Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 22 nr. 196
dicembre 1992 - gennaio 1993


Rivista Anarchica Online

Come si raddoppia uno stato
di Andrea Ferrario

Klaus il duro, Havel il ragionevole, Meciar il sanguigno. Ecco i protagonisti della farsa che porterà alla separazione, dal 1 gennaio 1993, tra cechi e slovacchi.

Anche la Cecoslovacchia, così come è già successo per la Jugoslavia e per l'URSS, è destinata a scomparire dalle carte geografiche. A partire dal 1° gennaio la federazione tra la Repubblica Ceca e quella Slovacca verrà sciolta, per dare vita a due stati indipendenti, dopo 74 anni di convivenza sotto la stessa bandiera.
La Cecoslovacchia è stata infatti creata immediatamente dopo la Prima Guerra Mondiale, nel 1918, in virtù degli accordi tra le grandi potenze, ma anche grazie ad un ben radicato movimento "cecoslovacchista", il cui principale esponente, T.G. Masaryk, storico e filosofo, è stato poi per 20 anni presidente della repubblica.
"Stato-cuscinetto" nel cuore dell'Europa, "stomaco" del continente, la Cecoslovacchia ha pagato duramente questa sua posizione. Smembrata dopo gli accordi di Monaco del 1938, perde a vantaggio della Germania i Sudeti, abitati in maggioranza da tedeschi, e viene invasa un anno dopo dai nazisti, mentre in Slovacchia si forma uno stato fantoccio clerico-fascista (il primo e, fino ad ora, unico stato "indipendente" slovacco della storia), guidato dal vescovo cattolico Tiso e nei fatti un protettorato tedesco. Dopo la guerra, nel 1948, i timidi e difficili tentativi di fare di nuovo della Cecoslovacchia uno "stato-cuscinetto", neutrale falliscono per il veto di Stalin e il partito comunista, già forte elettoralmente, prende il potere con un colpo di stato.
Seguono gli anni bui dello stalinismo, interrotti solo dal risveglio civile degli anni '60, culminato con la "Primavera di Praga" e soppresso nel '68 dai carrarmati sovietici. Ed è proprio nel 1969, alcuni mesi dopo l'invasione, che il progetto per la trasformazione dello stato centralizzato in una federazione viene tirato fuori dal cassetto con mossa astuta dai notabili comunisti insediati dai sovietici, nel tentativo di darsi un aspetto presentabile. Il paese diviene pertanto una federazione, con un parlamento federale, una camera delle nazioni e due consigli nazionali con sede nelle rispettive repubbliche. Questa struttura rimane invariata per tutto il periodo della normalizzazione e della transizione al capitalismo avviata dopo il 1989. Da sempre più ricchi e industrializzati, tendenzialmente più laici e "plebei" (la sconfitta degli hussiti e l'imposizione della fede cattolica ha comportato lo sterminio dell'intera nobiltà ceca), nonché più vicini alla cultura tedesca (seppure con profonde e fondamentali differente) i Paesi Cechi (cioè Boemia e Moravia). Cattolici e di tradizione soprattutto contadina gli slovacchi, che non hanno conosciuto la rivoluzione hussita e sono sempre stati governati dalla nobiltà ungherese. La convivenza tra i due popoli, che parlano tra l'altro due lingue similissime e reciprocamente comprensibili, non ha mai dato tuttavia luogo a particolari conflitti, nemmeno nei periodi di maggiore crisi. Come si è potuto giungere allora alla rottura in un giro di tempo così incredibilmente breve?

