Rivista Anarchica Online
A proposito di pena di morte
di M. Matteo / R. Gimmi
Prendendo spunto dalle ultime esecuzioni negli Stati Uniti, due nostri collaboratori affrontano anche altre
tematiche connesse
Segno di sconfitta
Sei lunghi minuti di agonia prima che il condannato, cui era stata fatta l'iniezione letale, cessasse di vivere.
E
prima di quegli ultimi, estremi istanti, giorni, mesi, talora anni d'attesa d'una morte già annunciata. Con
frequenza spaventosa si succedono le esecuzioni nelle prigioni californiane e dal cuore dell'impero gli echi,
terrificanti, giungono sino a noi, animando discussioni in cui il rigore dell'argomentazione razionale spesso cede
il passo a toni emozionalmente forti. Nonostante la gran varietà di posizioni e giustificazioni, il
ragionamento dei sostenitori della pena di morte
finisce con il ruotare intorno a due grandi nuclei ideali: giustizia e sicurezza sociale. Il primo è di natura
etica,
il secondo una qualità sociale. Diversi per quanto non incompatibili, l'uno e l'altro pretendono
d'incarnare il fondamento di una sfera collettiva
che nega e supera l'individuo. Chi pensa che la pena di morte sia l'inevitabile corollario di una società
giusta
sempre si fa portavoce di una qualche etica dalle pretese universali. Poco importa se garante di un tale universo
morale sia un'istanza trascendente od una più laica riflessione sulla natura umana e i suoi attributi. Solo
così lo
stato, ponendosi idealmente supra partes, può permettersi di incarnare una tale etica, realizzando la
giustizia.
Lo stato etico è pervaso da un'aura di sacralità che gli consente di superare l'orrendo paradosso
pur cui
l'omicidio è al contempo crimine mostruoso e atto supremo di giustizia. L'assassino e il boia sono l'uno
l'immagine specularmente rovesciata dell'altro: emblemi di una giustizia in cui il coltello del carnefice fa
capolino dietro le pieghe della toga del giudice. Diversa è la posizione di coloro che considerano
la pena di morte una garanzia di maggiore sicurezza. Per
costoro perno dell'agire sociale non è l'etica ma la paura: la paura della società verso chi
trasgredisce le regole
ed il timore della punizione per i delinquenti. L'equilibrio sociale come equilibrio della paura: lo stato forte a
difesa della tranquillità dei cittadini. Nessuna importanza ha per costoro l'ampiamente comprovata
inefficacia
della pena di morte sul piano preventivo, poiché solo una punizione terrificante pare argine sufficiente
non tanto
al crimine quanto al proprio timore. Non si spiegherebbe altrimenti la ferocia di certi linciaggi in cui pacifici
ed inoffensivi cittadini si trasformano in belve. Quale molla più potente della possibilità di
sentirsi per una volta
gagliardi ed impavidi? Ad ogni modo sostenitori dello stato etico e fautori dello stato forte finiscono, se
non altro sul piano pragmatico,
con il trovarsi facilmente d'accordo. Il problema diviene assai più difficile per chi si pone dal punto di
vista della
libertà, individuando nello stato un ostacolo e non un garante dell'etica, una fonte di insicurezza e
disordine,
non un elemento regolatore. Per chi insomma vede l'assetto sociale come frutto delle decisioni di singoli per
i singoli, non come istanza volta a negare l'individuo nella società o in un'etica totalizzante. Una
regola peraltro, per quanto liberamente determinata, per quanto ispirata a criteri libertari (1) cessa di essere
tale se non impegna coloro che l'hanno sottoscritta. Ne deriva che anche una società diversa dall'attuale,
una
società sostanzialmente autogestita non può restare indifferente alla violazione, specie se grave
e ripetuta, delle
