Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 22 nr. 192
giugno 1992


Rivista Anarchica Online

Incontro e dialogo
di Filippo Trasatti

Nel corso delle vacanze pasquali si è tenuto ad Agape, un centro ecumenico valdese, un seminario sul tema "L'incontro e il dialogo con l'altro". Vi ha partecipato il nostro collaboratore Filippo Trasatti.

Agape è un centro ecumenico valdese situato in val Germanasca a una trentina di chilometri da Pinerolo. È una delle vallate che ospitano una maggioranza valdese che ha dovuto molto lottare nella sua storia per conquistare la libertà di culto, stretta tra le morse dello stato e della chiesa cattolica. In Italia i valdesi sono un'esigua minoranza, circa trentamila, sparsi qua e là per il territorio nazionale, ma piuttosto compatta e molto attiva. Attenti da sempre a tener lontano i tentacoli dello stato dalla fede dei singoli, sostenitori di un solido assemblearismo, aperti alla discussione con le diverse fedi religiose e con i non credenti, politicamente molto progressisti, intensamente impegnati nel mondo degli esclusi, sono un esempio di minoranza attiva a cui guardare con rispetto e interesse. Al centro di Agape si organizzano nel corso dell'anno seminari su varie tematiche (vengono chiamati "campi"): politiche, economiche, culturali. Per la durata del seminario è possibile soggiornare al centro che ha una ricettività di circa 100 persone. Particolare attenzione in questi anni è stata dedicata ai temi dell'emigrazione, del terzo mondo e del femminismo.
La prima difficoltà per me non credente è stata quella di accostarmi a un centro di ispirazione religiosa, benché molto distante da quelli a cui siamo abituati a pensare. Agape infatti ha sempre avuto come scopo quello di far incontrare e confrontare credenti di varie fedi e non credenti prima di tutto per meglio capire i problemi fondamentali e affrontarli da prospettive differenti. Vi spira un vento di libertà che è difficile sentire altrove, anche in ambiti che dovrebbero principalmente caratterizzarsi per questo clima. Negli anni scorsi in cui sono stato ospite del centro ho sempre avuto la stessa sensazione e credo di non essere l'unico a provarla.
Il seminario tenutosi nel corso delle vacanze pasquali di quest'anno aveva come tema : l'incontro e il dialogo con l'altro. Sono intervenuti un rappresentante della comunità senegalese di Torino che ha svolto insieme ad altri compagni una ricerca sulla condizione degli immigrati a Torino; una pastora luterana finlandese che ha raccontato le difficoltà di integrazione delle donne finlandesi in Italia (diverse migliaia) e infine pastore Sergio Ribet, che per anni è stato responsabile del centro di Agape. Di tutte le questioni poste nel corso del campo, negli interventi dei relatori e nelle discussioni dei gruppi, voglio soffermarmi a riflettere sull'intervento di Sergio Ribet, molto stimolante e decisamente controcorrente di questi tempi.
Quest'anno il cinquecentenario della conquista dell'America ha dato la stura a una serie di affermazioni di principio sulla necessità e sulla desiderabilità di una società multiculturale. Ma quando si abbandoni la scelta di campo, contro tutti i nuovi e vecchi razzismi, e si rifletta sui modi di questa integrazione non si può evitare di incontrare una serie di difficili problemi. Innanzitutto proviamo a chiederci come avviene l'integrazione tra le culture. Qui, al di là delle semplificazioni, si aprono una serie di complessi problemi: che cosa costituisce l'identità di una cultura? Dove finisce una cultura e ne inizia un'altra? Con quali parametri si confrontano culture diverse?
Anche se proviamo a scendere di qualche gradino e confrontarci con un ambito specifico della cultura i problemi rimangono. Prendiamo l'esempio dell'alimentazione. Il modo di procurarsi, conservare e preparare il cibo costituisce un elemento importante della cultura materiale di una certa società. Elementi della cucina d'oriente sono diventati abbastanza noti ad esempio in Italia e, pur non avendo sostituito l'alimentazione tradizionale, entrano talvolta senza difficoltà a far parte della nostra alimentazione. Ogni cultura elabora però un sistema di divieti in base al quale ritaglia nell'insieme degli elementi commestibili due sottoinsiemi separati molto nettamente: ciò che si può e ciò che non si può mangiare. Nessuno di noi, credo, entrerebbe mai in un ristorante che esponesse in vetrina un menù che comprendesse tra le carni i nostri cari, adorati animali domestici. Vediamolo dal punto di osservazione di un musulmano. Gli italiani non mangiano carne di gatto stufata, ma ritengono assurdo il divieto per i musulmani di mangiare carne di maiale. Che cosa sta sui due piatti della bilancia? Da una parte l'affetto per gli animali, dall'altra la fede religiosa. Quale dei due pesa di più? Poniamo che in uno stesso paese, come già accade da tempo, convivano musulmani e cristiani, ognuno con le proprie prescrizioni alimentari e che non si disturbino reciprocamente. E' un caso questo di integrazione culturale? Direi di no; è piuttosto una situazione di convivenza ma nello sviluppo separato.
Un altro esempio. Recentemente in Svizzera è stata approvata una legge per cui è vietato uccidere gli animali al macello facendoli soffrire: chi sarebbe contrario a questa legge estremamente civile? Gli ebrei, tra gli altri, che consumano solo carne kasher cioè pura, dopo che l'animale vivo è stato lasciato dissanguare. Che cosa è successo in questo caso? La cultura dominante ha vinto e ha creato una legge che la rinforza; la cultura minoritaria, in questo caso gli ebrei, è stata costretta a cedere, per quanto riguarda le leggi dello stato, e ricorre all'importazione.
E' solo un esempio certo di non fondamentale importanza si dirà ma che mostra già una prima difficoltà, che può essere formulata cosi in termini astratti: a quale autorità superiore ci rivolgiamo per tenere insieme o al limite fondere sincretisticamente due culture le cui proibizioni e prescrizioni fondamentali non coincidono?

