Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 23 nr. 197
febbraio 1993


Rivista Anarchica Online

La mediazione necessaria
di Maria Matteo

Riflessione sui conflitti, sulle guerre, sulle modalità per prevenirle e combatterle. Senza gli occhiali comodi ma deformanti dell'ideologia.

Corpi scheletrici, pance gonfie, vecchi e bambini che giacciono nella polvere tra l'indifferenza di tutti, mentre i loro occhi enormi, dilatati scrutano apatici la telecamera che ne rimanda l'immagine. E' la Somalia. Dall'estate, per mesi, i riflettori televisivi si sono accesi ad illuminare le sofferenze di questa parte del Corno d'Africa finché, come nella migliore tradizione dei film d'azione, non sono giunti i salvatori, al cui sbarco abbiamo potuto assistere in diretta. Evidentemente vi sono paesi in cui il dolore e l'ingiustizia sono più intollerabili che altrove. Almeno per l'ONU e per chi come gli Stati Uniti ha deciso di autoproclamarsene il gendarme armato. Riesce difficile allontanare il sospetto che la posizione strategica della Somalia sia stata un non lieve incentivo dell'intervento "umanitario" statunitense. Con buona pace di Woijtyla e dei suoi accoliti che si sono affrettati a benedire la spedizione.

Mezzi non violenti?
Pochi giorni prima della partenza dei marines, in un'altra parte del mondo, nella Bosnia dilaniata da una tremenda guerra civile, c'è stato un intervento esterno di ben altro sostegno: 500 pacifisti disarmati hanno costruito una catena umana che si è interposta tra i combattenti a Sarajevo. Un gesto simbolico che, al di là della momentanea interruzione dei combattimenti, suggerisce la possibilità di intervento e soluzione non armata dei conflitti. La gran parte delle persone, ispirandosi ad un senso comune troppo in fretta identificato con il buon senso, relega la non-violenza nel limbo delle utopie simpatiche ma inutili. La sfiducia in mezzi nonviolenti di dissuasione è tale che in momenti di grave crisi anche gente certo non sospetta di manie militariste o pratiche violente, finisce col non vedere altra via d'uscita che quella armata. In Bosnia persino organizzazioni come il Centro Internazionale per la Pace di Sarajevo hanno sottoscritto appelli per un rapido intervento militare nella loro regione (1).
E' ben nota la tesi che tra due mali è giocoforza scegliere il minore, tuttavia tale assunto in apparenza banale è di non facile applicazione pratica in situazioni tragiche e complesse come quella Jugoslava. Gli stessi strumenti della democrazia appaiono inutili, poiché la possibilità di scegliere non è in alcun modo garanzia che le scelte siano giuste. Le ultime elezioni in Serbia, nonostante il sospetto di brogli, hanno confermato il consenso alla politica macellaia di Milosevic di amplissimi strati di popolazione.
Scegliere in libertà non comporta necessariamente lo scegliere la libertà. Il che pone in seria difficoltà chi, come gli anarchici ed i libertari in genere, conferisce alla libertà un ruolo centrale nella propria teoria e nel proprio agire politico. L'accesso alla possibilità di decidere, anche se regolato con modalità ben più ampie ed eque di quelle usuali nei regimi democratici, non necessariamente apre la via ad un ordine sociale libertario. In effetti, occorre riconoscerlo, la riflessione anarchica rischia talora di scivolare in un circolo vizioso. In qualche modo la definizione e costruzione di uno spazio sociale libertario, suppone l'assunzione di un senso forte, etico della libertà che travalica l'ambito in cui questa viene comunemente concepita. La libertà non si limita perciò a forgiare modalità decisionali ma assume un ruolo più pervasivo, poiché diviene la finalità esplicita dell'organizzazione sociale. In ciò sta la sua grande forza ma anche la sua intrinseca debolezza, poiché se appare più duttile ed agile nell'affrontare i conflitti non distruttivi, è però poco attrezzata a gestire quelli più dilaceranti. Il pensiero liberal-democratico, la cui contiguità con l'anarchismo è per tanti versi innegabile, poggia invece su una concezione debole della libertà, considerata come bene prezioso ma fragile che occorre accuratamente sorvegliare e limitare per evitarne gli eccessi.
Insomma la libertà è come certe medicine che nelle dosi prescritte dal medico producono benefici, ma in quantitativi più elevati intossicano.

