Rivista Anarchica Online
Arte e vita
di Cristina Valenti
Angela Pezzi e La piccola casa dei grilli; Ermanna Montanari e Rosvita; Iben Nagel
Rasmussen e Itsi Bitsi: tre
donne e tre spettacoli il cui carattere esemplare passa attraverso la dimensione intima.
C'è profumo di mele nella piccola casa dei grilli, grandi porte-finestra, così alte come dovevamo
vederle da
bambini, il pavimento è un tappeto d'erba, le pareti sono un paesaggio rigoglioso e caldo; una donna
ci invita
a entrare e guida la nostra nostalgia sui sentieri di ricordi che non conosciamo.
E' la vecchia casa delle vacanze, di cui Julchen ritrova gli spazi, gli oggetti, le storie. Appena evocati, i fantasmi
prendono corpo: la vecchia nonna, la mamma, la sorella Marianne. L'attrice costruisce il flusso del racconto
staccandosi dal personaggio di Julchen per dar vita a quello della nonna, per evocare quello di Marianne e
popolare di fantastiche, terribili visioni le favole dell'infanzia; quindi ricongiunge personaggi e visioni in
un'unica trama: dove le vicende favolose del Cavaliere Bizzarro e di Sire Halewyn diventano metafora di una
drammatica storia del nostro tempo e, reciprocamente, l'attualità ancora recente della storia acquista
valore
emblematico proprio grazie alla lontananza di quelle figure fuori dal tempo. Frammento su frammento, i ricordi
e le fantasie rievocano l'infanzia delle sorelle, poi il loro distacco, fatto di ripulsa ostinata e di voglia di capire,
e quindi ricostruiscono la morte di Marianne (ossia di Gudrun Ensslin) nel carcere di massima sicurezza di
Stammheim.
L'indagine sui sentimenti, che Julchen compie a partire dalla profondità di una memoria che non
è solo
personale, ma riguarda la complessa rete di rapporti di una genealogia tutta femminile, si allarga ad indagine
generazionale e si trasforma in inchiesta sulle menzogne di un "suicidio" di stato.
Angela Pezzi, la bravissima attrice del Teatro Due Mondi di Faenza, è l'unica interprete de La
piccola casa dei
grilli, uno spettacolo costruito su un racconto di vita (per quanto fitto di cesure ed inserti) e fondato su
un
duplice registro di soggettività: quello fornito dall'espediente narrativo (l'intera vicenda filtrata
attraverso il
racconto della sorella che ricorda) e quello fornito dall'edificio interpretativo: il teatro personale dell'attrice,
il
suo mondo di riferimenti e il suo patrimonio di immagini ideali e materiali concreti di lavoro.
E' significativo come in questi ultimi tempi siano stati prodotti diversi spettacoli per una sola attrice, tutti
incentrati su storie di vita e tutti di sapore autobiografico, pur senza essere autobiografie.
Credo sia interessante riflettere su queste coincidenze: spettacoli femminili, storie di vita e autobiografismo;
e proverò a farlo parlando di altri due spettacoli che presentano le stesse caratteristiche.
"Cerco la misura" Ermanna Montanari ha abbandonato per una volta la
coralità interetnica delle Albe per costruire uno spettacolo
solitario, Rosvita, dedicato alla vita e alle opere della canonichessa sassone di Gandersheim, la
prima donna a
scrivere per il teatro. Ermanna si misura con Rosvita, in un percorso irto di sacrifici ed eccessi, e ci restituisce
la straordinaria capacità della monaca di indicare i percorsi dell'estasi identificandosi col peccato,
assumendolo
in sé come principio imprescindibile di conoscenza (e quindi di esistenza). Per dialogare con Rosvita,
Ermanna
sceglie la condizione della malattia. Sullo sfondo di un dipinto fiammingo di Konrad Witz scelto a raffigurare
Rosvita, la malata ripercorre la vita e la vocazione teatrale della monaca in un tragitto narrativo che dà
corpo
via via ai personaggi e alle visioni della monaca: la prostituta Taide, il monaco Pafnuzio, le martiri cristiane
Agape, Chionia, Irene, il centurione Dulcizio, la peccatrice Maria. Affacciata sull'abisso della malattia, l'inferma
cade e si rialza: dalla sua condizione liminare può misurare l'estrema soglia del peccato e quella della
santità,
può danzare come Taide "la gran puttana", specchiandosi nel cerchio rosso del rogo, può farsi
beffe di Dulcizio
che si unisce carnalmente con degli utensili di cucina pensando di godersi le tre vergini cristiane, può
aspirare
alla musica celeste, come Maria, il cui nome significa "stella del mare", che non tramonta mai, ma alla fine
è
il suo corpo a dare la misura di tutte le cose, sono "questi polmoni, questi reni, questi ginocchi". "Non stiamo
misurando la distanza fra gli astri - dice - né cercando le ragioni dell'equilibrio terrestre. Di me stessa
cerco la
misura. Sono diventata per me un terreno aspro, che mi fa sudare, abbondantemente". La voce di Ermanna
è
profonda e affilata; non addomesticata dalla facilità e ignara dell'indulgenza, come quella delle donne
abituate
a misurarsi con l'asprezza della terra, del lavoro, delle stagioni; è in questa selvatichezza che risiede la
trasgressione
di Rosvita, figura tutta di carne, che scrive intingendo la penna nella lingua e si rivolge ai dotti mangiandosi il
braccio e facendo schioccare la bocca.
