Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 22 nr. 192
giugno 1992


Rivista Anarchica Online

A proposito di pena di morte
di M. Matteo / R. Gimmi

Prendendo spunto dalle ultime esecuzioni negli Stati Uniti, due nostri collaboratori affrontano anche altre tematiche connesse

Segno di sconfitta

Sei lunghi minuti di agonia prima che il condannato, cui era stata fatta l'iniezione letale, cessasse di vivere. E prima di quegli ultimi, estremi istanti, giorni, mesi, talora anni d'attesa d'una morte già annunciata. Con frequenza spaventosa si succedono le esecuzioni nelle prigioni californiane e dal cuore dell'impero gli echi, terrificanti, giungono sino a noi, animando discussioni in cui il rigore dell'argomentazione razionale spesso cede il passo a toni emozionalmente forti.
Nonostante la gran varietà di posizioni e giustificazioni, il ragionamento dei sostenitori della pena di morte finisce con il ruotare intorno a due grandi nuclei ideali: giustizia e sicurezza sociale. Il primo è di natura etica, il secondo una qualità sociale.
Diversi per quanto non incompatibili, l'uno e l'altro pretendono d'incarnare il fondamento di una sfera collettiva che nega e supera l'individuo. Chi pensa che la pena di morte sia l'inevitabile corollario di una società giusta sempre si fa portavoce di una qualche etica dalle pretese universali. Poco importa se garante di un tale universo morale sia un'istanza trascendente od una più laica riflessione sulla natura umana e i suoi attributi. Solo così lo stato, ponendosi idealmente supra partes, può permettersi di incarnare una tale etica, realizzando la giustizia. Lo stato etico è pervaso da un'aura di sacralità che gli consente di superare l'orrendo paradosso pur cui l'omicidio è al contempo crimine mostruoso e atto supremo di giustizia. L'assassino e il boia sono l'uno l'immagine specularmente rovesciata dell'altro: emblemi di una giustizia in cui il coltello del carnefice fa capolino dietro le pieghe della toga del giudice.
Diversa è la posizione di coloro che considerano la pena di morte una garanzia di maggiore sicurezza. Per costoro perno dell'agire sociale non è l'etica ma la paura: la paura della società verso chi trasgredisce le regole ed il timore della punizione per i delinquenti. L'equilibrio sociale come equilibrio della paura: lo stato forte a difesa della tranquillità dei cittadini. Nessuna importanza ha per costoro l'ampiamente comprovata inefficacia della pena di morte sul piano preventivo, poiché solo una punizione terrificante pare argine sufficiente non tanto al crimine quanto al proprio timore. Non si spiegherebbe altrimenti la ferocia di certi linciaggi in cui pacifici ed inoffensivi cittadini si trasformano in belve. Quale molla più potente della possibilità di sentirsi per una volta gagliardi ed impavidi?
Ad ogni modo sostenitori dello stato etico e fautori dello stato forte finiscono, se non altro sul piano pragmatico, con il trovarsi facilmente d'accordo. Il problema diviene assai più difficile per chi si pone dal punto di vista della libertà, individuando nello stato un ostacolo e non un garante dell'etica, una fonte di insicurezza e disordine, non un elemento regolatore. Per chi insomma vede l'assetto sociale come frutto delle decisioni di singoli per i singoli, non come istanza volta a negare l'individuo nella società o in un'etica totalizzante.
