Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 22 nr. 193
estate 1992


Rivista Anarchica Online

La fuga dall'autonomia
di Filippo Trasatti

Arno Gruen, in un libro di recente tradotto (Il tradimento del sé, Feltrinelli, Milano 1992) affronta il tema dell'autonomia, principalmente dal punto di vista psicologico, tema assai importante come punto di partenza per riflettere sulla situazione dell'individuo nella società contemporanea, in una tradizione di pensiero che, almeno in Occidente, accomuna Laing, Fromm, Marcuse, Rogers per citare alcuni tra i nomi più noti. Questo concetto riunisce significati diversi, spesso in contrasto, ma che comunque sono sensibili rilevatori del rapporto tra individuo e società. L'"autonomia" misura il grado di indipendenza dell'individuo socialmente tollerabile e come questa venga pensata e costruita, attraverso quale formazione e fino a quale stato conclusivo.
Partiamo utilizzando un esempio in negativo.
Un bambino di tre anni o uno "schizofrenico" di trenta non sono considerati autonomi; in base a quali caratteristiche? Principalmente per il fatto di non sapere provvedere a se stessi, materialmente e psicologicamente; poi per il pericolo che questi possono rappresentare per se stessi e per gli altri; infine perché
sono privi di una mappa sufficientemente coerente e completa del mondo in cui vivono.
Si tratta in sostanza della mancanza di indipendenza materiale, affettiva e conoscitiva di una persona, aspetti piuttosto complessi.
Si può ribaltare il problema e chiedere in che senso un individuo può essere autonomo.
Castoriadis risponde che la questione ha due facce, una interna l'altra esterna, semplificando un po' si direbbe una psicologica l'altra sociale. Dal punto di vista psicologico, "1'autonomia dell'individuo consiste nel fatto che si stabilisca un rapporto tra l'istanza riflessiva e le altre istanze psichiche tale che gli permetta di sfuggire all'asservimento della ripetizione, di ritornare su se stesso, sulle ragioni dei suoi pensieri e sui motivi dei suoi atti".
Dal punto di vista sociale: "perché possano sorgere degli individui che mirino all'autonomia bisogna che il campo socio-storico si sia già autoalterato in modo da aprire uno spazio di interrogazione senza limiti" (Volontà 4/89 p. 88).
La definizione di Castoriadis dell'autonomia dell'individuo coglie (a livello del profondo) un aspetto del problema, quello che, in termini psicoanalitici, si definirebbe il rapporto tra conscio e inconscio.
Al di là di questo vi è un insieme di comportamenti e atteggiamenti che socialmente sono considerati essenziali per il raggiungimento dell'autonomia personale a cui gli individui sono portati a conformarsi.
Comportamenti che in buona parte sono frutto di una cultura quasi esclusivamente maschile, che fa dell'uomo l'essere autonomo e della donna l'essere dipendente, sulla base di un rapporto di dominio dell'uno sull'altra. Evidentemente c'è una "costruzione sociale" del "maschile autonomo" che trova alcuni dei suoi più importanti pilastri nell'educazione. E qui veniamo alle tesi proposte da Gruen in questo libro assai interessante ma disuguale, quasi spezzettato come se fosse il risultato di un collage non ben riuscito. Innanzitutto, ci dice l'autore, dobbiamo rovesciare l'idea corrente di autonomia personale: l'essere autonomi non deriva dall'affermazione della propria importanza e della propria indipendenza dagli altri; essa invece è il naturale risultato della capacita di vivere liberamente e armonicamente i propri bisogni e sentimenti più profondi.
Nella nostra cultura consideriamo maggiormente autonoma la persona tanto più ha potere sugli altri, tanto più è in grado di controllare la realtà e se stessa da una posizione distaccata, tanto meno è coinvolta emotivamente nella situazione che sta vivendo.
Caratteristiche che, come si può facilmente vedere, si adattano meglio a ciò che culturalmente consideriamo "il maschile". Tutto questo è frutto di un'educazione che comincia fin dai primi istanti della nostra vita.