Anche le democrazie
Questa tradizione di pensiero non ha una concezione etica della libertà. poiché separa nettamente l'ambito della libertà da quello dell'etica. In tal modo fonda e giustifica la funzione regolatrice dello stato armato all'interno delle nazioni, e di organismi sovranazionali che intervengano nei conflitti tra gli stati. Nondimeno, nonostante la loro apparente maggiore saldezza pragmatica, i regimi democratici han mostrato in troppe occasioni come il loro meccanismo di regolazione si inceppi quando vengono attaccati da forze eversive. In questi casi, infatti, il rispetto delle regole cede il passo ad una logica dell'emergenza che, infischiandosene dei principi, adotta metodi simili se non peggiori di quelli usati dall'avversario. Anche in questo caso quindi il sistema si rivela efficace nell'affrontare conflitti ad esso compatibili ma incapace di risolvere quelli più distruttivi. Forme di conflitto totale, tra avversari irriducibili, fanno saltare le regole sociali preesistenti e ciò è tanto più vero quanto più le strutture sociali coinvolte assumono la libertà, l'uguaglianza e il rispetto della diversità quali principi costitutivi. E' un'aporia apparentemente irrisolvibile. La libertà non si ottiene negandola là dove la libertà non è semplicemente la mia, ma quella di tutti e di ciascuno. Il rapporto tra fini perseguiti e mezzi adottati non si può misurare in termini di mera efficacia, poiché in una prospettiva libertaria la distruzione dell'avversario rappresenta sempre comunque una sconfitta. Idealmente parlando l'unica strategia pienamente coerente mira a convincere più che a vincere l'avversario. Non è un caso che l'approccio non-violento abbia una forte componente pedagogica. Il guaio è che spesso ci troviamo di fronte a conflitti che rendono impossibile la rapida ed efficace applicazione di tecnica non-violenta di opposizione. Nel loro drammatico appello i membri del Centro per la Pace di Sarajevo, constatata l'inefficacia della resistenza civile alternativa nel prevenire prima e nel mitigare poi l'aggressione alla Bosnia-Erzegovina, affermano con decisione: "In una situazione in cui la scelta è tra la non-sopravvivenza e l'intervento militare, noi decidiamo di scegliere quest'ultimo. Non si tratta di una scelta politica a cui ci porta la coscienza, bensì la necessità (1)".
E' indubbio che di fronte al vero e proprio genocidio in atto in Bosnia, risulta un po' capzioso cavillare sulla scarsa coerenza di alcuni pacifisti jugoslavi. Occorre piuttosto che con chiaro richiamo ad un'etica della responsabilità ci si interroghi sul ruolo che in questa così come in altre analoghe vicende ha svolto la comunità internazionale.
Bisogna intanto chiarire che non tutti i conflitti sono uguali sia rispetto agli obiettivi delle forze in campo sia soprattutto in rapporto alle modalità del conflitto stesso. Sarebbe ingiusto infatti demonizzare i conflitti in quanto tali, poiché spesso l'assenza di conflitti non è l'indicatore d'una felice situazione d'equilibrio, ma il chiaro sintomo della non indolore eliminazione di ogni elemento di dissenso. I totalitarismi più feroci sono usualmente assai abili nel "pacificare" lo spazio sociale che controllano. E' altresì tipico di società più aperte consentire certe forme di conflitto quale garanzia della possibilità di trasformazione dei rapporti sociali. In questi casi il conflitto non innesca ma previene l'affermarsi di una logica distruttiva, poiché l'avversario raramente scade al rango di nemico da eliminare.

Un nemico de-umanizzato
Nemico ed avversario non sono sinonimi, poiché l'avversario, per quanto odioso, resta pur sempre un interlocutore, qualcuno con cui ci si potrebbe mettere d'accordo; con il nemico non si può e non si vuole cercare una mediazione, perché egli crea una situazione intollerabile per il fatto stesso di esistere. Quando l'avversario diviene nemico subisce un processo di de-umanizzazione per cui uccidere, stuprare, torturare persone inermi non ha maggior rilevanza etica di quella che i più attribuiscono al liberarsi di topi e scarafaggi. Quanto più si approfondisce il processo di de-umanizzazione tanto più il conflitto si farà feroce, rendendo impensabile un processo di pace. Molti si sono chiesti perché gli americani al termine del secondo conflitto mondiale non abbiano riservato ai tedeschi lo stesso trattamento riservato ai giapponesi, sganciando su Berlino l'atomica.
E' sufficiente riguardare in TV uno dei tanti film che registi statunitensi dedicarono a quella guerra per avere la risposta. In queste pellicole "scimmie gialle", epiteto usuale con cui vengono designati i giapponesi, non trova un corrispettivo quando il nemico anziché giapponese è tedesco. Al contrario, caratteristica costante di moltissimi film è la cura con cui gli autori insistono nel distinguere la minoranza folle e spietata di SS e gerarchi nazisti dal resto dell'esercito e del popolo tedesco. Il processo di de-umanizzazione, pressoché totale nel caso dei giapponesi, non lo era altrettanto nel caso dei tedeschi. Le orrende testimonianze che giungono dalla Bosnia sono il chiaro indice di una guerra in cui almeno per molte delle fazioni in lotta l'avversario è divenuto un nemico completamente de-umanizzato. Sebbene poco verificabile il quadro della Somalia che pare emergere dai reportages dei mass-media occidentali non è possibile misurare l'efficacia delle soluzioni proposte con un parametro univoco, poiché la valutazione dei vantaggi e dei costi di ogni ipotesi non è mera questione tecnica ma etica e politica. I sostenitori dell'intervento armato dimenticano che per lo più certe operazioni di pace e polizia internazionale non sono che la copertura delle squallide mire imperialistiche delle potenze occidentali. Poco valgono le argomentazioni di chi, pur conscio del ruolo reale delle cosiddette forze multinazionali di pace, lo considerano il male minore.