Il linguaggio del suo corpo indocile contraddice la modestia delle parole, il suo schermirsi in quanto donna "da
poco" che osa cimentarsi con l'arte che fu di Terenzio; perché la "pochezza" della sua condizione
femminile è
in realtà il "terreno aspro" che trasuda sudore e dà corpo e vita ai suoi personaggi.
Sicurezza e memoria Itsi Bitsi è l'ultimo spettacolo di
Iben Nagel Rasmussen, dell'Odin Teatret. Ad affiancarla in questo lavoro sono
solamente due musicisti (Jan Ferslev e Kai Bredholt). La materia è dichiaratamente autobiografica.
Così la
sintetizza Iben nel libretto di sala: "Due giovani vivono insieme l'inizio degli anni '60: attività politica,
viaggi,
droga. In cosa credevano in quei tempi? Perché finì male per tanti? Uno dei due giovani, Eik
Skalöe, il primo
poeta beat che cantava in danese, si suicidò in India nel 1968. L'altra, Iben Nagel Rasmussen, attrice
dell'Odin
Teatret dal 1966, riflette sulla sua vita di oggi e, attraverso i personaggi dei suoi spettacoli, la confronta con le
visioni agli avvenimenti di quel tempo". L'attrice spiega di aver trovato ora, dopo venticinque anni di
lavoro all'Odin, la sicurezza professionale per
raccontare quella che aveva sempre creduto sarebbe rimasta una storia del tutto personale. La
sicurezza è anche
memoria professionale, e il filo autobiografico si sdoppia e si moltiplica nello spettacolo,
affiancando alle
parole e alle immagini degli anni Sessanta i personaggi, i suoni, i colori del "teatro personale" di Iben. Tornano,
evocate dal flusso del ricordo, che non fa più distinzione fra realtà finta e vera, le interpretazioni
di Iben: il
banditore col tamburo, dalla maschera bianca solcata di lacrime colorate (da Anabasis e dalle
parate di strada),
Kattrin la muta ed Helen Weigel (da Ceneri di Brecht), il danzatore Nijinski (da Matrimonio
con Dio), il
Trickster, visionario spiritello nordico (da Talabot). E sono loro a raccontare la storia, per quel
che è stata e per
quel che è diventata, nella modificazione cui il presente sottopone ininterrottamente il passato: che non
è
alterazione, ma stratificazione. La garanzia del tempo trascorso, sembra dirci questo spettacolo, sta nel
riconsegnarci dolore e gioia affiancati, nel farceli percepire contemporaneamente, senza che l'uno veli
l'altra.
"Quando Eik morì... Lo venni a sapere a Saunte, la notte di capodanno. Il primo dell'anno feci una
passeggiata
con Torgeir, mano nella mano. Era caduta la neve. L'aria era limpida, serena. Senza Eik, e senza parole".
Attraverso la mediazione dei personaggi dei suoi spettacoli - personaggi che appartengono, idealmente, alla
memoria collettiva degli spettatori, che condividono con loro una memoria comune - Iben trasforma il racconto
soggettivo della sua storia in vicenda oggettiva, in grado di illuminare le pieghe di un tempo per molti versi
oscuro, quello di una generazione che ha praticato scelte estreme, fra inseguimento eroico di una totalità
esistenziale e "rivoluzione della mente", da conseguire attraverso la droga come attraverso la musica e la
politica.
Luoghi autobiografici
Tutti e tre questi spettacoli (ma di molti si potrebbe parlare, e in particolare di quelli delle altre attrici
dell'Odin:
Memoria, di Else Marie Laukvik - v. "A" n. 174 -, Il Castello di Holstebro di Julia
Varley, Judith di Roberta
Carreri) non sono, o non sono soltanto, autobiografie, ma sono piuttosto spettacoli nei quali le attrici parlano
con voce propria. "Il teatro - ha detto Ermanna Montanari in un'intervista - è la mia stanza tutta per
me".
Non sono tanto storie quanto luoghi autobiografici: spazi complessi, costruiti su
più piani di racconto, dove le
attrici immettono la propria vicenda artistica, i propri ricordi, un misto di vita e di lavori teatrali che si
ricompone in nuovi spettacoli. E i risultati teatrali ottenuti coniugano arte e vita in modo autentico, arrivando
per questo ad essere significativi non solo per chi li ha prodotti, ma anche per chi vi assiste. Sono spettacoli il
cui carattere esemplare passa attraverso la dimensione intima, come è proprio, credo, dell'esperienza
femminile.
Spettacoli che non scaldano, che lasciano un vago senso di freddo, un brivido che passa, quello dell'ala del
silenzio dalla quale la storia delle donne è atavicamente sfiorata, e alla quale queste attrici si
sottraggono per
parlare con voce propria e affermare di non stare al gioco: di non permettere la cancellazione del ricordo, come
Angela; di non piegarsi alla scelta fra santità e peccato, come Ermanna; di non accettare, come Iben,
che la
vicenda drammatica di una generazione sia considerata una partita giocata fra pochi individui dotati di
inclinazione per l'eccesso e non abbia illuminato invece la storia di un'epoca.
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