Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 22 nr. 196
dicembre 1992 - gennaio 1993


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Buone intenzioni?
di Antonio Cardella

Se dovessimo credere a Robert Reich, esperto economico di Bill Clinton, dovremmo dedurre che egli stesso pensa ad una revisione profonda dell'etica capitalista. Ma la realtà è un'altra.

La faccia giovanile ed aperta, l'andatura scattante, i modi urbani ma non leziosi, Robert Reich è il vate economico di quella che sarà la nuova amministrazione Clinton. Con lui, la politica economica americana è destinata a cambiare rotta, quel tanto almeno che sarà consentito dalla resistenza degli zoccoli duri di un sistema che ha subito i guasti del clan Bush. Ma quali saranno i nuovi indirizzi che gli uomini di Clinton imprimeranno all'America degli anni Novanta?
Ovviamente, ancora si ragiona per ipotesi, anche se di discorsi, nel corso della lunga campagna elettorale, se ne sono fatti molti. Pare, comunque, che una cosa sia abbastanza sicura: l'accelerazione della politica sociale, con incentivi all'occupazione e norme nuove per l'assistenza sanitaria. Sarebbe certamente un inizio confortante e contribuirebbe a legittimare, in senso progressista, l'ascesa di un democratico alla Casa Bianca.
Ma ciò che darà la misura delle reali intenzioni di svolta, sarà la politica che si attuerà, all'interno, nei riguardi delle grandi concentrazioni industriali e finanziarie; all'esterno, con i paesi industrializzati dell'Europa e del Giappone. E qualche indicazione in proposito c'è già. A seguire Reich, pare di essere tornati ai buoni, vecchi tempi di Keynes, con l'attenzione tutta rivolta all'americano medio e alla ricetta per digerire in fretta il boccone amaro della recessione. Il ragionamento che l'economista della Casa Bianca nuova maniera fa è il seguente. Il sistema industriale occidentale si va sempre più accentuatamente internazionalizzando, talché è sempre più difficile identificare la nazionalità delle singole imprese.
Per citare solo una cifra indicativa, tra il 1970 ed il 1980, il fatturato delle consociate estere di imprese americane è balzato dal 20% al 30% e la tendenza si accentua. Che cosa significa questo? Significa che le attività industriali sono divenute molto mobili e allocano laddove trovano condizioni operative più favorevoli. Ciò determina l'ovvia conseguenza che la loro sorte, buona o cattiva che sia, non coincide più con la sorte della nazione di appartenenza.

In ombra
Allora - dice il professorino di Harvard - che senso ha spendere i soldi dei contribuenti per aumentare la loro capacità produttiva e competitiva?
Inoltre: poiché il fenomeno è globale, riguarda, cioè, l'intero sistema industriale occidentale, è prevedibile che, per attirare investimenti, in un futuro non molto lontano, occorrerà predisporre altri tipi di incentivi: occorrerà, cioè, esaltare la funzionalità dei settori internazionalmente meno mobili della produzione: le infrastrutture ed il livello professionale della forza lavoro.
Da questa analisi, la propensione ad accelerare piani di investimento nei settori scolastici e della ricerca e nel predisporre aree vaste ed attrezzature per gli ipotizzati insediamenti industriali. Il discorso non è manifestamente infondato e ha un respiro strategico che non guasta mai. Solo che lascia in ombra molto più di quanto non dica. Intanto, se come Reich stesso afferma, la sua è poco più che una previsione sul futuro - anche se di ciò che ipotizza vede già tracce chiare nel presente - c'è da dire che alle porte dell'economia mondiale urgono scadenze che possono rendere questo futuro assai poco decifrabile.
Alla porta di Clinton bussa la "guerra" commerciale.
Alla chiusura fallimentare dell'ennesima, rituale sessione del GATT, dovuta al solito scontro USA-CEE sui contributi sull'agricoltura, gli americani improvvisamente lanciano il super-dazio del 200% sui vini bianchi provenienti dall'Europa (leggi Francia e Italia): un commercio di oltre 300 milioni di dollari. Non bisogna avere poteri profetici per prevedere ritorsioni e contro-ritorsioni, in un clima di rapporti internazionali già surriscaldati.
C'è, poi, la recessione, la più lunga recessione che la società americana ha conosciuto da mezzo secolo a questa parte, e un deficit federale che marcia al ritmo vertiginoso di 300 miliardi di dollari l'anno, per la bazzecola complessiva di 4 mila miliardi di dollari, deficit che non si arresta certamente con piani di investimento a lunga scadenza.
Certo, è teoricamente possibile che la formazione di nuovi redditi e l'assorbimento graduale della disoccupazione, grazie a massicci investimenti in opere di pubblica utilità, possano alleviare il peso dell'indebitamento.
Ma al tempo di Keynes, la piena occupazione servì ad incrementare i consumi e, quindi, la produzione, in un mondo che aveva fame di prodotti ed era disposto a pagarli.
Il panorama che oggi si offre all'operatore economico non è certo di questo tipo. Di prodotti soffochiamo e interi settori sono in irreversibile crisi di sovra-produzione (v. l'acciaio e vasti comparti agricoli).
In questo contesto, la vocazione dei capitali a confluire su nuove attività industriali è pressoché nulla, mentre si esaltano la basi finanziario-speculative delle singole monete, come abbiamo avuto modo di provare con la recente crisi monetaria in Europa.

Stravolgere l'etica capitalista
Ma c'è un'altra considerazione che incrina la credibilità delle ipotesi reichiane.
E' certamente vero che le industrie, ormai, cercano condizioni di bassi costi di produzione e, per ottenerle, sono disposte a spostarsi dovunque. E' altrettanto vero, però, che è assai difficile pensare all'America opulenta come terra di di questo tipo di insediamenti industriali: tanto è vero che, per sua stessa ammissione, quelli che ancora ci sono, tendono a fuggire
Il fatto è che la tendenza avvertita, e reale, si configura come una non tanto nuova forma di colonialismo: si va dove è possibile sfruttare risorse locali di materia prima e pagare con salari di pura sopravvivenza la mano d'opera.
E che queste cose Reich le sappia - anche se non ne parla - lo testimonia una sorta di compendio delle norme di comportamento, da lui stesso suggerite, che dovrebbero costituire una deontologia degli industriali di nuova generazione: non approfittare di mercati commercialmente protetti, né di legislazioni sociali troppo deboli; non violare principi ecologici e di rispetto dell'ambiente, né attuare politiche di sfruttamento: insomma, stravolgere di colpo l'ottica capitalista.
Io penso che, malgrado tutto, si debba auspicare un così profondo mutamento dell'etica capitalistica. Quanto a crederci...