione più che futura, quasi fuori dal tempo e pur tuttavia in ogni luogo. Basta notare le sovrapposizioni spaziali. Il luogo dove Evelyn, la prima figura femminile, si è smarrita, è il luogo dove si svolge la storia narrata da Ninny che, estroversa, ottimista e volutamente disponibile, non può che diventarle amica. Grazie anche alla deprimente occasione di quei mancati incontri con la zia. Il medesimo luogo costituisce la scenografia del dialogo conclusivo tra le due amiche: la dissolvenza scenica del film, quasi il momento nostalgico del sogno.
Storie e personaggi si intrecciano così in un unico ambito dai contorni flessibili, in virtù di soggetti che agiscono la propria esistenza e che poi, ammiccando ad un unitario percorso scenico-narrativo, conducono altrove, senza l'ossessione di una meta prestabilita. La vivacità del film è così garantita in ogni momento. Spazio, tempo, e narrazione interagiscono in un solo reticolo, ma non combaciano mai in una precisa categoria estetica. Il film, di conseguenza, non rischia nemmeno di scadere nei pedanti artifici dell'opera didattica, anche se consente una variegata lettura in chiave di "tematiche" (mi si perdoni il termine) femministe. Sul linguaggio del film si potrebbero fare molte osservazioni. Un aspetto sembra prevalere per significato e originalità. La storia con le storie di vita su cui è intessuta, non può che esprimersi nella forma narrativa della suggestività, attraverso cioè quella autobiografia leggera che si tramanda per via orale.
"Raccontami ancora quella tua favola" chiede Ruth in punto di morte. Idge, sguardo rivolto fuori dalla finestra su un paesaggio immaginato più che visto, con quella struggente malinconia che si addensa attorno all'addio e alla perdita imminente, comincia: "Una volta qui c'era un grande lago, dove si erano stabilite delle anatre. Noi ci andavamo in barca, a nuotare e a pescare. Un giorno di novembre molto freddo il lago si ghiacciò. Le anatre allora si allontanarono in volo, portandosi via il lago. Ora si trova in qualche altra parte in Georgia... Ma ti pare possibile?...".
Altre brevi storielle accompagnano e riflettono la biografia di questo luminoso personaggio che è Idge, secondo le incantate modulazioni tra vero e verosimile che la fiaba consente. Incline alla solitudine e proprio perciò attenta agli impercettibili moti della natura e dell'anima, fuori dai limiti dei ruoli e delle convenzioni in cui non si ritrova, Idge fa sua la storia che le racconta il fratello dal quale, bambina, era solita essere rassicurata. "Sai dell'ostrica che il buon dio volle premiare? Ebbene, nel fondo del mare vivevano migliaia e migliaia di ostriche, scure e ben strette. Ad una soltanto dio mise dentro un granello di sabbia, che diventò poi una meravigliosa perla". "Avrei preferito che restasse ostrica", ribatte Idge con la determinazione di chi avverte tutto il peso della propria diversità, ma anche con la coraggiosa insolenza di chi nutre la forza di restarle fedele. Tuttavia il senso del registro orale non risiede nelle semplici metafore contenute nelle fiabe-aneddoto. Nelle modalità d'espressione e nelle variazioni di ritmo di un linguaggio unico e straordinario rimbomba l'eco della voce interiore che altrimenti non avrebbe parola. Film dunque da vedere, certo. Ma soprattutto da ascoltare. E' una prova d'ascolto, si potrebbe dire: un misurarsi con l'affettuosa capacità di rintracciare nelle singolari vicende di ognuna un filo comune di appartenenza.
Se è il modo di usare il linguaggio che fa dei discorsi una cosa non neutra, allora il soggetto che li produce non resta fuori gioco, fuori campo, ma ricava movimento dal suo stesso narrare. Le infinite sfaccettature che arricchiscono la vicenda storica e personale si generano dalle infinite possibili narrazioni degli infiniti possibili soggetti narranti.
Quest'estetica dell'incertezza, propria dell'(auto)biografia femminile dove il dolore di vivere è stato tacitato, così come lo è stato il successo, nel film, per meglio dire, nella circolarità della struttura scenico-narrativa, si appropria di un valore positivo. Diventa il polo intorno a cui ordire il tessuto della memoria. Non la memoria del passato come evento interpretato dalla Storia (con la lettera maiuscola) una volta per tutte: una tale memoria è statica, appartiene alla Legge. Ma quella memoria per e del futuro che si insinua nella rinnovata voglia di leggere, di dire, di nominare, di significare il proprio passato e il passato delle altre noi.
Un'emozione viva che fa assomigliare il timbro della voce più alla fantasia dello sguardo che allo scacco della parola.