Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 23 nr. 197
febbraio 1993


Rivista Anarchica Online

C'era una volta...
di Enzo d'Antonia

Breve storia della mafia e dei suoi traffici, dagli anni '50 ad oggi

Il giornale cinque anni prima aveva pubblicato la foto di Luciano Liggio in prima pagina, e la mafia aveva puntualmente risposto con un atto terroristico, mettendo una bomba (tritolo dentro una latta di conserva: quanta differenza con gli attentati a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino) vicino alle rotative; Mauro De Mauro, invece, sarebbe scomparso misteriosamente sette anni dopo, nel 1970, lasciando un groviglio di sospetti e di interrogativi. In quell'arco di tempo, tra la fine degli anni '50 e l'inizio degli anni '70, la mafia s'è trasformata: senza cambiare nella sostanza, ha modificato i suoi comportamenti. E anche il suo atteggiamento verso il denaro. Agiati, benestanti, i vecchi boss agrari. Ricchi, miliardari, i nuovi capi mafia cittadini, legati all'edilizia, ai nuovi appalti della Cassa per il Mezzogiorno, e pronti a sfruttare tutte le opportunità internazionali del traffico di stupefacenti.
Insomma, quegli anni hanno segnato l'allargamento degli orizzonti finanziari della mafia. I risultati sono quelli che si vedono oggi. La criminalità organizzata con le sue attività illecite è arrivata a fatturare in Italia quanto il gruppo Fiat (cioè circa 50.000 miliardi), e questo secondo una stima prudenziale fatta dall'istituto Censis, che i maggiori esperti di economia criminale giudicano abbastanza attendibile. In più ha messo le mani, in quattro regioni del Sud (Sicilia, Calabria, Campania e Puglia), su una buona fetta dell'economia lecita: gli uomini legati a Cosa Nostra, alla 'Ndrangheta, alla Camorra e alla Sacra Corona Unita hanno affiancato alle tradizionali attività, che vanno dal racket al traffico di droga, mestieri in apparenza più rispettabili. Possiedono camion e ruspe, e monopolizzano il movimento terra. Hanno acquisito, con le buone e con le cattive, industrie e negozi. Lavorano fianco a fianco, nei grandi lavori di costruzione, con le maggiori imprese italiane, e alla vecchia pratica del subappalto hanno sostituito la partecipazione in consorzio. E qui, sul versante delle attività lecite, è molto più difficile fare delle stime. Ci ha provato il settimanale Il Mondo (il sottoscritto, con Giuseppe Sarcina, ha condotto un'inchiesta nelle grandi città del Sud, pubblicata nel novembre del '91), giungendo alla conclusione che mediamente dal 10 al 30% di ogni settore viene controllato dal crimine organizzato. Questo significa che a Palermo la mafia fattura (lecitamente, tra commercio, edilizia, credito, industria manifatturiera) quasi 2.800 miliardi di lire. A Napoli la camorra supera gli 8.000 miliardi. A Catania si sfiorano i 3.000 miliardi. A Reggio Calabria e provincia il fatturato è di circa 1.100 miliardi, mentre a Bari, dove la Sacra Corona Unita ha connotazioni ancora prevalentemente di organizzazione per attività illecite, il gettito è di poco superiore ai 405 miliardi.
Queste cifre sono in massima parte ritenute attendibili dalle stesse organizzazioni imprenditoriali, o almeno da alcuni imprenditori che negli ultimi anni hanno denunciato l'infiltrazione della mafia nel mondo delle imprese. Tanto più che la cosiddetta zona grigia, quella delle industrie "avvicinate" alla mafia, che utilizzano attivamente il collegamento con i boss, tende ad ampliarsi e a colorarsi sempre più di nero.
