Rivista Anarchica Online
Incontro e dialogo
di Filippo Trasatti
Nel corso delle vacanze pasquali si è tenuto ad Agape, un centro ecumenico valdese, un seminario sul
tema
"L'incontro e il dialogo con l'altro". Vi ha partecipato il nostro collaboratore Filippo Trasatti.
Agape è un centro ecumenico valdese situato in val Germanasca a una
trentina di chilometri da Pinerolo. È una
delle vallate che ospitano una maggioranza valdese che ha dovuto molto lottare nella sua storia per conquistare
la libertà di culto, stretta tra le morse dello stato e della chiesa cattolica. In Italia i valdesi sono un'esigua
minoranza, circa trentamila, sparsi qua e là per il territorio nazionale, ma piuttosto compatta e molto
attiva.
Attenti da sempre a tener lontano i tentacoli dello stato dalla fede dei singoli, sostenitori di un solido
assemblearismo, aperti alla discussione con le diverse fedi religiose e con i non credenti, politicamente molto
progressisti, intensamente impegnati nel mondo degli esclusi, sono un esempio di minoranza attiva a cui
guardare con rispetto e interesse. Al centro di Agape si organizzano nel corso dell'anno seminari su varie
tematiche (vengono chiamati "campi"): politiche, economiche, culturali. Per la durata del seminario è
possibile
soggiornare al centro che ha una ricettività di circa 100 persone. Particolare attenzione in questi anni
è stata
dedicata ai temi dell'emigrazione, del terzo mondo e del femminismo. La prima difficoltà per me
non credente è stata quella di accostarmi a un centro di ispirazione religiosa, benché
molto distante da quelli a cui siamo abituati a pensare. Agape infatti ha sempre avuto come scopo quello di far
incontrare e confrontare credenti di varie fedi e non credenti prima di tutto per meglio capire i problemi
fondamentali e affrontarli da prospettive differenti. Vi spira un vento di libertà che è difficile
sentire altrove,
anche in ambiti che dovrebbero principalmente caratterizzarsi per questo clima. Negli anni scorsi in cui sono
stato ospite del centro ho sempre avuto la stessa sensazione e credo di non essere l'unico a provarla. Il
seminario tenutosi nel corso delle vacanze pasquali di quest'anno aveva come tema : l'incontro e il dialogo
con l'altro. Sono intervenuti un rappresentante della comunità senegalese di Torino che ha svolto
insieme ad
altri compagni una ricerca sulla condizione degli immigrati a Torino; una pastora luterana finlandese che ha
raccontato le difficoltà di integrazione delle donne finlandesi in Italia (diverse migliaia) e infine pastore
Sergio
Ribet, che per anni è stato responsabile del centro di Agape. Di tutte le questioni poste nel corso del
campo,
negli interventi dei relatori e nelle discussioni dei gruppi, voglio soffermarmi a riflettere sull'intervento di Sergio
Ribet, molto stimolante e decisamente controcorrente di questi tempi. Quest'anno il cinquecentenario della
conquista dell'America ha dato la stura a una serie di affermazioni di
principio sulla necessità e sulla desiderabilità di una società multiculturale. Ma quando
si abbandoni la scelta
di campo, contro tutti i nuovi e vecchi razzismi, e si rifletta sui modi di questa integrazione non si può
evitare
di incontrare una serie di difficili problemi. Innanzitutto proviamo a chiederci come avviene l'integrazione tra
le culture. Qui, al di là delle semplificazioni, si aprono una serie di complessi problemi: che cosa
costituisce
l'identità di una cultura? Dove finisce una cultura e ne inizia un'altra? Con quali parametri si
confrontano culture
diverse? Anche se proviamo a scendere di qualche gradino e confrontarci con un ambito specifico della
cultura i
problemi rimangono. Prendiamo l'esempio dell'alimentazione. Il modo di procurarsi, conservare e preparare il
cibo costituisce un elemento importante della cultura materiale di una certa società. Elementi della
cucina
d'oriente sono diventati abbastanza noti ad esempio in Italia e, pur non avendo sostituito l'alimentazione
tradizionale, entrano talvolta senza difficoltà a far parte della nostra alimentazione. Ogni cultura elabora
però
un sistema di divieti in base al quale ritaglia nell'insieme degli elementi commestibili due sottoinsiemi separati
molto nettamente: ciò che si può e ciò che non si può mangiare. Nessuno di
noi, credo, entrerebbe mai in un
ristorante che esponesse in vetrina un menù che comprendesse tra le carni i nostri cari, adorati animali
domestici. Vediamolo dal punto di osservazione di un musulmano. Gli italiani non mangiano carne di gatto
stufata, ma ritengono assurdo il divieto per i musulmani di mangiare carne di maiale. Che cosa sta sui due piatti
della bilancia? Da una parte l'affetto per gli animali, dall'altra la fede religiosa. Quale dei due pesa di
più?
