rivista anarchica anno 21 nr. 187 dicembre 1991 - gennaio 1992
Rivista Anarchica Online
Per uscire dal silenzio
Ci si chiede
perplessi, disorientati, quasi storditi dal ginepraio di etnie,
popoli, nazionalità diverse, coinvolte nel pericoloso
conflitto iugoslavo, da che parte stare e si finisce per cadere
nell'impotenza di chi rinuncia a entrare nel merito della infernale
problematica dichiarandosi "né con l'una né con
l'altra parte" o di chi, volendosi disporre al di sopra delle
parti, si appella al rispetto del Diritto Internazionale fondato
sul principio dell'"autodeterminazione dei Popoli". A
nostro giudizio, l'una posizione vale l'altra, nel senso che in
nessun caso si prende davvero posizione dentro la sfera di
formidabili questioni poste dall'esplosione dell'attuale crisi
balcanica. Infatti non a caso spesso le due posizioni tendono a
coincidere convergendo sulla ricerca dell'unico traguardo che molti
ritengono auspicabile, quello del così detto "buon
governo mondiale" il solo che sarebbe in grado di assicurare
uno stato di pace giusto e duraturo. Un governo che fosse, appunto,
fuori e al di sopra delle varie, differenti identità,
e che proprio per questa ragione sapesse far valere e garantire
l'inviolabilità del Diritto all'autodeterminazione di ciascun
popolo. Ebbene, forse l'astrazione del principio su cui poggia la
volontà di dar vita ad un tipo di costruzione delle garanzie
internazionali, nella forma giuridico-politica del "Governo
Mondiale" dovrebbe essere tradotta su un piano di maggiore
concretezza storica, se si vuol capire di che cosa si disquisisce
"storicamente" quando ci si appella al Diritto di
autodeterminazione dei popoli. In altre parole sarebbe il
concetto indeterminato di "Popolo" che bisognerebbe
determinare prima ancora di mettersi a invocare la sua
"autodeterminazione". Crediamo sia giunto il momento di
rendere, per così dire, esplicita la fatale astrattezza della
categoria rappresentativa del concetto di "popolo", non
fosse altro per tentare di sottrarla alla sua stessa nefasta e
micidiale fatalità. E' un fatto curioso che in tutta la
storia conosciuta i "popoli" si siano sempre
autodeterminati, non per istituire nuove forme di vita e di
rapporti, ma per istituire entità nazionali e stati da cui
queste forme e questi rapporti sarebbero eventualmente dovuti
discendere. Quand'è che l'"autodeterminazione" di un popolo si fa processo
reale di
costituzione in identità indipendente, se non quando la
sua indipendenza incomincia ad essere agita, rivendicata e
rappresentata dalla formazione di uno stato nazionale? Nessuna
nazione moderna possiede una base "etnica" - strictu sensu
- e tuttavia essa abbisogna comunque di una comunità e della
rappresentazione di una comunità che si riconosca a priori
nell'istituzione statale, che la riconosca come propria in risposta
ad altri stati e circoscriva ad essa il suo orizzonte politico. Se i
lituani, i corsi, i baschi o i palestinesi sono costretti a vivere
entro rapporti e gerarchie inaccettabili, la premessa di ogni
superamento di questi rapporti e di queste gerarchie è
collocata esclusivamente nella costituzione dello Stato Nazionale,
prima e indipendentemente da ogni altro specifico contenuto. Dunque,
dall'esperienza d'una comunità che si auto-rappresenta nel
ruolo di "soggetto dell'autodeterminazione" ne consegue,
di regola, uno scopo inevitabilmente riposto nella costituzione
dello Stato Nazionale ovvero, se ne ricava sempre il medesimo
risultato, di generare, come scrive Etienne Balibar, "quell'effetto
di unità grazie al quale il popolo apparisce agli occhi di
tutti come un popolo, vale a dire come la base e l'origine
del potere politico". Insomma "il popolo produce se
stesso in permanenza come comunità nazionale". Prodotto
da quella forma di "comunità" che è la
Nazione il concetto di popolo si inscrive pertanto in un registro di
lettura naturalistico-sacrale delle identità collettive, con
la funzione di indebolire la percezione delle diseguaglianze e delle
differenze interne rafforzando, per converso, un senso di unità
e di identità costruite contro l'Altro, lo Straniero, il
Nemico. "...L'immaginario che si iscriva così nel reale
è quello del "popolo" - afferma Balibar - è
quello di una comunità che si riconosce dapprima
nell'istituzione statale, che si riconosce come "sua" di
fronte ad altri stati e, soprattutto, iscrive le sue lotte politiche
nel suo orizzonte: per esempio, formulando le sue aspirazioni di
riforma e di rivoluzione sociale come progetti di trasformazione del
"suo stato" nazionale". Se esiste una certezza che
dovremmo avere acquisito, a più di trent'anni dalla grande
stagione delle indipendenze, è che alle lotte di liberazione
nazionale non ha fatto seguito alcun radicale mutamento nel rapporto
fra governanti e governati. I rapporti di dipendenza internazionali,
e quelli interni di sfruttamento e servitù, sono passati
indenni attraverso l'indipendenza e la costituzione dei nuovi
stati. Invece la consapevolezza di tutto ciò è