Una regola peraltro, per quanto liberamente determinata, per quanto ispirata a criteri libertari (1) cessa di essere tale se non impegna coloro che l'hanno sottoscritta. Ne deriva che anche una società diversa dall'attuale, una società sostanzialmente autogestita non può restare indifferente alla violazione, specie se grave e ripetuta, delle proprie norme. Il problema delle sanzioni deve essere necessariamente affrontato. Accade così che la questione della pena di morte assuma rilievo anche per i libertari e non vale servirsi dell'armamentario, pur non disprezzabile, del garantismo liberale per superare le difficoltà di questo discorso. Certo, rispetto ad altre forme di sanzione la morte appare irreversibile ed insieme poco efficace sul piano della prevenzione, tuttavia questi motivi per quanto convincenti non mi sembrano decisivi, poiché risulta inaccettabile il ricorso ad argomentazioni meramente tecniche.
Riflettere sulle sanzioni e ancor più se la sanzione su cui si punta l'occhio è la morte rimanda necessariamente al tema della violenza. In merito mi pare a tutt'oggi insuperata la lezione di Malatesta, che, pur ricusando ogni forma di violenza perché illibertaria, preferisce alla scelta non-violenta quella antiviolenta. Egli rifiuta di collocarsi sia tra coloro che pur di veder trionfare il proprio punto di vista son disposti alle peggiori nefandezze, sia tra chi per timore di sporcarsi le mani finisce con il consentire ogni crimine.
Difficile tuttavia trarre da ciò indicazioni precise sulla possibile liceità della pena di morte. Indubbiamente forte è la tentazione di asserire con decisione che la morte legale è un'infame prerogativa degli stati, estranea alle concezioni ed alla sensibilità libertarie. Ma come conciliare ciò con i moti di spontanea approvazione che accompagnano il gesto di un Gaetano Bresci, "giustiziere" di Umberto I, responsabile del massacro di centinaia di proletari inermi sulle piazze di Milano? Ebbene quel che mantiene il gesto di Bresci all'interno di una concezione antiviolenta, difensiva, è la sostanziale mancanza di alternative, l'impossibilità ad agire altrimenti. L'assassinio, la "pena di morte" quale estrema ratio, da evitarsi quindi se vi siano altre vie praticabili. Ma "l'estrema ratio" non è certo un criterio generalizzabile poiché amplissimi appaiono la possibilità d'errore ed il margine d'arbitrio. E' l'insuperata difficoltà, la perenne contraddizione, il rischio incombente di una libertà che volendosi difendere dai propri negatori rischia di smarrire il proprio senso profondo. Uccidere per la libertà è sempre uccidere uno po' la libertà. Affinché dunque l'aspirazione alla libertà non divenga progetto totalizzante, vacuo principio cui tributare omaggi, occorre che la sanzione, per quanto necessaria, non sia regola ma eccezione. Un'eccezione dolorosa per una società libertaria, non vittoria, ma sintomo di malessere, segno di sconfitta.