Assimilazione e ghettizzazione
Vogliamo un esempio molto più vicino e tangibile all'interno del mondo occidentale, così civilizzato e aperto al diverso? Prendiamo il caso dell'omosessualità. Tollerata in Italia, la relazione tra persone adulte e consenzienti dello stesso sesso è proibita in Inghilterra fino a 21anni e in alcuni stati degli Usa è tuttora perseguibile penalmente. Non parliamo poi dei paesi islamici in cui, a fronte di una pratica omosessuale diffusa, la religione impone la condanna - in certi casi a morte - degli omosessuali scoperti.
Ecco dunque qualcosa, si potrebbe dire, che unisce, pur nelle differenze, alcuni paesi occidentali e arabi normalmente considerati molto distanti culturalmente. Ma che cosa li unisce in realtà? La repressione in questo caso di comportamenti considerati immorali.
Gli omosessuali si sono molto spesso trovati di fronte al dilemma tra l'assimilazione e la ghettizzazione. Qualcosa di simile è accaduto a certi settori del mondo femminista.
Così pure sarebbe interessante osservare come l'assimilazionismo economico si modelli su culture estremamente diverse tra loro, quali quella del Giappone e degli Usa. Gli esempi si potrebbero moltiplicare, ma nella loro varietà stanno a mostrare che molto spesso dietro a ciò che chiamiamo integrazione si celano l'assimilazione, uno sviluppo separato oppure una silenziosa e inavvertita sopraffazione.
Tutto ciò evidentemente non sta a significare che il multiculturalismo e l'integrazione non siano mete prioritarie da perseguire per chi, ancora, ha in qualche modo a cuore l'ideale di fratellanza universale. È importante però non illudersi che le soluzioni siano a portata di mano e anche comprendere che nell'incontro non c'è soltanto la dimensione della scoperta e dell'armonia, ma anche quella del conflitto. Una delle sfide che il relatore proponeva era quella di elaborare insieme, nei gruppi di lavoro e individualmente, un "decalogo per incontrare l'altro".

