Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 22 nr. 192
giugno 1992


Rivista Anarchica Online

Arte e vita
di Cristina Valenti

Angela Pezzi e La piccola casa dei grilli; Ermanna Montanari e Rosvita; Iben Nagel Rasmussen e Itsi Bitsi: tre donne e tre spettacoli il cui carattere esemplare passa attraverso la dimensione intima.

C'è profumo di mele nella piccola casa dei grilli, grandi porte-finestra, così alte come dovevamo vederle da bambini, il pavimento è un tappeto d'erba, le pareti sono un paesaggio rigoglioso e caldo; una donna ci invita a entrare e guida la nostra nostalgia sui sentieri di ricordi che non conosciamo.
E' la vecchia casa delle vacanze, di cui Julchen ritrova gli spazi, gli oggetti, le storie. Appena evocati, i fantasmi prendono corpo: la vecchia nonna, la mamma, la sorella Marianne. L'attrice costruisce il flusso del racconto staccandosi dal personaggio di Julchen per dar vita a quello della nonna, per evocare quello di Marianne e popolare di fantastiche, terribili visioni le favole dell'infanzia; quindi ricongiunge personaggi e visioni in un'unica trama: dove le vicende favolose del Cavaliere Bizzarro e di Sire Halewyn diventano metafora di una drammatica storia del nostro tempo e, reciprocamente, l'attualità ancora recente della storia acquista valore emblematico proprio grazie alla lontananza di quelle figure fuori dal tempo. Frammento su frammento, i ricordi e le fantasie rievocano l'infanzia delle sorelle, poi il loro distacco, fatto di ripulsa ostinata e di voglia di capire, e quindi ricostruiscono la morte di Marianne (ossia di Gudrun Ensslin) nel carcere di massima sicurezza di Stammheim.
L'indagine sui sentimenti, che Julchen compie a partire dalla profondità di una memoria che non è solo personale, ma riguarda la complessa rete di rapporti di una genealogia tutta femminile, si allarga ad indagine generazionale e si trasforma in inchiesta sulle menzogne di un "suicidio" di stato.
Angela Pezzi, la bravissima attrice del Teatro Due Mondi di Faenza, è l'unica interprete de La piccola casa dei grilli, uno spettacolo costruito su un racconto di vita (per quanto fitto di cesure ed inserti) e fondato su un duplice registro di soggettività: quello fornito dall'espediente narrativo (l'intera vicenda filtrata attraverso il racconto della sorella che ricorda) e quello fornito dall'edificio interpretativo: il teatro personale dell'attrice, il
suo mondo di riferimenti e il suo patrimonio di immagini ideali e materiali concreti di lavoro.
E' significativo come in questi ultimi tempi siano stati prodotti diversi spettacoli per una sola attrice, tutti incentrati su storie di vita e tutti di sapore autobiografico, pur senza essere autobiografie.
Credo sia interessante riflettere su queste coincidenze: spettacoli femminili, storie di vita e autobiografismo; e proverò a farlo parlando di altri due spettacoli che presentano le stesse caratteristiche.

"Cerco la misura"
Ermanna Montanari ha abbandonato per una volta la coralità interetnica delle Albe per costruire uno spettacolo solitario, Rosvita, dedicato alla vita e alle opere della canonichessa sassone di Gandersheim, la prima donna a scrivere per il teatro. Ermanna si misura con Rosvita, in un percorso irto di sacrifici ed eccessi, e ci restituisce la straordinaria capacità della monaca di indicare i percorsi dell'estasi identificandosi col peccato, assumendolo in sé come principio imprescindibile di conoscenza (e quindi di esistenza). Per dialogare con Rosvita, Ermanna sceglie la condizione della malattia. Sullo sfondo di un dipinto fiammingo di Konrad Witz scelto a raffigurare Rosvita, la malata ripercorre la vita e la vocazione teatrale della monaca in un tragitto narrativo che dà corpo via via ai personaggi e alle visioni della monaca: la prostituta Taide, il monaco Pafnuzio, le martiri cristiane Agape, Chionia, Irene, il centurione Dulcizio, la peccatrice Maria. Affacciata sull'abisso della malattia, l'inferma cade e si rialza: dalla sua condizione liminare può misurare l'estrema soglia del peccato e quella della santità, può danzare come Taide "la gran puttana", specchiandosi nel cerchio rosso del rogo, può farsi beffe di Dulcizio che si unisce carnalmente con degli utensili di cucina pensando di godersi le tre vergini cristiane, può aspirare alla musica celeste, come Maria, il cui nome significa "stella del mare", che non tramonta mai, ma alla fine è il suo corpo a dare la misura di tutte le cose, sono "questi polmoni, questi reni, questi ginocchi". "Non stiamo misurando la distanza fra gli astri - dice - né cercando le ragioni dell'equilibrio terrestre. Di me stessa cerco la misura. Sono diventata per me un terreno aspro, che mi fa sudare, abbondantemente". La voce di Ermanna è profonda e affilata; non addomesticata dalla facilità e ignara dell'indulgenza, come quella delle donne abituate a misurarsi con l'asprezza della terra, del lavoro, delle stagioni; è in questa selvatichezza che risiede la trasgressione
di Rosvita, figura tutta di carne, che scrive intingendo la penna nella lingua e si rivolge ai dotti mangiandosi il braccio e facendo schioccare la bocca.
Il linguaggio del suo corpo indocile contraddice la modestia delle parole, il suo schermirsi in quanto donna "da poco" che osa cimentarsi con l'arte che fu di Terenzio; perché la "pochezza" della sua condizione femminile è in realtà il "terreno aspro" che trasuda sudore e dà corpo e vita ai suoi personaggi.