Forte scompenso
Uno dei motivi fondamentali è certamente rappresentato dalla riforma economica (il solito modello di riforma dettato dal Fondo Monetario Internazionale, che da lungo tempo non dà altro risultato che quello di causare sconvolgenti crisi economiche in tutto il mondo) propugnata soprattutto dal Partito Civico Democratico ceco, nato dalla divisione del Forum Civico di Havel e degli altri dissidenti, guidato dall'extra-liberista Klaus, un tecnocrate che ha fatto carriera sotto il regime comunista, senza tuttavia compromettersi mai troppo.
Tale riforma ha in breve causato un forte scompenso tra le due parti della federazione, con un forte aumento della disoccupazione in Slovacchia, la cui economia era maggiormente orientata verso gli ex-paesi socialisti, con i quali sono ora stati tagliati tutti i ponti. Il governo slovacco di Meciar, leader del Movimento per una Slovacchia Democratica ed ex-comunista espulso dal partito dopo il 1968, ha cominciato ad ostacolare tale politica a livello federale e, dopo alcuni mesi di litigi, si è giunti a Praga all'incredibile decisione di "deporre", su esortazione del presidente Havel, Meciar e di instaurare un governo di uomini più consoni alla politica di Praga. Durante tutto l'anno che ha preceduto le elezioni del 1992 ha così governato in Slovacchia una coalizione che godeva, secondo tutti i sondaggi, di circa il 15% dei consensi della popolazione e che infatti poi nelle elezioni ha ottenuto tale percentuale . La conseguenza è stata che la popolarità di Meciar, abile demagogo, è salita alle stelle, cosa di cui egli ha prontamente approfittato per condurre dall'opposizione una politica sempre più nazionalista, mentre nello stesso periodo a Praga Havel chiedeva poteri straordinari (cioè la facoltà di emettere decreti senza l'approvazione del parlamento), che però non gli venivano concessi e dal ministero dell'interno federale uscivano documenti mirati a compromettere Meciar come collaboratore degli ex-servizi segreti comunisti.
Le elezioni del giugno '92 vedono vincitori con un terzo dei voti nelle rispettive repubbliche proprio i due partiti di Klaus e di Meciar, facendo cadere la prospettiva di una vittoria delle destre (Klaus più i "federalisti" slovacchi) a livello federale. E' ancora una volta Havel che fa precipitare la situazione incaricando Klaus di formare il nuovo governo, ancor prima che fossero noti i risultati definitivi e senza consultare altre forze politiche alla ricerca di soluzioni di maggiore compromesso. Klaus, senza alcun mandato in tal senso, inizia immediatamente a trattare sul futuro della federazione con Meciar. Dietro la farsa teatrale di un Klaus favorevole all'unità ("nella federazione così come è o divisione") e di un Meciar alla ricerca di soluzioni più elastiche ("unione", "confederazione"), i due leader nazionalisti vanno alla ricerca di una separazione secca del paese, nella convinzione che ciò sia vantaggioso per la propria repubblica e, soprattutto, per la propria carriera.
Uno, il ceco Klaus, persegue una politica di capitalismo selvaggio alla Reagan, ma in realtà il suo partito gestisce la privatizzazione attraverso enti e ministeri dello stato nel più perfetto stile burocratico-socialista; l'altro, lo slovacco Meciar, si dichiara per un'economia di mercato controllata dallo stato, promette una diminuzione della disoccupazione, senza tuttavia alcun piano preciso e condendo il tutto con forti accenti demagogici, dietro ai quali si nasconde il desiderio della sua classe politica di inserirsi direttamente nei flussi di capitale internazionali.
In breve i due da nemici si fanno alleati e, pur disponendo solo di un terzo dei consensi a livello cecoslovacco, siglano un accordo per la divisione del paese a partire dal 1° gennaio 1993. Il parlamento federale, però ha bocciato la legge che doveva regolare tale divisione e i due partiti, d'altra parte, non vogliono ricorrere ad un referendum (se non di ratifica, a fatti compiuti) dato che quasi di sicuro esso respingerebbe il progetto di separazione. La soluzione sarà con ogni probabilità una ripresentazione della legge modificata in parlamento, anche se i tempi sono ormai strettissimi. Nel frattempo sono stati conclusi accordi che dovrebbero permettere una separazione relativamente pacifica, anche se rimangono da definire i problemi riguardanti la divisione dell'esercito e quella delle proprietà federali.