proprie norme. Il problema delle sanzioni deve essere necessariamente affrontato. Accade così che la
questione
della pena di morte assuma rilievo anche per i libertari e non vale servirsi dell'armamentario, pur non
disprezzabile, del garantismo liberale per superare le difficoltà di questo discorso. Certo, rispetto ad
altre forme
di sanzione la morte appare irreversibile ed insieme poco efficace sul piano della prevenzione, tuttavia questi
motivi per quanto convincenti non mi sembrano decisivi, poiché risulta inaccettabile il ricorso ad
argomentazioni meramente tecniche. Riflettere sulle sanzioni e ancor più se la sanzione su cui si
punta l'occhio è la morte rimanda necessariamente
al tema della violenza. In merito mi pare a tutt'oggi insuperata la lezione di Malatesta, che, pur ricusando ogni
forma di violenza perché illibertaria, preferisce alla scelta non-violenta quella antiviolenta. Egli rifiuta
di
collocarsi sia tra coloro che pur di veder trionfare il proprio punto di vista son disposti alle peggiori nefandezze,
sia tra chi per timore di sporcarsi le mani finisce con il consentire ogni crimine. Difficile tuttavia trarre da
ciò indicazioni precise sulla possibile liceità della pena di morte. Indubbiamente forte
è la tentazione di asserire con decisione che la morte legale è un'infame prerogativa degli stati,
estranea alle
concezioni ed alla sensibilità libertarie. Ma come conciliare ciò con i moti di spontanea
approvazione che
accompagnano il gesto di un Gaetano Bresci, "giustiziere" di Umberto I, responsabile del massacro di centinaia
di proletari inermi sulle piazze di Milano? Ebbene quel che mantiene il gesto di Bresci all'interno di una
concezione antiviolenta, difensiva, è la sostanziale mancanza di alternative, l'impossibilità ad
agire altrimenti.
L'assassinio, la "pena di morte" quale estrema ratio, da evitarsi quindi se vi siano altre vie praticabili. Ma
"l'estrema ratio" non è certo un criterio generalizzabile poiché amplissimi appaiono la
possibilità d'errore ed il
margine d'arbitrio. E' l'insuperata difficoltà, la perenne contraddizione, il rischio incombente di una
libertà che
volendosi difendere dai propri negatori rischia di smarrire il proprio senso profondo. Uccidere per la
libertà è
sempre uccidere uno po' la libertà. Affinché dunque l'aspirazione alla libertà non
divenga progetto totalizzante,
vacuo principio cui tributare omaggi, occorre che la sanzione, per quanto necessaria, non sia regola ma
eccezione. Un'eccezione dolorosa per una società libertaria, non vittoria, ma sintomo di malessere,
segno di
sconfitta.
Maria Matteo ( questo articolo appare anche sul giornale anarchico torinese
Zarabazà)
1) Non paia inutile ripetizione, poiché le modalità decisionali, non
potendo né dovendo predeterminare il
contenuto delle singole scelte non hanno neppure facoltà di garantirne la coerenza
libertaria.
Le parole di Malatesta
Le recenti esecuzioni capitali negli Stati Uniti di Roger Coleman (in Virginia) considerato innocente e
soprattutto di Robert Harris nella camera a gas del carcere californiano di San Quintino, dopo dodici minuti di
agonia, hanno riaperto il dibattito pro e contro la pena di morte. Il dibattito e la cronaca sui giornali
è scattata probabilmente perché in California era dal 1967 che non venivano
più applicate pene capitali. L'esecuzione, invece, avvenuta in Texas con un'iniezione a Billy Wayne
Whaite,
morto dopo quaranta minuti di sofferenza, è passata quasi inosservata. Il Texas ha il primato nella
graduatoria
delle esecuzioni in USA e forse ha influito anche il fatto che Robert era un bianco, mentre Billy era nero e in
più ritardato. Forse non è un caso che in USA il 40% dei condannati a morte sono neri, mentre