stata seppellita il più delle volte sotto la fede rovinosa
in quello schema evoluzionista che alla indipendenza e alla
formazione di una borghesia nazionale e del suo antagonista
proletario faceva ineluttabilmente succedere la rivoluzione sociale
e la istituzione di nuovi rapporti. Dietro a questo dogma è
naufragato buona parte del terzomondismo antimperialista. "Il
risultato - spiega Wallerstein - è che una parte importante
dell'attività politica fondata sulla nozione di classe
ha assunto la forma di una attività politica fondata sulla
nozione di "popolo". Una forma destinata a
sospingerla verso contenuti e obiettivi di carattere statalista e
nazionalista. Quanto l'"autodeterminazione dei popoli" sia
lontano da liberazione e trasformazione dei rapporti sociali e forme
di vita sta a dimostrarlo l'odierno dilagare di nazionalismi e
integralismi feroci e belligeranti. Il punto è che
l'etnizzazione e la nozione di popolo risolvono uno dei bisogni
storici fondamentali della borghesia capitalistica, cioè, la
necessità di dover imporre il predominio del suo interesse
particolare di classe proprietaria e quindi la disuguaglianza
pratica, attraverso l'internazionalizzazione del modello formale di
eguaglianza teorica del "cittadino". I connotati del vero
soggetto che governa il processo di autodeterminazione dei
popoli appartengono, a pieno titolo, alla classe borghese la quale
mediante la proiezione-progettazione dello Stato-Nazione produce il
comportamento "volontario" di un gruppo che difende la sua
"identità" sociale: il Popolo. Ciò permette
di legittimare la realtà gerarchica del capitalismo senza
mettere in causa l'eguaglianza formale davanti alla legge, che è
uno dei suoi principi politici conclamati. Allora non si tratta
per niente, così nella questione jugoslava, come in
qualsiasi altra controversia di nazionalismi uguali e contrari,
di volersi schierare a favore di questo o di quel popolo invocandone
il Diritto all'autodeterminazione, ma di voler semmai
l'autodeterminazione pacifica di tutte le culture in cui si
riconoscono e si esprimono le singole, differenti comunità
umane, dissociandosi apertamente da una politica di guerra
(prima economica e culturale, poi militare) perseguita dalle
borghesie per conservare il dominio nella forma più organica
alla affermazione dei propri interessi di classe. Non è
affatto paradossale, peraltro, né incomprensibile, se si
riflette bene, che in pari tempo compaiono dinamiche processuali di
rapidissima trasformazione dell'assetto europeo, quali quelle cui
stiamo assistendo in epoca assai recente (dal crollo del muro di
Berlino e dall'equilibrio bipolare alla disgregazione delle società
dell'Est) e che sembrano prefigurare esiti futuri assolutamente
contraddittori, incompatibili e divergenti: verso l'unificazione
del mercato europeo, da un lato e verso la
frammentazione-regionalizzazione dell'Europa in tante micro-identità
etnico-nazionalitarie, dall'altro. In verità, sono percorsi
paralleli e perfettamente complementari di un mutamento profondo che
investe innanzitutto l'economia del continente, nel senso che
rimette profondamente in causa gli interessi economici delle
classi borghesi, di vecchia e nuova formazione, entro i confini di
ciascuno stato. In un quadro di unità economica e
monetaria dell'Europa, quando alla fine del 1992 dovrebbe essere
concluso il passaggio dal mercato comune al mercato unico e nei
successivi tre o quattro anni si dovrebbe arrivare alla moneta unica
europea o a forme sostanzialmente eguali di unificazione
monetaria, dietro lo schermo ideologico della liberal-democrazia
e sullo sfondo d'una metamorfosi dissolutiva degli ordini
precedenti, è probabile che si delinei di nuovo il
problema di uno scatenamento incontrollato degli "spiriti
animali" del capitalismo. Un problema che riguarderà il
modo in cui le varie e molteplici borghesienazionali
decideranno di ridefinire le loro capacità egemoniche, allo
scopo di potersi ridislocare ognuna sulle posizioni per sé
più vantaggiose, per controllare e sfruttare meglio tutte le
risorse disponibili da gettare in una più vasta e più
libera area di concorrenza e per conseguire così il massimo
grado di competitività sul nuovo mercato europeo ed
internazionale. E' in rapporto ad un obiettivo di tal genere -
inserirsi da posizioni di forza nella configurazione inedita di
un'area concorrenziale senza frontiere, senza più reti
protettive né confini - che si pone l'esigenza di ridisegnare
i confini di ciascuno stato, inventando nuove solidarietà
etnico-nazionali e sganciandosi dalle vecchie solidarietà
"nazionali" con regioni economicamente arretrate, prive di
sufficienti risorse, e ormai vissute solo come zavorra frenante
lo sviluppo delle regioni più ricche e competitive. Questo
sta avvenendo in Jugoslavia; una guerra scatenata da nuove più
chiuse ed egoistiche solidarietà contro quelle
tradizionali che avevano creato le basi di uno Stato Federale. Oggi
in Jugoslavia... e domani?