Capitali tedeschi
Intanto i deputati del parlamento slovacco, dopo lunghe discussioni, hanno cancellato dalla nuova costituzione tutti i riferimenti ai "cittadini della Slovacchia", sostituendoli con i "membri della nazione slovacca", un chiaro messaggio mandato ai circa 600.000 ungheresi che vivono sul territorio della loro repubblica, i quali da un lato sono giustamente preoccupati dell'evoluzione della situazione in Slovacchia, dall'altro rischiano di diventare strumento del sempre più montante nazionalismo sciovinista "grande-ungherese". A Praga invece, Klaus e Havel organizzano con l'arcivescovo della città una solenne cerimonia a benedizione della rinascita dello stato ceco, mentre il tetro Jan Ruml, che come vice-ministro federale degli interni si è distinto per una gestione più che disinvolta degli archivi dei servizi segreti e della polizia politica, viene promosso a ministro dell'interno.
Il tutto sullo sfondo di un'economia oramai per i tre quarti in mano ai capitali tedeschi (alla faccia del nazionalismo).
Fin qui abbiamo parlato di quanto hanno fatto i politici, ma la società come ha reagito a questi fatti? Durante tutto il periodo delle trattative per la separazione i sondaggi hanno sempre inequivocabilmente indicato che la maggioranza della popolazione, sia in Slovacchia che nei Paesi Cechi, era contraria alla divisione della Cecoslovacchia. Solo l'ultimo sondaggio disponibile, dei primi di novembre, dava, a giochi ormai fatti, uno stretto 51% di cechi favorevoli alla separazione, percentuale che in Slovacchia risultava ancora inferiore al 40%. Tra la gente sembra tuttavia che regni un'apatia totale, solo a Praga ci sono state delle sparute manifestazioni per la conservazione della federazione, ma si è trattato in realtà di manifestazioni tendenzialmente antislovacche. Nessuna alternativa positiva, che sia diversa dal mantenimento del vecchio federalismo, riesce a prendere voce.
Si paga qui evidentemente quella che è stata la mancanza di idee della maggior parte degli ex-dissidenti giunti al potere, persone che in numerosi casi hanno dato prova di grande coraggio nella propria resistenza individuale al regime comunista, ma che non hanno però mai tentato di andare al di là delle pur fondamentali richieste di rispetto dei diritti umani per cercare di trovare un'alternativa al sistema esistente, trovandosi in tal modo isolati dal resto della società per motivi che vanno al di là delle repressioni alle quali venivano sottoposti.
Giunti a dover prendere improvvisamente in mano la situazione, soprattutto in virtù della delega concessa loro dalla gente come a dei simboli della resistenza al regime comunista, non hanno saputo far di meglio che cercare di aumentare sempre di più la propria posizione di potere, appoggiarsi acriticamente all'occidente o, nel migliore dei casi, dedicare tutti i propri sforzi ai soli aspetti amministrativi. Questa classe dirigente, conscia della propria mancanza di prospettive e di fronte ad una crisi sociale ed economica sempre più marcata, ha puntato tutto sulla manipolazione spettacolare della situazione, tenendo sotto stretto controllo i mezzi di comunicazione (televisione e stampa), facendo periodicamente partire campagne sullo spauracchio (in realtà inesistente) di un putsch comunista, su dossier più che equivocabili dei servizi segreti, fino a giungere anche all'arresto di "avvertimento" nei confronti di giornalisti scomodi in campagna elettorale.
Si inserisce perfettamente in questo clima anche la questione nazionale, giocata tutta da politici che più che uomini in carne ed ossa, sembrano marionette irrigidite nei loro ruoli (Klaus il "duro ed esperto economista stimato all'estero", Havel il "ragionevole padre della patria e fine intellettuale", Meciar il "sanguigno tribuno del popolo salvatore dei destini della Slovacchia"). Dietro a questo teatrino c'è però il vuoto e gli spettatori che vi assistono o sono distratti, o non riescono a far sentire la loro voce al di sopra delle grida che lanciano le marionette sul palco. Un quadro non certo allegro che ha di che far riflettere anche chi, come noi qui in Italia, si trova costretto a barcamenarsi tra leghe e "onesti" vari, non molto dissimili dai politici cecoslovacchi per quanto riguarda cultura e convinzioni.