la loro
percentuale etnica non supera il 12%. Non sono mancati i sondaggi che anche da noi vedono in aumento
il partito del patibolo (40%), che già nel 1981
aveva trovato consensi su iniziativa di Almirante, che con una petizione chiedeva l'applicazione del codice
militare di guerra (pena di morte compresa) contro il terrorismo e i sequestri di persona. Ho cercato di
riflettere, di capire la mia avversione e l'orrore a questo omicidio legale o vendetta di Stato e mi
sono accorto di avere dei punti di domanda emotivi alle mie argomentazioni razionali. La mia posizione
abolizionista, la mia avversione alle esecuzioni di Stato sono certe. Basta leggere la cronaca per condannarne
la freddezza, la crudeltà e il sadismo di una tortura non solo fisica ma anche psicologica fatta di rinvii,
attese,
speranze protratte nel tempo. Basta pensare alle fucilazioni "progressive" che avvenivano in Nigeria; al
dissanguamento dei condannati in Iraq durante la guerra con l'Iran, dove il sangue degli oppositori politici, dei
disertori, dei dissidenti delle etnie curde e turcomanne, veniva usato per le trasfusioni ai feriti di guerra; oppure
basta pensare ad alcuni paesi Islamici dove l'adulterio della donna è punito con la lapidazione e in fin
di vita
vengono uccise a colpi di badile sulla testa. Basta ricordare alcune esecuzioni eclatanti avvenute in USA, come
il caso Tafero, che morì bruciato a causa di un "corto circuito" della sedia elettrica difettosa; o al caso
Landry,
a cui il tubo che portava il veleno nel braccio si era staccato dall'ago causa la pressione superiore a quella che
può essere sopportata dalle vene. I punti di domanda emotivi nascono probabilmente dall'animo
del "giustiziere". Di fronte all'uccisione di un
bambino, al delitto dopo uno stupro, all'assassinio di un ostaggio, al compimento di una strage, quel
"giustiziere" che si nasconde in ciascuno di noi prende spesso il sopravvento. Confesso di non provare orrore
né pietà pensando alla morte di Calabresi, o all'esecuzione di Mussolini, o a tanti altri carnefici
del secolo nazi-stalinista che hanno edificato l'ordine sul terrore; e tanto meno sarei comprensivo di fronte a quel
primario che
pur sapendo che il sangue per le trasfusioni era infetto da virus AIDS ne autorizzava l'uso, o al grande trafficante
di droga spacciatore di morte. Penso che dando retta alle emozioni e alle passioni il "giustiziere" sarebbe
altrettanto crudele quanto il suo carnefice. Qui nascono i problemi, perché anche nella nostra storia
alcuni anarchici hanno emesso condanne a morte,
giustiziando re e tiranni. La rabbia, la vendetta, l'odio hanno fatto di alcuni militanti degli "spietati esecutori",
proprio come il boia, anche se le motivazioni sono naturalmente diverse. Avendo di fronte il nostro carnefice
e persecutore, o il delinquente incallito, quanti di noi non lo condannerebbero a morte? Di fronte a un novello
Hitler o al "mostro del Don" (in URSS ha compiuto 53 omicidi con sevizie), quanto riuscirebbero a controllare
le proprie reazioni emotive? La scelta di essere contro la pena di morte è assoluta o è solo
perché è realizzata dal nostro nemico giurato lo
STATO? La condanna a morte decisa privatamente e individualmente è giustificabile? Le
fucilazioni da parte di alcuni
contro i fascisti dopo la Liberazione sono diverse dalla ghigliottina di Pio IX, che nel 1870 mandò a
morte due
condannati per paura che l'arrivo dei piemontesi glieli sottraesse? Penso di non aggiungere nulla di nuovo
alla riflessione sul tema, spero solo di non cadere nell'ideologismo dei
ragionamenti a priori o nel semplicismo di parte. Ora cercherò di mettere in evidenza i pro e i contro.
