Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 21 nr. 187
dicembre 1991 - gennaio 1992


Rivista Anarchica Online

Giornalisti dello scandalo
di Carlo Oliva

In margine al recente scandalo delle raccomandazioni agli esami dell'Ordine dei Giornalisti.

Adesso è di nuovo tutto silenzio, ma sui giornali si è fatto un gran parlare, tempo fa, dello scandalo degli esami di abilitazione alla professione giornalistica. Si era casualmente scoperto, pensate!, che un certo numero di candidati si era fatto raccomandare da personalità più o meno eminenti, fornendo a un commissario compiacente l'incipit dei loro elaborati per eludere la norma che ne prevede la consegna e la valutazione in forma rigorosamente anonima. Ma costui aveva registrato i nomi dei raccomandati, quelli dei raccomandatari e gli incipit in questione nel computer di redazione, che per un banale equivoco (o per malizioso intervento di qualcun altro) li aveva rivelati urbi et orbi e patatrac. Se ne è parlato molto, capirete, perché ai giornalisti, come a tutti, piace parlare più di se stessi che di chiunque altro, e riferire della disavventura capitata ad un collega fa sempre piacere, e comunque questa storia delle raccomandazioni agli esami era una di quelle che giravano da un certo tempo, lo sapevano un po' tutti, ma non se ne poteva parlare a rischio di smentite e querele che levati, per cui, una volta scoppiato lo scandalo, forza ragazzi. Il che non toglie che il lettore di giornali normale, nel senso di "non giornalista", correrà facilmente il rischio di fraintendere la portata di quanto è successo. Nessuno, mi sembra, si è preso la briga di spiegare che cosa sono e a che servono gli esami di abilitazione alla professione giornalistica.
Secondo la logica e l'esperienza, in fondo, i metodi per fregiarsi di una qualifica professionale, possono essere solo due. O degli enti a ciò preposti e qualificati istituiscono degli esami, superati i quali gli aspiranti possono offrirsi sul mercato del lavoro (o, se preferiscono, mettersi in proprio), come succede, che so, agli ingegneri, ai medici, agli architetti, o si ricorre direttamente al mercato, nel senso che ci si fa prima assumere da qualcuno e poi, in base alla prestazione fornita, si vede convalidato o no il proprio ruolo. Quando a metà degli anni '60, fu istituito in Italia l'ordine dei Giornalisti, qualche genio deve aver pensato di combinare le due tecniche: per diventare giornalisti professionisti a pieno titolo bisogna prima farsi assumere da un editore e poi sostenere l'esame.

Non si boccia nessuno
Dal quale, quindi, non dipende tanto l'entrata nella categoria, quanto l'uscita dalla medesima, perché chi è bocciato (più di due volte, mi sembra), almeno in teoria dovrebbe essere licenziato ipso facto e rimandato al lavoro dei campi o ad altre attività socialmente più utili.
Naturalmente questo limiterebbe alquanto i poteri che una società capitalistica riconosce ai datori di lavoro, che da sempre danno molta importanza al diritto di assumere e licenziare chi pare a loro e quando e come vogliono. Per cui, essendo l'Italia un paese che rispetta il padronato, ed essendo le testate di stampa in buona parte in mano a padroni di quelli grossi, gelosissimi dei propri diritti, in genere agli esami non si boccia nessuno: al massimo si potrebbero bocciare gli emarginati, quelli presentati da testate che non hanno né madre né padre, o quanti hanno una figura professionale un po' spuria o comunque discutibile (per esempio, credo che ci sia stata una lunga contesa tra l'ordine nazionale e quello della Lombardia, sulla professionalità di certe figure di addetti-stampa nelle aziende) o, che so, la compagna o il cognato del giornalista famoso, per fargli un salutare dispetto, ma certo nessun altro, e la volta dopo si promuovono anche loro. La media dei promossi mi sembra aggirarsi sul 95%.

Quei babaloni
E allora, direte voi, perché si fanno raccomandare quei babaloni? Beh, tanto per cominciare, perché agli esami non si sa mai. Poi, per coerenza: per essere assunti da un editore, da qualcuno bisogna ben essere raccomandati. In questo paese il giornalismo "regolare" è una professione privilegiata e piuttosto redditizia (non per niente vi allignano a latere mille forme di lavoro nero, irregolare o comunque anomalo) e vi si accede soltanto per cooptazione. Non si diventa certo giornalisti seguendo un corso di studio (anche se di corsi ce ne sono, e alcuni mica male) o entrando nella prima redazione che capita e chiedendo se c'è un posto libero, a rischio della camicia di forza e del ricovero coatto al neurodeliri. Quindi, raccomandazione per raccomandazione, tanto vale andare sul sicuro.
Poi c'è un problema, direi, più di fondo, anche se necessariamente un po' vago nei suoi termini. Riguarda la natura stessa di questa professione, il modo con cui socialmente e professionalmente la si considera. Senza voler recare offesa a nessuno, sappiamo tutti che, in questo allegro paese, non mancano certo i giornalisti che si caratterizzano soprattutto per la capacità di esprimere, se richiesti, ossequio e rispetto ai potenti, di comprendere le loro ragioni e non formalizzarsi su un atteggiamento liberamente creativo della comunicazione che è opportuno far giungere o non giungere ai sudditi. Ce ne sono, e sono, in genere, quelli ricchi e famosi. In un sistema economico in cui l'informazione non ha una vera e propria autonomia gestionale (e manageriale), ma è di regola l'appendice di tutt'altri interessi, siano essi quelli delle forze politiche lottizzanti o dipendano da strutture proprietarie in cui l'attività editoriale ha solo un ruolo secondario, le cose non possono che andare così. L'Ordine, che in sé è una struttura piuttosto innocua, si è trovato nell'occhio del ciclone, perché la sua esistenza rappresenta comunque un'anomalia. Tra le sue funzioni, in teoria, c'è quella di garantire una professionalità e una deontologia cui si oppongono, soprattutto, le condizioni strutturali ed economiche in cui la professione giornalistica s'esercita.
Allora proviamo a metterci dal punto di vista del1'aspirante giornalista-ricco-e-famoso. Di quello cui non importa affatto essere lottizzato, o andare sotto padrone, pur di accedere al teleschermo in fascia di massimo ascolto o avere la rubrica con fotografia francobollo su tutti i news, magari due a numero.
Cosa può fare di meglio, per garantire di disporre di queste doti fondamentali, che esibire un segno sicuro di familiarità con quei potenti che ci si propone di servire professionalmente? La raccomandazione, in questa logica, più che uno strumento per eludere le norme d'esame andrebbe considerata una condizione preliminare per l'ammissione al medesimo, un po' come la laurea in giurisprudenza agli esami da procuratore legale.

Nera ingiustizia
Non credo di commettere, rivelando quanto sopra, alcuna indiscrezione. E' tutto largamente noto, tra gli addetti e i non addetti ai lavori. Ma allora, la posizione del commissario compiacente che ha fatto sì, con un uso improprio o non abbastanza cauteloso del computer di redazione, che lo scandalo scoppiasse, è tutta diversa. Il fatto che l'abbiano licenziato in tronco, estromesso dalla commissione e deferito all'autorità giudiziaria, è una nera ingiustizia.
La sua colpa, se colpa c'è stata, non è diversa da quella del bambino della favola: sapete, quello che a un certo punto saltò su ad assicurare a tutti gli astanti che l'Imperatore era nudo.