Il decalogo per incontrare l'altro
Nel corso del seminario non c'è stato neppure il tempo sufficiente per discutere questa proposta. Mi è però sembrato interessante riflettere su questa tematica e raccogliere la sfida. Sono emerse alcune tesi sull'incontro con l'altro che propongo qui di seguito senza nessuna organicità né pretesa di completezza, utili spero per qualcuno come spunti di riflessione.
1. Nell'incontro con il culturalmente altro o col diverso il primo passo è la conoscenza, passo assai difficile come testimonia il travaglio di molti etnologi e antropologi alle prese con culture radicalmente diverse dalla nostra. La cosa è meno facile di quel che sembra anche per la nostra società ad alto tasso di conoscenze diffuse. Un esempio interessante e al tempo stesso tragico ce l'ha offerto la guerra del golfo. Si potevano leggere sui giornali e sentire dalla gente giudizi sull'Islam basati su alcuni pregiudizi molto diffusi, ma di certo non su un'approfondita conoscenza. E' che a dispetto da quanto si dice, anche ai cosiddetti intellettuali, mettersi in questa dimensione di apertura e di studio costa molta fatica. E, allora, è meglio masticare qualcosa di preconfezionato che fare un lavoro di prima mano. Comunque, anche imboccando la via più onesta della ricerca e della conoscenza, restano enormi difficoltà di comprensione dovuti agli schemi mentali e culturali all'interno dei quali ci muoviamo senza esserne consapevoli. Non tutto è traducibile all'interno del nostro sistema concettuale.
2. La conoscenza non va pensata uni-direzionalmente in questo caso: non abbiamo a che fare con un oggetto, ma con persone vive e con culture che hanno magari una storia di millenni. Dovremmo concepirla come un processo bidirezionale di interazione: si conosce l'altro e ci si fa conoscere dall'altro; normalmente si parte invece dal postulato implicito dell'unidirezionalità che ci pone in una posizione di sicurezza e di superiorità. Si tratta dunque non di un conoscere per accrescere il potere sull'altro, ma piuttosto di un comprendere che ci coinvolge direttamente nel processo.
3. Per farsi conoscere, per mostrare la propria identità bisogna averla ben elaborata. Meglio sarebbe parlare di identità al plurale: culturale, psicologica, di gruppo, politica. L'identità inoltre muta col tempo. La riflessione sui propri percorsi di cambiamento può aiutarci a comprendere come accettiamo e incorporiamo cose diverse, che prima non ci appartenevano, nella nostra identità complessa. Questo lavoro di continua ri-definizione alla propria identità è comunque fondamentale se non si vuole che la paura di perderla abbia la meglio.
4. In un dialogo reale con l'altro non si può non correre il rischio del cambiamento. Tanto più forte è la paura di cambiare, tanto maggiore sarà la rigidità e 1'opposizione conflittuale all'altro. Eppure per quanto ben sia definita e salda la propria identità, cambiare non è facile.
5. Nel processo di scambio e incontro bisogna tener in conto e far emergere la propria paura dell'incontro, esserne consapevoli, accettarla come un limite umano che può in certi casi, diventare una forza.
6. Ci sono gradi diversi di alterità; si preferisce spesso pensare con la categoria dell'opposizione anche quando sarebbe possibile anche concepire una gamma di gradazioni da un punto all'altro. Inoltre bisogna tener sempre presente la complessità dell'intreccio su piani interdipendenti di specifiche differenze. Per far un esempio, un senegalese non è soltanto appartenente a una razza e a una cultura diversa dalla mia, ma appartiene a una data categoria sociale ed è di sesso maschile. L'errore è spesso quello di assolutizzare differenze che invece sono specifiche e di vederne una sola dove ve ne sono molte.
7. E' innegabile che, pur partiti dal dialogo, si possa giungere senza predeterminazione al conflitto, di opinioni, di interessi, di valori, di potere. Si arriva al punto in cui le differenze da risorse e ricchezze diventano assoluti da contrapporre e si manifestano come conflitti. Spesso accade nelle coppie che i conflitti cedano il posto a un'identità duale, invero fittizia, ma certamente più rassicurante del conflitto. Ciò che più importa però sono i modi del conflitto e le strade per la risoluzione. E' questa la strada da percorrere per la quale siamo culturalmente poco attrezzati. Forse sono da guardare con attenzione la strada della diplomazia e quella della retorica (nel senso di arte dell'argomentazione): come si risolve un conflitto tra due stati, dopo che per anni ci si è trascinati in guerre sanguinose e non risolutive? Come si arriva a concordare su alcuni punti dopo una discussione approfondita, quando all'inizio sembrava che avessimo ben poco in comune?
8. Mi sembra che nella nostra valigia diplomatica due "strumenti" siano di inestimabile valore: l'ironia e la memoria storica. Entrambi ci aiutano a vivere e vedere con maggiore flessibilità e profondità prendendo le distanze dal ruolo e dallo status quo, mettendo in luce similitudine e differenze che a prima vista non scorgeremmo.
9. Abbiamo bisogno della dimensione utopica senza la quale nessun vero cambiamento è possibile. L'immaginazione e la passione del cambiamento che mettono in questione il dato per un mondo altro aprono realmente alla possibilità dell'incontro.
10. Non trasformiamo l'incontro con l'altro in bene assoluto, ideale di vita. Non idealizziamo l'altro attribuendogli forzatamente la parte del buono e del migliore che non sempre ha. Dobbiamo interrogare il nostro desiderio di incontro. L'altro non sempre è bello.