Poniamo che in uno stesso paese, come già accade da tempo, convivano musulmani e cristiani, ognuno
con le
proprie prescrizioni alimentari e che non si disturbino reciprocamente. E' un caso questo di integrazione
culturale? Direi di no; è piuttosto una situazione di convivenza ma nello sviluppo separato. Un altro
esempio. Recentemente in Svizzera è stata approvata una legge per cui è vietato uccidere gli
animali
al macello facendoli soffrire: chi sarebbe contrario a questa legge estremamente civile? Gli ebrei, tra gli altri,
che consumano solo carne kasher cioè pura, dopo che l'animale vivo è stato lasciato
dissanguare. Che cosa è
successo in questo caso? La cultura dominante ha vinto e ha creato una legge che la rinforza; la cultura
minoritaria, in questo caso gli ebrei, è stata costretta a cedere, per quanto riguarda le leggi dello stato,
e ricorre
all'importazione. E' solo un esempio certo di non fondamentale importanza si dirà ma che mostra
già una prima difficoltà, che
può essere formulata cosi in termini astratti: a quale autorità superiore ci rivolgiamo per tenere
insieme o al
limite fondere sincretisticamente due culture le cui proibizioni e prescrizioni fondamentali non coincidono?
Assimilazione e ghettizzazione Vogliamo un esempio molto più
vicino e tangibile all'interno del mondo occidentale, così civilizzato e aperto
al diverso? Prendiamo il caso dell'omosessualità. Tollerata in Italia, la relazione tra persone adulte e
consenzienti dello stesso sesso è proibita in Inghilterra fino a 21anni e in alcuni stati degli Usa è
tuttora
perseguibile penalmente. Non parliamo poi dei paesi islamici in cui, a fronte di una pratica omosessuale diffusa,
la religione impone la condanna - in certi casi a morte - degli omosessuali scoperti. Ecco dunque qualcosa,
si potrebbe dire, che unisce, pur nelle differenze, alcuni paesi occidentali e arabi
normalmente considerati molto distanti culturalmente. Ma che cosa li unisce in realtà? La repressione
in questo
caso di comportamenti considerati immorali. Gli omosessuali si sono molto spesso trovati di fronte al
dilemma tra l'assimilazione e la ghettizzazione.
Qualcosa di simile è accaduto a certi settori del mondo femminista. Così pure sarebbe
interessante osservare come l'assimilazionismo economico si modelli su culture estremamente
diverse tra loro, quali quella del Giappone e degli Usa. Gli esempi si potrebbero moltiplicare, ma nella loro
varietà stanno a mostrare che molto spesso dietro a ciò che chiamiamo integrazione si celano
l'assimilazione,
uno sviluppo separato oppure una silenziosa e inavvertita sopraffazione. Tutto ciò evidentemente
non sta a significare che il multiculturalismo e l'integrazione non siano mete prioritarie
da perseguire per chi, ancora, ha in qualche modo a cuore l'ideale di fratellanza universale. È importante
però
non illudersi che le soluzioni siano a portata di mano e anche comprendere che nell'incontro non c'è
soltanto
la dimensione della scoperta e dell'armonia, ma anche quella del conflitto. Una delle sfide che il relatore
proponeva era quella di elaborare insieme, nei gruppi di lavoro e individualmente, un "decalogo per incontrare
l'altro".
Il decalogo per incontrare l'altro Nel corso del seminario non c'è
stato neppure il tempo sufficiente per discutere questa proposta. Mi è però
sembrato interessante riflettere su questa tematica e raccogliere la sfida. Sono emerse alcune tesi sull'incontro
con l'altro che propongo qui di seguito senza nessuna organicità né pretesa di completezza, utili
spero per
qualcuno come spunti di riflessione. 1. Nell'incontro con il culturalmente altro
o col diverso il primo passo è la conoscenza, passo assai difficile
come testimonia il travaglio di molti etnologi e antropologi alle prese con culture radicalmente diverse dalla
nostra. La cosa è meno facile di quel che sembra anche per la nostra società ad alto tasso di
conoscenze diffuse.