Alla nascita siamo totalmente dipendenti dalla madre, o più in generale dagli adulti che ci circondano; ci troviamo in una situazione simile a quella di uno straniero che deve far comprendere i propri bisogni vitali, quelli da cui dipende la sua sopravvivenza, senza conoscere le parole né i gesti del paese in cui si trova.
Un paese piuttosto ostile in cui siamo oltretutto assolutamente impotenti. Abbiamo disperato bisogno, oltre che di cibo, di comprensione, di contatto e d i amore per sopravvivere. Tanto più sentiamo questo amore profondo rivolto a noi, tanto più cresce la nostra capacità di affrontare le situazioni di debolezza, di dipendenza e di impotenza in cui siamo emotivamente coinvolti in modo profondo.
Qui nasce quell'autonomia che è appunto la capacità di attingere alle proprie emozioni più profonde senza sentirsi terrorizzati e senza temere la perdita del controllo. In realtà, dunque, ciò che comunemente chiamiamo autonomia è invero fuga dalla vera autonomia, come talvolta accade che chiamiamo libertà ciò che è invece fuga dalla libertà.
Approfondiamo questo punto.
Riconsideriamo da un altro punto di vista il senso della parola autonomia, cioè letteralmente darsi da sé le proprie regole; dunque rifiutare quelle regole esterne se non sono state filtrate attraverso il sé più proprio.
Ma il "sé" di cui parla anche Gruen ha un significato particolare che si iscrive nella tradizione della psicologia umanistica. Non è l'io come capacità riflessiva di vagliare la realtà, di dirigere l'attenzione; è l'identità più profonda dell'individuo che comprende la sua storia, il suo tendere verso il futuro, il suo atteggiamento verso il mondo, la sua sensibilità.
Filtrare dunque le regole per autonomizzarle presuppone un processo che ha come filo conduttore la riflessione entro un contenitore dalle pareti sensibili, in un percorso che coinvolge la propria vita e che ha termine solo con la morte. Non si tratta di sottoporre al vaglio della ragione le idee ricevute, le opinioni correnti, di essere insomma uomini illuminati.
Ciascuno, credo, può trarre dalla propria esperienza esempi in abbondanza di come sia difficile far proprio un atteggiamento, modificare dei comportamenti che interagiscono con aspetti essenziali della propria vita.
Ciò che più spesso facciamo (e talvolta non è poco) è discutere e accettare idee astratte che hanno ricevuto l'approvazione della nostra ragione. Questo però ha poco a che fare con il nostro sé profondo: lascia profondamente intatta la nostra struttura, come un libro in più che abbiamo letto e che non ha aggiunto nulla alla nostra esperienza e tantomeno ha modificato il nostro modo di vivere.
Accade anzi che per lo più nutriamo, o meglio ci sovralimentiamo di idee astratte che ci allontanano dalla nostra esperienza profonda. Gruen dedica uno dei capitoli più efficaci al ruolo dell'astrazione nella scissione della nostra esperienza e della nostra vita.
Ci affidiamo ad astrazioni per non coinvolgerci emotivamente, per limitare la risonanza interna della situazione che viviamo.
"La logica dell'astrazione ci consente di separare il coinvolgimento personale dalle conseguenze della nostra posizione. (...) Le astrazioni ci alienano dai nostri sentimenti, che (ammesso esistano ancora) tendono a un'identificazione col gruppo, scaricandoci in questo modo di qualsiasi responsabilità". In questo l'autore si ricollega a quel filone di studi, condotti dopo la seconda guerra mondiale, su come sia stato possibile commettere in guerra delle atrocità che in altri momenti si sarebbero ritenute assolutamente disumane.
Ciò che ha reso possibile ai criminali nazisti di essere dei perfetti esecutori di stermini di massa senza sentirsi personalmente e profondamente coinvolti nel crimine è proprio questa scissione tra il sé profondo e le azioni, tra l'essere e il dovere, tra la vita e l'astrazione.