Quella delle attività lecite è una sorta di strada obbligata: i clan hanno a disposizione una enorme massa di quattrini da investire. Sono soldi che prendono indifferentemente strade diverse. Uno stesso boss investe in supermercati, concessionarie di auto, azioni e titoli di Stato e, nello stesso momento, deposita soldi in Svizzera, si rivolge a broker internazionali, compra proprietà immobiliari in Costa Azzurra o terreni e capannoni nell'ex Germania Est. La cosca, cioè, è una sorta di fondo comune d'investimento: diversifica, con una gamma che parte dalle banconote da diecimila stropicciate e ammassate in una borsa da depositare in banca e va fino ai più raffinati strumenti finanziari.
Ma da dove arriva questa grande massa di quattrini? Come è possibile quantificarla? Prima di tutto c'è il mercato degli stupefacenti. Quello planetario, si dice, è di circa 500 miliardi di dollari all'anno, pari a 675 mila miliardi di lire, una cifra enorme, pari a quattro volte il debito pubblico italiano, ma non del tutto attendibile. Si tratta quasi di una stima convenzionale tra esperti, e in realtà la vera consistenza del mercato non è possibile valutarla proprio perché si tratta di un mercato non omogeneo, fortemente dinamico e soprattutto orientato dal venditore e non dal consumatore: la diffusione del crack prima e dell'ecstasy poi dimostra che le organizzazioni criminali sono in grado di pilotare la domanda. Il caso italiano non è facilmente decifrabile, anche perché sui dati di consumo ci sono valutazioni diverse. L'Istituto Superiore della Sanità dice che i tossicodipendenti sono da 130 mila a 170 mila. Il Cora (Coordinamento radicale antiproibizionista) stima in 350 mila il numero degli eroinomani, mentre coloro che sia pure occasionalmente consumano cocaina sarebbero 2,5 milioni. A questi vanno aggiunti 2 milioni di consumatori di hashish. In tutto quasi 5 milioni di persone, cioè un decimo dell'intera popolazione. Un dato incredibile? Non proprio. Stime ugualmente pessimistiche si fanno negli Stati Uniti, dove ci sarebbero 26 milioni di tossicodipendenti (anche in questo caso, oltre il 10% della popolazione).
Comunque sia, il mercato dell'eroina costituisce il 55-60% dell'intero business, la cocaina copre dal 24 al 35%, mentre l'hashish è tra il 10 e il 15%. I valori sono rispettivamente di 2.400 miliardi per l'eroina, di 1.400 per la cocaina, di 600 per le droghe leggere. In tutto oltre 4.000 miliardi che finiscono nelle tasche del crimine organizzato. Le cosche acquistano dai trafficanti internazionali l'eroina (purezza media: 60%) a 60 milioni al chilogrammo, e poi la rivendono ai distributori, che a loro volta fanno parte di altre cosche, con un margine di guadagno che va dal 150% al 500%, a secondo dell'intensità della domanda, della pressione delle forze dell'ordine. Ciascun eroinomane spende ogni anno poco più di 26 milioni di lire, e se si sapesse il numero esatto il gettito del ciclo della droga si potrebbe calcolare più facilmente. Con riguardo ad altre inchieste, infatti, i dati del Censis sono sottostimati: ricerche fatte in loco in diverse città hanno accertato cifre ben più alte. Il traffico di droga renderebbe alle cosche 3.000 miliardi di lire solo a Milano e provincia, più di 2.000 miliardi a Roma, 1.800 a Napoli e Torino, 1.300 a Genova. In tutta Italia, si arriverebbe a 40-45 mila miliardi di lire.
Altra grande voce di introiti per il crimine organizzato è il racket delle estorsioni. Due anni fa la Confesercenti, nel suo libro bianco, aveva valutato in 30 mila miliardi il gettito del racket. Anche in questo caso il Censis (nello studio "Contro e dentro") ha fatto valutazioni diverse: 1.500 miliardi per gli esercizi commerciali, 1.100 per gli altri operatori economici.
