Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 21 nr. 187
dicembre 1991 - gennaio 1992


Rivista Anarchica Online

Sul kibbutz
di Maria Matteo / Emilio Penna

A colloquio con Gerardo Lattarulo, anarchico torinese da anni trasferitosi a vivere in un kibbutz

Gerardo Lattarulo è stato per vent'anni tra gli anarchici più attivi a Torino: di cui, del suo impegno, della sua coerenza così come del suo caratteraccio parecchi di noi avevano appreso da quelli che l'avevano conosciuto prima che, undici anni fa egli si trasferisse in Israele e divenisse membro del kibbutz Shomorat. Durante una sua recente visita in Italia abbiamo avuto con lui un lungo colloquio sulla sua esperienza politica e personale all'interno di una comunità socialista ed autogestionaria quale il kibbutz. Ne è scaturita una sorta di intervista che ci ha permesso di conoscerne meglio nel suo affermarsi e crescere un esperimento di vita alternativa probabilmente unico sia per l'ambito in cui è sorto e si è sviluppato sia per là durata - ricordiamo che i primi kibbutz furono fondati al principio del secolo.
I kibbutz - ha esordito Gerardo - sono nati come comunità contadine e solo in seguito hanno intrapreso attività industriali. Sebbene ogni kibbutz avesse regole proprie - discusse ed approvate dall'assemblea dei propri membri - tuttavia v'era un nucleo ideale di riferimento valido per tutti i kibbutz il cui cardine era il principio socialista "da ciascuno secondo le sue possibilità a ciascuno secondo i suoi bisogni”. Inizialmente tutto era in comune: i mezzi di produzione e i consumi. Il consumo privato non esisteva: i kibbuzim mangiavano insieme nella mensa comune, non possedevano abiti propri ma dividevano con gli altri quelli disponibile ed avevano la responsabilità collettiva della vita e dell'educazione dei bambini. Tra di noi - aggiunge Gerardo - v'è un detto: "la crisi del kibbutz è iniziata il giorno in cui nelle case è entrata la prima caffettiera personale”.
Gerardo ricorda che quando egli giunse a Shomorat esisteva ancora la comune, ossia il posto in cui si distribuivano i vestiti. Oggi - anche in virtù delle migliorate condizioni economiche - vi sono stati numerosi cambiamenti e al consumo comune si è affiancato un budget privato, ossia una somma di denaro per uso personale. Tuttavia - sottolinea Gerardo - la distribuzione avviene secondo criteri rigorosamente egualitari: tutti hanno diritto agli stessi beni e servizi, indipendentemente dalla quantità e qualità del lavoro svolto.

Aprirsi al mercato: un errore
Il nostro colloquio prosegue affrontando la complessa questione dei rapporti tra l'idea sionista e lo svilupparsi dei kibbutz. All'interno del movimento sionista - asserisce Gerardo - c'è stata una corrente socialista molto forte, spesso influenzata dall'anarchismo. Per molti socialismo e sionismo erano fortemente legati: non si trattava tanto di fondare un nuovo stato dove l'ebreo potesse vivere, ma di creare una società diversa. Spesso non si parlava di costruire un nuovo stato, ma di "focolare nazionale", un posto dove l'ebreo potesse vivere.
Il discorso si sposta ai rapporti economici tra il kibbutz ed il mondo esterno.
Inizialmente - ci dice Gerardo - i prodotti erano esclusivamente destinati al consumo interno, in seguito tuttavia vennero immessi sul mercato, alle cui leggi il kibbutz dovette giocoforza piegarsi. Invece di creare una rete di scambio si è costituita una rete di mercato in cui i prodotti si comprano con il denaro. Questo - sottolinea con forza Gerardo - è stato un grave errore poiché in tale modo il kibbutz rinunziò alla propria vocazione ad influenzare la società intorno a sé, finì invece con l'esserne influenzato.
Ad esempio la scelta che il mio kibbutz fece qualche anno fa di impiantare una fabbrica di mobili con prospettiva di aumentare i profitti non tenne conto delle conseguenze sociali che avrebbero potuto derivarne. Non si prese in esame la possibilità che alla gente del kibbutz non andasse di lavorarci e che si finisse quindi - come poi è accaduto - con l'assumere salariati esterni al kibbutz. Parimenti non si prese in considerazione la nostra capacità di controllare il processo produttivo, sì che la fabbrica ha finito con l'automatizzarsi e oggi v'è persino un consiglio direttivo che prende le decisioni senza chiedere più permesso al kibbutz. Certo, l'assemblea del kibbutz può ancora decidere di sciogliere il consiglio direttivo della fabbrica, tuttavia le difficoltà sono grandi, poiché occorre affrontare un iter burocratico piuttosto complesso.