Contro le logiche degli stati
Ancora non sappiamo quante migliaia di vittime innocenti abbia mietuto la guerra nel golfo e quanti altri muoiano e soffrano a causa del perdurare delle sanzioni economiche. A meno di scadere in una logica governata da un indiscriminato occhio per occhio, dente per dente è impossibile pensare che bombardare a tappeto ed affamare un popolo sia il male minore. Questo non significa che si possano nutrire illusioni eccessive sulla capacità di incidere, nel breve periodo, di mezzi quali la marcia di pace a Sarajevo. Ma non significa neppure che si debba accettare il ruolo di spettatori impotenti di fronte allo strapotere dei vari signori della guerra in Somalia come in Bosnia e, ancor più, qui in Italia. È scandaloso che quasi nessuno si sia opposto all'intervento dell'esercito italiano in Somalia, un paese dove gran parte delle battaglie sono combattute con armi fabbricate nel nostro paese. D'altra parte lo spirito umanitario del nostro governo è tanto sollecito ad inviare truppe nel Corno d'Africa quanto poco lo è nell'aprire le frontiere ai profughi, ai disertori ed agli obiettori provenienti dalla ex-Jugoslavia. E' nota la vicenda di Zoran Cuk, diciannovenne obiettore di Zagabria, espulso come immigrato clandestino dopo un breve soggiorno nel nostro paese. Zoran non è certo l'unico che si sia rifiutato di vestire una divisa, poiché pare sia piuttosto elevato in tutti gli schieramenti il numero dei disertori e degli obiettori. Non sembra pertanto illegittimo supporre che tale numero possa ulteriormente crescere se vi saranno concrete forme di sostegno a chi non vuole combattere in questa guerra. Per quanto scarse, le possibilità di risoluzione non tragica del conflitto nella ex-Jugoslavia dipendono in gran parte dalla capacità di costruire uno schieramento che sappia esercitare la necessaria funzione mediatrice. Funzione che certo non può essere svolta dall'ONU le cui risoluzioni vengono applicate solo quando coincidono con gli interessi della maggiori potenze finendo talora con l'inasprire anziché attutire il conflitto. In Serbia, in Croazia, in Bosnia esiste un'opposizione democratica alla guerra che l'ONU e la CEE si sono ben guardati dall'appoggiare, adoperandosi altresì per accelerare ulteriormente il processo di polarizzazione in atto. Le sanzioni economiche, colpendo indiscriminatamente le popolazioni serbe, macedoni e montenegrine non possono che rafforzare le già dilaganti tendenze scioviniste e nazionaliste. In questo quadro è chiaro che l'onere dell'iniziativa non spetta agli stati ma a chi consapevolmente si pone fuori e contro le logiche che li animano. Se è vero che l'approccio libertario è poco attrezzato ad affrontare i conflitti più dilaceranti, resta anche altrettanto vero che è il più attento ed eticamente motivato nel perseguire strategie che mirino ad allargare gli spazi di convivenza e di rispetto per la diversità. Sostenere in tutti i modi l'opposizione alla guerra in Croazia come in Bosnia e in Serbia diviene obbiettivo prioritario, perché solo da ciò dipende la possibilità di creare uno spazio di mediazione e di dialogo. E' difficile ma necessario. Altrimenti l'ultima parola sarà dei cannoni e dei missili statunitensi oggi impegnati a pacificare col fuoco la Somalia.

1) Cfr. Azione non-violenta, novembre '92, pag.23 "agitprop".