Le argomentazioni dei fautori della pena capitale si basano su di un animo conservatore amante dell'ordine,
della
punizione implacabile, dello Stato forte, della giustizia come vendetta. Si basano sull'esemplarità della
pena
capace di porre freno ai delitti. Si basano sulle regole spietate della guerra, guerra contro il crimine, che ne
può
giustificare la richiesta. Una richiesta che è, anche, segno di sfiducia nelle istituzioni considerate
incapaci di
difendere il cittadino che naturalmente chiede leggi più severe. I forcaioli sostengono che la pena di
morte è più
umana dell'ergastolo perché il carcere può essere più duro della pena stessa. La morte
può essere anche intesa
come una pena di riabilitazione del colpevole, come espiazione e purificazione dell'anima. Ci sono
argomentazioni che la sostengono per i responsabili di gravissimi reati e solo in casi eccezionali come ad
esempio per i sequestratori di persona e per i trafficanti di droga. Sui quali potrebbe agire da deterrente in
quanto gli stessi agiscono con l'incentivo dei soldi, del benessere, della bella vita. Scarso effetto avrebbe invece
nei confronti dei mafiosi o dei terroristi, i quali mossi dall'onore e dall'ideologia, danno per scontato e mettono
in conto la morte. Lo stesso Cesare Beccaria non ne voleva l'abolizione definitiva ma la considerava valida, di
"utilità sociale", solo per i reati politici, ossia quando era in pericolo la sicurezza della Nazione, in caso
di
rivoluzione e cospirazione contro lo Stato. Le argomentazioni contrarie, invece, fanno leva su un
atteggiamento progressista, dove la vita è considerata un
valore supremo basato sul rispetto verso il prossimo, di speranza che nessuno possa essere così
malvagio da non
pentirsi e dall'orgoglio di essere abbastanza migliore di lui da non ucciderlo. La condanna a morte è
inutile come
prevenzione, non c'è al mondo un solo fattore che possa dimostrare che riduce il numero o la
gravità dei crimini.
Nessuno penserà mai, al momento di compiere un delitto, che può essere punito con la morte.
Uno non pensa
alle conseguenze finché non viene preso. Gli abolizionisti sostengono la necessità di migliorare
la Società
perché si è convinti che sono le condizioni sociali a diminuire il crimine, per cui le pene devono
sempre tendere
al recupero del condannato. Lo Stato che risponde con la violenza alla violenza, eliminando il dissenso e le
minoranze, cura i propri mali eliminando i sintomi anziché sconfiggerne la causa. Sostengono l'errore
umano,
i tribunali sono composti da uomini che possono sbagliare. La storia è piena di errori giudiziari, di
condanne
di innocenti e l'esecuzione della pena capitale è una sanzione che non ha rimedio. Il criminale deve
essere messo
in condizione di non nuocere più, ma deve essere protetto dallo spirito di vendetta di chi ne è
stato colpito. Non
è importante la gravità della pena ma la certezza. L' argomentazione abolizionista religiosa
sostiene che nessuno
ha il diritto di disporre della vita umana, perché essa non appartiene né alla società
né agli individui. La vita è
un dono di Dio, sacra e inviolabile, Dio non vuole la morte del peccatore ma che si converta e che viva.
Personalmente mi riconosco in gran parte delle argomentazioni abolizioniste perché presuppongono un
atteggiamento di prevenzione e convinzione in netto contrasto con quello di repressione e costrizione. Ritengo
pertanto di non dovermi abbandonare agli istinti emotivi ma di farmi guidare dalla ragione dei sentimenti.
Consapevole che le statistiche convincono solo i ragionevoli che sono già convinti, ritengo che la pena
di morte
dia un giudizio di colpevolezza su di un atto particolare e che come tale non possa diventare un giudizio
sull'uomo in generale. Una persona condannata dopo anni non è più la stessa del delitto.
Nessuno è in grado di
prevedere i comportamenti umani futuri, pertanto la pena non potrà mai essere preveggente e quindi
non diventa
difesa sociale ma soltanto vendetta. Penso che le parole di Malatesta siano ancora valide: "Vi sono - pochi per
fortuna, ma vi sono certamente - degli uomini, nati o diventati dei mostri morali, sanguinari e sadici, di cui non
sapremmo compiangere la morte. Quando questi disgraziati fossero un pericolo continuo per tutti e non vi fosse
altro modo di difendersi che l'ucciderli, si potrebbe anche ammettere la pena di morte. Ma il guaio è
che per
applicare la pena di morte ci vuole il boia. Ora il boia è, o diventa un mostro; e, mostro per mostro,
è meglio
lasciar vivere quelli che vi sono , anziché crearne degli altri...".
Roberto Gimmi
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