A questo punto domandiamo a Gerardo chiarimenti sull'organizzazione politica del kibbutz.
In teoria – ci risponde – il kibbutz è la società autogestita per eccellenza, in pratica non lo è più da anni. Il principio era che tutte le decisioni dovessero essere prese in assemblea e che tutti gli incarichi dovessero essere svolti a rotazione da tutti i membri del kibbutz che comunque dovevano renderne periodicamente conto all'assemblea stessa. Vi erano tre tipi di incarichi: il segretario con funzioni sociali, l'amministratore che si occupava di questioni economiche ed il cassiere con compiti finanziari.
Con l'ingrandirsi del kibbutz l'autogestione si è sempre più svuotata. Certo la scelta di entrare nell'economia di mercato ha avuto un grosso peso in questo: quando ci sono milioni di dollari di fatturato annuo l'autogestione diventa sicuramente più complicata. Si è creata una frattura fra i vari settori produttivi all'interno del kibbutz, introducendo una disuguaglianza di potere tra i settori trainanti economicamente e gli altri. La rotazione degli incarichi direttivi è solo più formale, poiché in realtà i dirigenti finiscono con il "ruotare" tra loro. È sempre più raro che chi termina un incarico torni a lavorare nella stalla o nella falegnameria. Tutto ciò è avvenuto perché sono venuti largamente meno i valori etici e politici del kibbutz, che ha cercato di porsi come alternativa alla società esterna, finendo con l'adottarne i valori. Se parli con gli anziani di qui essi ti diranno: " II kibbutz è la mia casa, la mia vita " per loro il kibbutz non è un posto come un altro dove stare, non sono le quattro mura della propria abitazione, per loro il kibbutz è un modo di vivere.

Donne e bambini
L'ultimo argomento che affrontiamo con Gerardo non può che essere relativo all'educazione dei bambini, che forse più di altri desta la nostra curiosità per le decine di articoli scritti a riguardo ma soprattutto per il celebre libro di Bettelheim "I figli del sogno". Gerardo, padre di due figli, ci risponde sottolineando come anche in questo aspetto per certi versi nodale della vita comunitaria è in atto una pesante involuzione ed un riproporsi di moduli educativi tipicamente borghesi. Anche nel suo kibbutz erano in atto al momento della sua visita processi che avrebbero trovato di lì a poco compimento - ad es. la decisione di far dormire i bambini nelle case per per motivi di sicurezza durante la guerra del golfo venne poi mantenuta quando il pericolo venne meno -. In ogni caso, pur tenendo conto dei fattori di trasformazione testé descritti, possiamo dire che l'educazione non viene considerata compito dei genitori ma di tutto il kibbutz. Dopo l'allattamento il bambino viveva nella casa dei neonati, da dove passava alla casa dei bambini e poi a quella dei giovani.
Secondo Gerardo il fatto che in molti kibbutz i bambini dormano nelle case dei genitori è sintomo del fallimento dell'emancipazione della donna nel kibbutz, poiché le maggiori fautrici del cambiamento sono state soprattutto le madri. E quanto più è andato in crisi il senso comunitario della vita del kibbutz, tanto più la famiglia è tornata ad essere il centro della vita.
Il colloquio con Gerardo è proseguito ancora a lungo e nonostante l'ora sempre più tarda si è fatto vieppiù appassionante per il grande fascino di un'esperienza quale quella di Gerardo, per il tentativo che con generosità e slancio egli ha fatto di vivere concretamente l'anarchia.
Agli altri temi trattati nel corso della chiacchierata con Gerardo ed in particolare su Israele, sulla questione palestinese, sul movimento pacifista israeliano e sugli obiettori al servizio di leva nei territori occupati dedicheremo un successivo articolo.