Maria Matteo
( questo articolo appare anche sul giornale anarchico torinese Zarabazà)

1) Non paia inutile ripetizione, poiché le modalità decisionali, non potendo né dovendo predeterminare il contenuto delle singole scelte non hanno neppure facoltà di garantirne la coerenza libertaria.

Le parole di Malatesta

Le recenti esecuzioni capitali negli Stati Uniti di Roger Coleman (in Virginia) considerato innocente e soprattutto di Robert Harris nella camera a gas del carcere californiano di San Quintino, dopo dodici minuti di agonia, hanno riaperto il dibattito pro e contro la pena di morte.
Il dibattito e la cronaca sui giornali è scattata probabilmente perché in California era dal 1967 che non venivano più applicate pene capitali. L'esecuzione, invece, avvenuta in Texas con un'iniezione a Billy Wayne Whaite, morto dopo quaranta minuti di sofferenza, è passata quasi inosservata. Il Texas ha il primato nella graduatoria delle esecuzioni in USA e forse ha influito anche il fatto che Robert era un bianco, mentre Billy era nero e in più ritardato. Forse non è un caso che in USA il 40% dei condannati a morte sono neri, mentre la loro percentuale etnica non supera il 12%.
Non sono mancati i sondaggi che anche da noi vedono in aumento il partito del patibolo (40%), che già nel 1981 aveva trovato consensi su iniziativa di Almirante, che con una petizione chiedeva l'applicazione del codice militare di guerra (pena di morte compresa) contro il terrorismo e i sequestri di persona.
Ho cercato di riflettere, di capire la mia avversione e l'orrore a questo omicidio legale o vendetta di Stato e mi sono accorto di avere dei punti di domanda emotivi alle mie argomentazioni razionali. La mia posizione abolizionista, la mia avversione alle esecuzioni di Stato sono certe. Basta leggere la cronaca per condannarne la freddezza, la crudeltà e il sadismo di una tortura non solo fisica ma anche psicologica fatta di rinvii, attese, speranze protratte nel tempo. Basta pensare alle fucilazioni "progressive" che avvenivano in Nigeria; al dissanguamento dei condannati in Iraq durante la guerra con l'Iran, dove il sangue degli oppositori politici, dei disertori, dei dissidenti delle etnie curde e turcomanne, veniva usato per le trasfusioni ai feriti di guerra; oppure basta pensare ad alcuni paesi Islamici dove l'adulterio della donna è punito con la lapidazione e in fin di vita vengono uccise a colpi di badile sulla testa. Basta ricordare alcune esecuzioni eclatanti avvenute in USA, come il caso Tafero, che morì bruciato a causa di un "corto circuito" della sedia elettrica difettosa; o al caso Landry, a cui il tubo che portava il veleno nel braccio si era staccato dall'ago causa la pressione superiore a quella che può essere sopportata dalle vene.
I punti di domanda emotivi nascono probabilmente dall'animo del "giustiziere". Di fronte all'uccisione di un bambino, al delitto dopo uno stupro, all'assassinio di un ostaggio, al compimento di una strage, quel "giustiziere" che si nasconde in ciascuno di noi prende spesso il sopravvento. Confesso di non provare orrore né pietà pensando alla morte di Calabresi, o all'esecuzione di Mussolini, o a tanti altri carnefici del secolo nazi-stalinista che hanno edificato l'ordine sul terrore; e tanto meno sarei comprensivo di fronte a quel primario che pur sapendo che il sangue per le trasfusioni era infetto da virus AIDS ne autorizzava l'uso, o al grande trafficante di droga spacciatore di morte. Penso che dando retta alle emozioni e alle passioni il "giustiziere" sarebbe altrettanto crudele quanto il suo carnefice.
Qui nascono i problemi, perché anche nella nostra storia alcuni anarchici hanno emesso condanne a morte, giustiziando re e tiranni. La rabbia, la vendetta, l'odio hanno fatto di alcuni militanti degli "spietati esecutori", proprio come il boia, anche se le motivazioni sono naturalmente diverse. Avendo di fronte il nostro carnefice e persecutore, o il delinquente incallito, quanti di noi non lo condannerebbero a morte? Di fronte a un novello Hitler o al "mostro del Don" (in URSS ha compiuto 53 omicidi con sevizie), quanto riuscirebbero a controllare le proprie reazioni emotive?
La scelta di essere contro la pena di morte è assoluta o è solo perché è realizzata dal nostro nemico giurato lo STATO?
La condanna a morte decisa privatamente e individualmente è giustificabile? Le fucilazioni da parte di alcuni contro i fascisti dopo la Liberazione sono diverse dalla ghigliottina di Pio IX, che nel 1870 mandò a morte due condannati per paura che l'arrivo dei piemontesi glieli sottraesse?