Sicurezza e memoria
Itsi Bitsi è l'ultimo spettacolo di Iben Nagel Rasmussen, dell'Odin Teatret. Ad affiancarla in questo lavoro sono solamente due musicisti (Jan Ferslev e Kai Bredholt). La materia è dichiaratamente autobiografica. Così la sintetizza Iben nel libretto di sala: "Due giovani vivono insieme l'inizio degli anni '60: attività politica, viaggi, droga. In cosa credevano in quei tempi? Perché finì male per tanti? Uno dei due giovani, Eik Skalöe, il primo poeta beat che cantava in danese, si suicidò in India nel 1968. L'altra, Iben Nagel Rasmussen, attrice dell'Odin Teatret dal 1966, riflette sulla sua vita di oggi e, attraverso i personaggi dei suoi spettacoli, la confronta con le visioni agli avvenimenti di quel tempo".
L'attrice spiega di aver trovato ora, dopo venticinque anni di lavoro all'Odin, la sicurezza professionale per raccontare quella che aveva sempre creduto sarebbe rimasta una storia del tutto personale. La sicurezza è anche memoria professionale, e il filo autobiografico si sdoppia e si moltiplica nello spettacolo, affiancando alle parole e alle immagini degli anni Sessanta i personaggi, i suoni, i colori del "teatro personale" di Iben. Tornano, evocate dal flusso del ricordo, che non fa più distinzione fra realtà finta e vera, le interpretazioni di Iben: il banditore col tamburo, dalla maschera bianca solcata di lacrime colorate (da Anabasis e dalle parate di strada), Kattrin la muta ed Helen Weigel (da Ceneri di Brecht), il danzatore Nijinski (da Matrimonio con Dio), il Trickster, visionario spiritello nordico (da Talabot). E sono loro a raccontare la storia, per quel che è stata e per quel che è diventata, nella modificazione cui il presente sottopone ininterrottamente il passato: che non è alterazione, ma stratificazione. La garanzia del tempo trascorso, sembra dirci questo spettacolo, sta nel riconsegnarci dolore e gioia affiancati, nel farceli percepire contemporaneamente, senza che l'uno veli l'altra.
"Quando Eik morì... Lo venni a sapere a Saunte, la notte di capodanno. Il primo dell'anno feci una passeggiata con Torgeir, mano nella mano. Era caduta la neve. L'aria era limpida, serena. Senza Eik, e senza parole". Attraverso la mediazione dei personaggi dei suoi spettacoli - personaggi che appartengono, idealmente, alla memoria collettiva degli spettatori, che condividono con loro una memoria comune - Iben trasforma il racconto soggettivo della sua storia in vicenda oggettiva, in grado di illuminare le pieghe di un tempo per molti versi oscuro, quello di una generazione che ha praticato scelte estreme, fra inseguimento eroico di una totalità esistenziale e "rivoluzione della mente", da conseguire attraverso la droga come attraverso la musica e la politica.

Luoghi autobiografici
Tutti e tre questi spettacoli (ma di molti si potrebbe parlare, e in particolare di quelli delle altre attrici dell'Odin: Memoria, di Else Marie Laukvik - v. "A" n. 174 -, Il Castello di Holstebro di Julia Varley, Judith di Roberta Carreri) non sono, o non sono soltanto, autobiografie, ma sono piuttosto spettacoli nei quali le attrici parlano con voce propria. "Il teatro - ha detto Ermanna Montanari in un'intervista - è la mia stanza tutta per me".
Non sono tanto storie quanto luoghi autobiografici: spazi complessi, costruiti su più piani di racconto, dove le attrici immettono la propria vicenda artistica, i propri ricordi, un misto di vita e di lavori teatrali che si ricompone in nuovi spettacoli. E i risultati teatrali ottenuti coniugano arte e vita in modo autentico, arrivando per questo ad essere significativi non solo per chi li ha prodotti, ma anche per chi vi assiste. Sono spettacoli il cui carattere esemplare passa attraverso la dimensione intima, come è proprio, credo, dell'esperienza femminile.
Spettacoli che non scaldano, che lasciano un vago senso di freddo, un brivido che passa, quello dell'ala del silenzio dalla quale la storia delle donne è atavicamente sfiorata, e alla quale queste attrici si sottraggono per parlare con voce propria e affermare di non stare al gioco: di non permettere la cancellazione del ricordo, come Angela; di non piegarsi alla scelta fra santità e peccato, come Ermanna; di non accettare, come Iben, che la vicenda drammatica di una generazione sia considerata una partita giocata fra pochi individui dotati di inclinazione per l'eccesso e non abbia illuminato invece la storia di un'epoca.