Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 22 nr. 194
ottobre 1992


Rivista Anarchica Online

Una differenza abissale

Nei due articoli di Maria Matteo e di Roberto Gimmi ("A" 192) sulla pena di morte, mi pare che, nella pur encomiabile aspirazione ad un massimo di obiettività, si sia caduti nell'equivoco di attribuire al concetto un riferimento estensionale che ne travisa il significato.
Entrambi gli autori, infatti, affrontano il tema specifico della pena di morte nel quadro di un discorso più generale sulla violenza e sulla crudeltà potenziale che può manifestarsi in ogni essere umano in certe circostanze. Credo, invece, che la pena di morte vada considerata per quello che in realtà è: elemento di un sistema codificato di sanzioni penali che è, a sua volta, un sottoinsieme di quel complesso di norme che costituiscono l'ordinamento giuridico di uno Stato.
E che siano questo aspetto "legalitario" e quello di riaffermazione della valenza "divina" dello Stato, ad affascinare i suoi apologeti, mi sembra trovare la sua verifica nel fatto che molti dei suoi fautori sono, al tempo stesso ed in nome della "sacralità" della vita umana, accaniti avversari dell'aborto, deprecatori del suicidio e oppositori risoluti di ogni forma di eutanasia. Una volta ricondotto l'universo del discorso sulla pena di morte nel suo alveo specifico, il quesito se "la scelta di essere contro la pena di morte è assoluta o è solo perché è realizzata dal nostro nemico giurato, lo Stato" diventa privo di senso, perché non può esservi alcun tipo di "pena" che non sia stata promulgata, venga erogata ed eseguita se non per volontà e a cura di uno Stato. Forti passioni, una rabbia incontrollabile, il desiderio di vendetta, l'odio, una disperata volontà di rivolta ben possono spingere chiunque a diventare un assassino, non mai ad accollarsi le funzioni del carnefice. Né può affermarsi che "l'assassino e il boia sono l'uno l'immagine specularmente rovesciata dell'altro". Vi è tra loro una abissale differenza sostanziale sotto il profilo della responsabilità personale che si assumono. Chi uccide per decisione propria lo fa sempre a proprio rischio e pericolo. Anche se può accadere che sfugga le conseguenze materiali del suo gesto, non può mai sfuggire a quelle morali, ai dubbi, alle angosce ed agli eventuali rimorsi che possono sopravvenirgli. Il boia uccide in ossequio ad una disposizione impartitagli da una autorità, viene considerato e si sente del tutto irresponsabile del suo atto.
Nessuno se ne assume la responsabilità morale: il boia non fa che eseguire una sentenza, il giudice che l'ha emessa non fa altro che applicare coscienziosamente una legge, il legislatore che quella legge ha promulgato può dire che egli si è solo reso interprete di una "volontà popolare". Il "popolo", poi, è una entità collettiva nel cui seno sfuma e si dissolve il concetto stesso di responsabilità morale. Diverso e tale da costringerci ad interrogarci seriamente, è il caso, sollevato da Roberto Gimmi, di quelle vere e proprie esecuzioni di una condanna capitale per le quali, tuttavia, non ci è possibile provare né orrore né pietà, (la fucilazione di un Mussolini o di altri consimili personaggi). Credo che dovremmo riflettere su questo atteggiamento psicologico. Quali che possano essere state le colpe di questi "giustiziati" e l'odio provato per esse, rimane il fatto che, quando è stata inflitta loro la morte, avevano già perduto ogni potere ed ogni possibilità di nuocere. Varrebbe forse la pena di riflettere sul significato etico dell'atteggiamento di Thomas Paine che, per essersi opposto alla esecuzione del re di Francia quando questi aveva ormai perso il trono ed era semplicemente un prigioniero nelle mani dei suoi nemici, rischiò egli stesso il patibolo e sulle motivazioni della presa di posizione di Martin Buber contro la messa a morte del criminale nazista Adolf Eichman.
