Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 22 nr. 191
maggio 1992


Rivista Anarchica Online

Il nazionalismo come trappola
di Guy Konopnicki

Ogni volta che un movimento sembra delinearsi attorno a dei valori universali, ci troviamo rapidamente confrontati alla questione nazionale, al bisogno di affermazione di identità represse. Questo è ciò che certamente sta accadendo in URSS e nell'Europa dell'Est: per assurdo, la storia accelerata dalle rivoluzioni della fine del comunismo, ci riporta ai due secoli passati.
In un primo tempo, nella Polonia degli anni '80, ad esempio, l'aspirazione democratica e l'affermazione nazionale non sembravano per niente contraddittorie rispetto al nazionalismo polacco e alle sue relazioni con la religione e la storia. Oggi le cose sono cambiate: esiste una contraddizione apparente tra la modernizzazione democratica e l'ondata dei nazionalismi che si esprimono in URSS o in Jugoslavia. Ma ancora bisogna tentare di andare al di là della subitaneità delle cose, dell'espressione brutale di tal o tal altro movimento, ancora occorre tentare di non classificare questi movimenti, in funzione della simpatia che possono ispirare gli Armeni, della vergogna che proviamo dinnanzi ai Baltici o della repulsione suscitata da quei presunti barbari che sono gli Azeri e l'insieme dei mussulmani dell'URSS. Prodotto della storia, completamente dimenticati al centro di ciò che si potrebbe chiamare, con Orwell, l'Eurasia, questi popoli sorgono bruscamente nella storia. Il loro nazionalismo ci sembra terrificante.
Lo è rispetto a molte considerazioni. Ma in cosa sarebbe meno legittimo rispetto a quello dei Lituani e degli Armeni? O a quello dei Tedeschi che avevamo tranquillamente eliminato dalle riflessioni europee che si fondavano, senza dirlo, sulla perennità del muro.
Che questo piaccia o no, il post-comunismo, il post-guerra fredda, sono segnati dall'emergenza massiccia dei nazionalismi, come se si trattasse di un sostanziale ritorno del XIX secolo, rinviandoci tutte in una volta l'unità tedesca, i Balcani, il Caucaso... Lo schema al quale eravamo più o meno abituati si riduce in frammenti: sino a quel momento, potevamo senza troppe difficoltà rifiutare il nazionalismo delle potenze dominanti per ammettere, e in certi casi sostenere, quello delle minoranze e delle nazioni oppresse, liberi di scoprire un sistema infinito di scatole cinesi ogni volta che un antico paese colonizzato accedeva allo statuto di Stato-Nazione, opprimendo i suoi Berberi, i suoi Curdi, i suoi Bengalesi o i suoi Biafrani.
Questo metodo, quanto meno empirico, non può più funzionare. Ora, che sia o no legato a una questione religiosa, il nazionalismo conferma di essere la forma religiosa meglio condivisa al mondo. Lo si ritrova al centro dei tre tipi di domande politiche con le quali ci dobbiamo confrontare: quella del processo di affondamento del comunismo, quella dell'Europa e quella della Francia dove il meno che si possa dire è che una angoscia identitaria segna la vita politica; e io penso tanto alla persistenza di un nucleo di estrema destra che alla maniera in cui si può reagire a sinistra alla vista di un foulard.
Ci si può eventualmente riferire a un paradosso constatando la presenza universale dei nazionalismi... Il fatto che l'affermazione dei particolarismi e delle singolarità si appropria di forme, di linguaggi singolarmente uniformi. Anche se si ha ogni volta una lingua propria, una storia, una religione o le varianti locali di una religione, si ritrova la stessa cosa ovunque... E pertanto, è sempre una domanda di identità, di affermazione di una identità... Con, onnipresente, una confusione di termini, una confusione costante tra l'individuo e il gruppo.

