rivista anarchica anno 21 nr. 187 dicembre 1991 - gennaio 1992
Rivista Anarchica Online
A nous la libertè diario a cura di Felice Accame
Un pezzo unico, pregiato
Del regista americano David Mamet ero rimasto già più
che piacevolmente impressionato per Casa di giochi e per
Le cose cambiano: film dalla struttura curiosa, difficilmente
classificabili, recitati benissimo, dotati di uno stile espressivo
tutto loro, impreziositi e intelligenti sempre - con qualche
compiacenza verso il ben congegnato - e banali mai. Ora, allo stesso
Mamet, dobbiamo questo Homicide che mi fa sentire quasi un
dovere comunicarne agli amici cospicuità e ragioni. In breve
e alla meno peggio, perché spiegare la propria emozionata
partecipazione è invero lungo e difficile (liquidare in
quattro e quattrotto è spesso più
comodo). Innanzitutto dirò che Homicide mi sembra
più un pezzo unico che l'esemplare di una serie. Riesce a
non essere un film di genere pur avendo sottoscritto con precisione
il contesto narrativo: c'è un poliziotto, c'è la
caccia al trafficante di stupefacenti, c'è l'omicidio di una
vecchia - prima negoziante, poi ebrea e poi ancora sionista - c'è
l'indagine, la caccia, gli spari, il sangue - c'è tutto quel
che c'è altrove, nei film di un certo genere, appunto. Ma
film di genere non è, perché non ne accetta di
principio le scorciatoie, rifiutando la semplificazione di eventi e
caratteri così come le leggi del mercato richiederebbero.
Il materiale su cui lavorare, insomma, è quello, ma la mente
che lo lavora è tutt'altra. Fin dalla scelta dei piani medi -
quasi un cinema "da camera", laddove la cosiddetta
"azione" esigerebbe uno sguardo più comprensivo e
"spettacolare" -, Mamet cesella le persone che dovrebbero
stare in ogni personaggio, ne insegue l'ansia e l'imbarazzo di
trovarsi in un mondo che non gli aggrada, ne coglie il logorio nella
fitta ed inesausta rete di messaggi dai quali queste persone vengono
dolorosamente irradiate, ne soccorre le titubanze con tratti
musicali delicatamente abili nello schiuderci il loro animo.
Prima di capire la trama del delitto, il suo poliziotto cerca di
capire la trama della vita; alla degenerazione del singolo si
perviene solo dopo aver isolato la degenerazione del sociale di cui
questo singolo è misero e debole componente. La logica
della rappresentazione sfugge sia alla glorificazione eroica (il
duro che porta la croce della legge sul Golgota della società
malata, il detective che dipana la matassa) che alla riduzione
schematica del comune mortale (il poliziotto che litiga con la
moglie o soffre dell'indifferenza dei figli, il contrasto con i
superiori e con i corrotti): oserei dire che programmaticamente si
rinuncia e al cinematografico e al letterario della
rappresentazione. Le differenze dal paradigma non vengono sanate,
non ci sono rivincite consolatorie per nessuno e tanto meno tesi
predisposte al pessimismo - come nella vita di tutti i giorni, a
differenza di ogni film di genere, chi promette, promette a vanvera,
chi dovrebbe tornare in scena per quella sorta di impegno implicito
contratto con lo spettatore, non torna affatto, mostrandosi
contingente come chi vive e non come chi è narrato. Senza
canoni precostituiti sui quali snocciolare gli eventi, allora, ecco
che i dialoghi - sia il flusso parlato che quello non verbalizzato
costituenti la sceneggiatura - assurgono a capacità espressive
di rarissime tonalità ed a straordinaria efficacia
funzionale: non c'è un "filo" per così dire
"dettato" dall'esterno ma, come allorquando il diaframma
fra finzione e autenticità si fa minimo, la pluralità
e il disordine dei pensieri, nella piena autonomia della persona, si
traducono in parole e corporeità sovrapposte, intersecantesi,
caotiche, ridondanti come sappiamo essere noi umani socializzati
nello stress del dire e del fare. Mamet disobbedisce a quasi
tutte le norme impartite dall'ideologia narrativa del realismo.
Dico "quasi tutte" perché gli rimane un gusto non
sgradevole del marchingegno raffinato - gusto al quale non sa
negarsi e nel quale si viene a individuare il contrassegno
stilistico che accomuna Homicide con i due film che l'hanno
preceduto. Quel diaframma minimale fra finzione e autenticità
- attraverso il quale passa con stupenda professionalità di
attore Joe Mantegna, che sempre sa accettare la simbiosi con il suo
regista - finisce anche con il caratterizzare i due corni
dilemmatici della vicenda nonché delle fasi evolutive del
personaggio: rigurgiti di nazismo o, in alternativa, storiella di
poco conto; difensore della legge o, in alternativa, suo primo
traditore; poliziotto ebreo o, in alternativa, sionista poliziotto;
uomo che ha paura fra uomini che hanno paura o, in alternativa,
personaggio da film (e c'è una battuta cruciale in cui il
collega-amico, ma solo a condizione del rispetto dei ruoli
convenuti, dice al poliziotto che con lui si cambia sempre scena
"come in un film").
All'idea di un racconto dotato di un meccanismo ad orologeria in
grazia del quale l'ottica fino a quel momento adottata possa venir
rovesciata da capo a piedi, d'altronde, non è facile
rinunciare: se il meccanismo è progettato dall'intelligenza
necessaria; se ciò non implica una caduta nei luoghi comuni
della narrazione; se ciò consente l'esercizio di
un'espressività critica e libera - tutte clausole ben
ottemperate da Mamet - la cosa non guasta, vengan pure i bei film
che sanno scavare nel cuore della gente e raccontare storie dalle
geometrie sorprendentemente poco euclidee. Purché questo
"esprit de geomètrie" non sia un tributo coartato
da posarsi sull'altare sacrificale del Cinema.