Tuttavia, ben più importante e attuale di ogni considerazione astratta e discorso teorico sulla pena di morte, mi sembra essere il cercare di capire perché oggi l'ipotesi di una reintroduzione di tale pena stia godendo di sempre maggiore popolarità, per arrivare alla individuazione degli scopi reali della sempre più frequente riproposizione di "sondaggi" su tale argomento. Molta acqua è passata sotto i ponti da quando Vance Packard dedicava all'impiego della manipolazione psicologica in campo politico un capitolo del suo libro "l persuasori occulti" e vi apponeva in epigrafe questa citazione: "Si può perfettamente concepire un mondo dominato da una dittatura invisibile nel quale tuttavia siano state mantenute le forme esteriori del governo democratico". Ormai il meccanismo di manipolazione e di orientamento teleguidato della cosiddetta "pubblica opinione" nel senso voluto da chi detiene il potere ha raggiunto altissimi livelli di perfezione. Tecniche e strategie mutuate dalla pubblicità commerciale vengono sistematicamente applicate, in campo politico, per far desiderare alle masse di veder realizzato quello che il potere desidera e si propone di realizzare. E' cosa nota che dal modo in cui vengono formulati i quesiti e dalla scelta del momento in cui porli dipende l'esito di qualsiasi "sondaggio" e che attraverso la pubblicizzazione di tali esiti si possono efficacemente influenzare le opinioni e i desideri di vaste aree di popolazione.
Sapendo questo, è possibile avvicinarsi alla comprensione delle finalità perseguite da chi si serve di questi mezzi. A mio modesto avviso, la richiesta di "sicurezza" e di leggi più severe, l'aspirazione ad uno "stato forte", ecc. che sembrano venire "dal basso" non sono fenomeni spontanei, ma artificiosamente indotti, addittivati e amplificati nel quadro di un preciso disegno di ristrutturazione autoritaria della società, al quale, forse, è ancora possibile opporsi. Indipendentemente da ogni giudizio relativo alla maggiore o minore crudeltà e inumanità intrinseca (se è per questo è abbastanza opinabile vedere nell'ergastolo un surrogato più umano e di essa più mite) la pena di morte è l'espressione sintomatica di un culto dell'autoritarismo che esalta il ruolo "sacrale" dello Stato.
Credo, inoltre, che andrebbe sfatato il mito secondo cui la tendenza all'abolizione o alla introduzione della pena di morte vada posta in relazione con il livello di recrudescenza e gravità dei fenomeni criminali. Non è così e per convincersene possono bastare pochi esempi storici. Nella seconda meta del secolo scorso, quando si cominciò a parlare dell'abolizione di quel tipo di pena (per arrivarci nel 1889, col Codice Zanardelli) gli omicidi commessi ogni anno in Italia erano sei volte più numerosi che in Francia e nove volte più che in Inghilterra. Viceversa, quando Alfredo Rocco presentò il suo progetto di un nuovo Codice Penale, che reintroduceva la pena di morte, detto ministro cominciò la sua relazione assicurando che vi era stato "un netto miglioramento della situazione sul fronte della criminalità". Tale reintroduzione, quindi, non veniva giustificata prendendo pretesto da asserire situazioni di "emergenza", bensì come qualificante in senso fascistico e segnale di rottura con un passato ritenuto caratterizzato da una "eccessiva mitezza delle pene". Né, d'altra parte, può certo dirsi che nell'Italia del 1948, quando la pena di morte venne nuovamente abolita, regnasse un clima di particolare tranquillità e sicurezza sotto il profilo dei fenomeni delinquenziali. Quella abolizione fu voluta per offrire un segnale simbolico della volontà di operare una svolta ed una rottura con la tradizione giuridica del passato regime.
Ed è proprio nell'ottica di un inconfessata aspirazione attuale di gran parte della classe politica a riallacciarsi a quel particolare passato che credo vadano lette sia le ipotesi di una possibile reintroduzione della "pena capitale" sia la martellante e quasi maniacale insistenza nel voler deprecare ipotetici "ipergarantismi" che avrebbero minato la sicurezza collettiva, favorendo l'insorgere di una asserita gravissima "emergenza criminale" che lo Stato sarebbe ora chiamato a fronteggiare con grande energia.

Gianfranco Bertoli (carcere di Porto Azzurro)