Un esempio interessante e al tempo stesso tragico ce l'ha offerto la guerra del golfo. Si potevano leggere sui
giornali e sentire dalla gente giudizi sull'Islam basati su alcuni pregiudizi molto diffusi, ma di certo non su
un'approfondita conoscenza. E' che a dispetto da quanto si dice, anche ai cosiddetti intellettuali, mettersi in
questa dimensione di apertura e di studio costa molta fatica. E, allora, è meglio masticare qualcosa di
preconfezionato che fare un lavoro di prima mano. Comunque, anche imboccando la via più onesta della
ricerca
e della conoscenza, restano enormi difficoltà di comprensione dovuti agli schemi mentali e culturali
all'interno
dei quali ci muoviamo senza esserne consapevoli. Non tutto è traducibile all'interno del nostro sistema
concettuale. 2. La conoscenza non va pensata uni-direzionalmente in questo caso:
non abbiamo a che fare con un oggetto,
ma con persone vive e con culture che hanno magari una storia di millenni. Dovremmo concepirla come un
processo bidirezionale di interazione: si conosce l'altro e ci si fa conoscere dall'altro; normalmente si parte
invece dal postulato implicito dell'unidirezionalità che ci pone in una posizione di sicurezza e di
superiorità. Si
tratta dunque non di un conoscere per accrescere il potere sull'altro, ma piuttosto di un comprendere che ci
coinvolge direttamente nel processo. 3. Per farsi conoscere, per mostrare la
propria identità bisogna averla ben elaborata. Meglio sarebbe parlare di
identità al plurale: culturale, psicologica, di gruppo, politica. L'identità inoltre muta col tempo.
La riflessione
sui propri percorsi di cambiamento può aiutarci a comprendere come accettiamo e incorporiamo cose
diverse,
che prima non ci appartenevano, nella nostra identità complessa. Questo lavoro di continua
ri-definizione alla
propria identità è comunque fondamentale se non si vuole che la paura di perderla abbia la
meglio. 4. In un dialogo reale con l'altro non si può non correre il rischio
del cambiamento. Tanto più forte è la paura
di cambiare, tanto maggiore sarà la rigidità e 1'opposizione conflittuale all'altro. Eppure per
quanto ben sia
definita e salda la propria identità, cambiare non è facile. 5. Nel
processo di scambio e incontro bisogna tener in conto e far emergere la propria paura dell'incontro,
esserne consapevoli, accettarla come un limite umano che può in certi casi, diventare una forza.
6. Ci sono gradi diversi di alterità; si preferisce spesso pensare con la
categoria dell'opposizione anche quando
sarebbe possibile anche concepire una gamma di gradazioni da un punto all'altro. Inoltre bisogna tener sempre
presente la complessità dell'intreccio su piani interdipendenti di specifiche differenze. Per far un
esempio, un
senegalese non è soltanto appartenente a una razza e a una cultura diversa dalla mia, ma appartiene a
una data
categoria sociale ed è di sesso maschile. L'errore è spesso quello di assolutizzare differenze che
invece sono
specifiche e di vederne una sola dove ve ne sono molte. 7. E' innegabile che, pur
partiti dal dialogo, si possa giungere senza predeterminazione al conflitto, di opinioni,
di interessi, di valori, di potere. Si arriva al punto in cui le differenze da risorse e ricchezze diventano assoluti
da contrapporre e si manifestano come conflitti. Spesso accade nelle coppie che i conflitti cedano il posto a
un'identità duale, invero fittizia, ma certamente più rassicurante del conflitto. Ciò che
più importa però sono i
modi del conflitto e le strade per la risoluzione. E' questa la strada da percorrere per la quale siamo
culturalmente poco attrezzati. Forse sono da guardare con attenzione la strada della diplomazia e quella della
retorica (nel senso di arte dell'argomentazione): come si risolve un conflitto tra due stati, dopo che per anni ci
si è trascinati in guerre sanguinose e non risolutive? Come si arriva a concordare su alcuni punti dopo
una
discussione approfondita, quando all'inizio sembrava che avessimo ben poco in comune? 8.
Mi sembra che nella nostra valigia diplomatica due "strumenti" siano di inestimabile valore:
l'ironia e la
memoria storica. Entrambi ci aiutano a vivere e vedere con maggiore flessibilità e profondità
prendendo le
distanze dal ruolo e dallo status quo, mettendo in luce similitudine e differenze che a prima vista non
scorgeremmo. 9. Abbiamo bisogno della dimensione utopica senza la quale
nessun vero cambiamento è possibile.
L'immaginazione e la passione del cambiamento che mettono in questione il dato per un mondo altro aprono
realmente alla possibilità dell'incontro. 10. Non trasformiamo l'incontro
con l'altro in bene assoluto, ideale di vita. Non idealizziamo l'altro
attribuendogli forzatamente la parte del buono e del migliore che non sempre ha. Dobbiamo interrogare il nostro
desiderio di incontro. L'altro non sempre è bello.
|