Sequestri, rapine, totonero, lotto clandestino, forniscono il resto. E poi, ovviamente, ci sono quelle attività lecite. Le organizzazioni mafiose non abbandonano un business per un altro. Si limitano ad aprire nuovi canali, mantenendo le attività precedenti. E dunque la vecchia mafia agricola, per esempio, non è scomparsa. Non si commette più il reato di abigeato, è vero. Ma gli acquisti di terre (le vendite forzose da parte dei vecchi proprietari) sono ancora uno degli investimenti preferiti in Sicilia e Calabria. Poi ci sono i furti di macchine agricole, il prezzo, le infiltrazioni nei mercati all'ingrosso. Canicattì con l'uva Italia e la provincia di Ragusa prima con le serre di ortaggi, adesso con la floricoltura, rappresentano ancora un centro di interesse per la mafia, che utilizza i contributi comunitari in maniera distorta, e non disdegna le truffe all'Aima, l'Azienda di Stato per gli interventi sui mercati agricoli.
L'ultima stagione dei sequestri patrimoniali fornisce un quadro abbastanza chiaro delle strutture finanziarie delle famiglie mafiose. Questo strumento, invocato in passato, non sempre aveva dato alla fine i frutti sperati: basti ricordare i sequestri dei beni di Michele Greco o della famiglia dei Salvo, poi annullati. Ma negli ultimi mesi i sequestri si sono succeduti a ritmo più veloce, in tutte le regioni più interessate al fenomeno. E questo ha permesso di ricostruire le attività di alcuni grandi gruppi mafiosi. Vere e proprie holding internazionali come quella della famiglia Caruana-Cuntrera. Ma anche gruppi più radicati sul territorio controllato dal boss.
È caduto nelle mani delle forze dell'ordine il boss indicato già come il più ricco d'Italia (classifica del Mondo, pubblicata nel giugno del '91), Carmine Alfieri, accreditato di un fatturato annuo di 1.500 miliardi di lire. Quando i carabinieri lo hanno arrestato, nel settembre del '92, a Scisciano, vicino alla sua villa di Prazzolla di Nola, don Carmine, numero uno della camorra, era latitante da undici anni. Quanto basta per mettere su, attraverso parenti e prestanome, un vero e proprio impero.
Membri della famiglia hanno ottenuto subappalti per la costruzione di un'officina delle ferrovie in provincia di Napoli, e una ventina di imprese che coprono l'intero ciclo dell'edilizia si accaparrano tutti gli appalti possibili, altre imprese lavorano nel business dei rifiuti, nello smaltimento illegale. Il Gico della Guardia di finanza (Gruppo investigativo contro la criminalità organizzata) già da anni stava ricostituendo le attività del clan Alfieri e in più riprese era riuscito a ottenere il sequestro di beni per un centinaio di miliardi prima che il boss fosse arrestato. Il modello economico del clan di Carmine Alfieri è quello già seguito da altri boss della camorra, come per esempio Lorenzo Nuvoletta (re del calcestruzzo e degli stupefacenti) o Michele Zaza, alleato di Cosa Nostra, artefice del piano Camorra azzurra che mirava al controllo dei casinò.
Attualmente Zaza vive vicino a Nizza, in una villa bunker, attorniato da una quarantina di fedelissimi: il suo fatturato è stimato in circa 700 miliardi di lire all'anno. Ma sono davvero così ricche le famiglie mafiose? Secondo la Criminalpol i più ricchi sono i boss della camorra, i più poveri i pugliesi della Sacra Corona Unita. L'ultimo tesoro posto sotto sequestro è quello del clan Madonia di Palermo. Anche qui uno schema ormai usuale: 62 società impegnate in buona parte nel mondo dell'edilizia, 202 immobili, 6 imbarcazioni, 262 autoveicoli, 250 conti bancari, un piccolo quantitativo di azioni dell'Ansaldo Trasporti di Napoli. In tutto i personaggi coinvolti, quali intestatari dei beni, sono 32. L'ammontare del tesoro sequestrato è di circa 500 miliardi. L'operazione l'hanno chiamata "Smascheramento e pulizia". Ma l'iter è appena all'inizio, e non solo nel caso dei Madonia. Delle grandi operazioni di sequestro patrimoniale fatte negli ultimi mesi del 1992 non una è passata alla fase successiva, quella della confisca.