Strana contraddizione
Una cosa è parlare di identità di una nazione. Il concetto è discutibile ma lo si può considerare come approccio della questione nazionale. Altra cosa è l'identificazione degli individui con la loro nazione reale o supposta, l'affermazione dell'appartenenza nazionale o anche regionale come fondatrice della personalità. In altre parole, l'individuo avrebbe espresso l'essenziale a se stesso dichiarando la sua nazionalità. Si capisce bene la confusione quando questa risponde al sentimento di annientamento individuale e collettivo prodotto dallo Stato totalitario. È abbastanza evidente in URSS, dove la maggioranza stessa, riallacciandosi con la pratica ortodossa, cerca una affermazione russa e sente come un fardello imposto la vocazione universalistica che il vecchio linguaggio della
propaganda politica dava al popolo russo visto come portatore della bandiera dell'internazionalismo. Ma questa confusione dell'individuale e del collettivo, della memoria ritrovata e dell'identificazione al gruppo è evidentemente totalitaria nel senso più classico del termine.
La questione dell'identità nazionale non può concepirsi che nel suo movimento. In ultima analisi è vissuta come rivendicazione, nel processo di accesso al riconoscimento o alla costituzione di uno Stato-Nazione. L'identificazione perde evidentemente la sua forza nel quadro di uno Stato Nazione costituito da lungo tempo, ripiegato sulle sue frontiere e che non abbia obiettivi di conquista. Ma in questo caso in cui il nazionalismo si conferma sorpassato nel senso in cui non produce alcuna prospettiva, dove non offre alcuna promessa d'avvenire, nessun immaginario sostitutivo viene a rimpiazzare il patriottismo. E' quel che sta accadendo in Francia dove l'internazionalismo non si è mai imposto, dove le strutture successive che l'hanno invocato, la SFIO come il PC, sono ritornati al discorso nazionale, in entrambi i casi dopo una decina di anni d'esistenza. I1 solo sogno oltre frontiera sarebbe stato il colonialismo. In quanto all'Europa non è che una litania, non esiste un immaginario europeo, né un messianismo europeo.
Meglio: gli intellettuali non si sono mai frequentati così poco in Europa...
Le relazioni più dirette sono con l'Est. Risultato, l'ideologia meglio strutturata in Francia, la più resistente, dà luogo al nazionalismo. È un po' disperante ma sarà così fin tanto che la struttura della rappresentazione sarà nazionale, fino a che imporrà il discorso. Esiste una strana contraddizione: anche se la cultura vissuta o consumata è da lungo tempo cosmopolita, se di fatto essa traduce un mondo urbano internazionale, anche se questo mondo è sempre più presente, in termini di comunicazione, è quasi impossibile eliminare il sentimento di appartenenza.

Sistema difensivo
Come è rivendicata oggi, l'identità nazionale è la versione soft, il prodotto di sostituzione delle vecchie tipologie razziali. Queste tipologie impregnano la letteratura popolare francese, ma non solo la letteratura popolare, dato che la si ritrova anche tra i dandy a partire da Paul Morand (1): luoghi comuni e profondamente radicati come quello dei tratti caratteriali inerenti una razza, l'ebreo, il tipo mediterraneo. Anche se non si è mai troppo lontani dalla definizione delle brune e delle bionde nel dizionario di Flaubert, questa caratterizzazione razziale ha sempre funzionato. Basta vedere a cosa risponde l'abate Grégoire in occasione del concorso di Metz (2).
Salvo che questa tipologia delle razze serviva ieri a denunciare le razze inferiori o le razze perverse e perniciose e che funziona diversamente oggi.
Ormai il criterio identificatorio si rivendica: il razzismo funziona come sistema difensivo.
Prima di denunciare e di attaccare l'altro gruppo, bisogna prima definire il proprio, stabilire i criteri di appartenenza. Ho ribaltato in maniera paradossale, insieme a Brice Couturier, una questione in realtà seria, affermando che non esisteva una questione ebraica ma una questione goy (3), che il problema dell'identità era quello dell'appartenenza a una maggioranza e non quello dell'appartenenza a una minoranza. Questo è quel che esprime Pamiat, caricatura dei nazionalismi maggioritari: in URSS si sa più o meno cosa significa essere armeno, lituano, si sanno distinguere le nazionalità minoritarie della cittadinanza sovietica, ma come essere russi, come distinguere il Russo dal Sovietico? Stessa questione, evidentemente, per il Francese di Francia, disperatamente francese, senza che il minimo segno allogeno venga a distinguere la sua discendenza. Il nazionalismo, da qualsiasi parte provenga, è reazionario nel senso letterale del termine: cerca di rispondere con l'affermazione identitaria, con il radicamento nella terra e nel passato, all'angoscia delle antiche nazioni egemoniche. Da questo punto di vista, la Francia e la Russia si assomigliano, questi due Stati-Nazione che hanno fondato un immaginario collettivo sulla missione storica che a partire dalle rivoluzioni, si erano auto-attribuite. E l'una e l'altra si risvegliano alla fine di un sogno, cercando invano una nuova identità, una purezza del loro essere che sarebbe anteriore all'universalismo di un messaggio al giorno d'oggi caduco.


(traduzione di Elena Petrassi
da La règle du jeu, n. 3, gennaio 1991)

1) Morand ha fatto una classificazione degli Orientali, dai Levantini ai Cinesi, dando come comune denominatore una furbizia che rende pericoloso ogni viaggio a est di Atene. Quanto agli ebrei, essi hanno la particolarità di pullulare in alcune città, specialmente a New York. L'Americano, infine è un bambinone un po' incapace di levarsi al di sopra del suolo, così che Paul Morand prediceva, qualche anno prima della guerra, che gli Stati Uniti non avrebbero mai avuto una aviazione militare.

2) Nel 1788, l'accademia di Metz coronò l'abate Grègoire per il suo saggio sulla rigenerazione fisica, morale e politica degli ebrei. In quest'opera, Grégoire risponde a diverse idee, affermando che le donne ebree non sono fatalmente ninfomani, pur avendo una natura generosa, e che contrariamente ai luoghi comuni, gli uomini ebrei non hanno le mestruazioni. Il testo risponde evidentemente anche alle affermazioni più classiche concernenti il denaro, la religione e l'Alleanza.

3) Riflessioni sulla questione goy, Luogo comune 1988.