Penso di non aggiungere nulla di nuovo alla riflessione sul tema, spero solo di non cadere nell'ideologismo dei ragionamenti a priori o nel semplicismo di parte. Ora cercherò di mettere in evidenza i pro e i contro.
Le argomentazioni dei fautori della pena capitale si basano su di un animo conservatore amante dell'ordine, della punizione implacabile, dello Stato forte, della giustizia come vendetta. Si basano sull'esemplarità della pena capace di porre freno ai delitti. Si basano sulle regole spietate della guerra, guerra contro il crimine, che ne può giustificare la richiesta. Una richiesta che è, anche, segno di sfiducia nelle istituzioni considerate incapaci di difendere il cittadino che naturalmente chiede leggi più severe. I forcaioli sostengono che la pena di morte è più umana dell'ergastolo perché il carcere può essere più duro della pena stessa. La morte può essere anche intesa come una pena di riabilitazione del colpevole, come espiazione e purificazione dell'anima. Ci sono argomentazioni che la sostengono per i responsabili di gravissimi reati e solo in casi eccezionali come ad esempio per i sequestratori di persona e per i trafficanti di droga. Sui quali potrebbe agire da deterrente in quanto gli stessi agiscono con l'incentivo dei soldi, del benessere, della bella vita. Scarso effetto avrebbe invece nei confronti dei mafiosi o dei terroristi, i quali mossi dall'onore e dall'ideologia, danno per scontato e mettono in conto la morte. Lo stesso Cesare Beccaria non ne voleva l'abolizione definitiva ma la considerava valida, di "utilità sociale", solo per i reati politici, ossia quando era in pericolo la sicurezza della Nazione, in caso di rivoluzione e cospirazione contro lo Stato.
Le argomentazioni contrarie, invece, fanno leva su un atteggiamento progressista, dove la vita è considerata un valore supremo basato sul rispetto verso il prossimo, di speranza che nessuno possa essere così malvagio da non pentirsi e dall'orgoglio di essere abbastanza migliore di lui da non ucciderlo. La condanna a morte è inutile come prevenzione, non c'è al mondo un solo fattore che possa dimostrare che riduce il numero o la gravità dei crimini. Nessuno penserà mai, al momento di compiere un delitto, che può essere punito con la morte. Uno non pensa alle conseguenze finché non viene preso. Gli abolizionisti sostengono la necessità di migliorare la Società perché si è convinti che sono le condizioni sociali a diminuire il crimine, per cui le pene devono sempre tendere al recupero del condannato. Lo Stato che risponde con la violenza alla violenza, eliminando il dissenso e le minoranze, cura i propri mali eliminando i sintomi anziché sconfiggerne la causa. Sostengono l'errore umano, i tribunali sono composti da uomini che possono sbagliare. La storia è piena di errori giudiziari, di condanne di innocenti e l'esecuzione della pena capitale è una sanzione che non ha rimedio. Il criminale deve essere messo in condizione di non nuocere più, ma deve essere protetto dallo spirito di vendetta di chi ne è stato colpito. Non è importante la gravità della pena ma la certezza. L' argomentazione abolizionista religiosa sostiene che nessuno ha il diritto di disporre della vita umana, perché essa non appartiene né alla società né agli individui. La vita è un dono di Dio, sacra e inviolabile, Dio non vuole la morte del peccatore ma che si converta e che viva. Personalmente mi riconosco in gran parte delle argomentazioni abolizioniste perché presuppongono un atteggiamento di prevenzione e convinzione in netto contrasto con quello di repressione e costrizione. Ritengo pertanto di non dovermi abbandonare agli istinti emotivi ma di farmi guidare dalla ragione dei sentimenti. Consapevole che le statistiche convincono solo i ragionevoli che sono già convinti, ritengo che la pena di morte dia un giudizio di colpevolezza su di un atto particolare e che come tale non possa diventare un giudizio sull'uomo in generale. Una persona condannata dopo anni non è più la stessa del delitto. Nessuno è in grado di prevedere i comportamenti umani futuri, pertanto la pena non potrà mai essere preveggente e quindi non diventa difesa sociale ma soltanto vendetta. Penso che le parole di Malatesta siano ancora valide: "Vi sono - pochi per fortuna, ma vi sono certamente - degli uomini, nati o diventati dei mostri morali, sanguinari e sadici, di cui non sapremmo compiangere la morte. Quando questi disgraziati fossero un pericolo continuo per tutti e non vi fosse altro modo di difendersi che l'ucciderli, si potrebbe anche ammettere la pena di morte. Ma il guaio è che per applicare la pena di morte ci vuole il boia. Ora il boia è, o diventa un mostro; e, mostro per mostro, è meglio lasciar vivere quelli che vi sono , anziché crearne degli altri...".

Roberto Gimmi