C'è una sorta di mimetismo protettivo che fa sì che l'adattamento alla situazione neutralizzi il pericolo di essere messi in questione direttamente e profondamente.
Cristopher Lasch ha esaminato in un libro importante e sottovalutato (L'io minimo, Feltrinelli, Milano 1985) la modificazione della persona nelle moderne società avanzate in direzione del narcisismo inteso non come affermazione di sé, ma come perdita dell'individualità da parte di un io minacciato dalla disintegrazione e dalla paura del vuoto interiore. In questa situazione le persone mettono in atto delle strategie di sopravvivenza caratterizzate da: apatia selettiva, disimpegno emotivo, rinuncia al passato e al futuro.
Dietro a tutto questo c'è una crisi profonda di identità che è sicuramente il prodotto delle rapide e radicali modificazioni sociali, tecnologiche e culturali del mondo in cui viviamo. Ma c'è anche un modello culturale ed educativo radicato, in base al quale si tende a dare poca importanza ai sentimenti e ai bisogni profondi degli individui, in cambio di un adattamento che ci renda socialmente riconoscibili e riconosciuti come persone adulte, autonome, importanti. In questo modello la paura, l'impotenza e la sofferenza non hanno luogo, sono gli scarti sopra i quali costruiamo la nostra immagine pubblica.
Per mantenere sotto controllo questi sentimenti profondi, che sono radicati in noi fin dall'origine della vita, utilizziamo l'aggressività e il dominio sugli altri. Dice Gruen: "Un sé che volta le spalle all'impotenza riesce a vivere solo una parte limitatissima della sua vita interiore. Non può affrontare le paure e le incertezze, cerca anzi di negarle provando disprezzo per gli altri e tentando di rendersi invulnerabile. Naturalmente è una lotta vana: l' impotenza, ovvero l'oggetto stesso della paura, ci aspetta dietro ogni angolo".
Ciò che l'autore propone è in sostanza la necessità di un percorso individuale, che non ha stazioni prefissate, né una durata prevedibile, per riconquistare la propria autonomia personale attraverso un processo di presa di coscienza dei limiti interni ed esterni, dell'adattamento forzato in cui ci troviamo schiacciati ogni giorno, delle prestazioni volontarie e obbligatorie che scandiscono la nostra vita quotidiana, fino a risalire all'infanzia alle sorgenti della nostra paura, della nostra insicurezza.
E', come si vede, un percorso analitico che ha però una diversa accentuazione: mira a ritrovare le radici vitali della nostra esistenza nel passato, scoprendo i passaggi e le situazioni che hanno deformato e deformano l'espressione di sé, con la consapevolezza profonda che questa ricerca è contro il modello sociale e culturale in cui viviamo e che ciò può condurci nel contempo a una maggiore autonomia (nel senso che l'autore dà a questa parola) e a un maggior isolamento.
"Solo la ribellione rende possibile l'autenticità, a patto che conduca a un senso di comunità con i nostri simili.
Se è diretta unicamente contro qualcosa, diviene fine a se stessa e porta a sopravvalutare la propria importanza.
Ciò equivale a un rifiuto della ricerca del nostro vero sé".
Alla fine del saggio che abbiamo citato, Castoriadis arriva anche a formulare un progetto politico: creare le istituzioni che, interiorizzate dagli individui, ne facilitano il più possibile l'accesso all'autonomia individuale e la possibilità di partecipare effettivamente a ogni potere esplicito esistente nella società.
Progetto che si può articolare in diversi passaggi: individuare quelle istituzioni che, interiorizzate dagli individui, ne limitano l'autonomia e la libertà; restituire agli individui il senso della comunità e della partecipazione a un progetto di trasformazione sociale e personale; creare quelle "istituzioni" che dal basso, a partire dai rapporti quotidiani, rendono possibile la partecipazione al potere.