Ho letto con interesse la lettera di Murray Bookchin ("A"
185) e ne condivido le preoccupazioni. Temo che, sul versante di
una strategia complessiva in grado di realizzare una utopia - è cosi
che intendo il pensiero e la prassi anarchica - e quindi sulle azioni
in positivo da intraprendere per avviarci in questa direzione, il
movimento anarchico e libertario presenti ampie carenze di presenza,
di propositività, di intraprendenza, di innovazione, di
sperimentazione. Temo che, non avendo più da perdere "solo
le nostre catene", ci siamo da un po' di tempo in qua rifugiati
nel conservatorismo, refrattari ad avanzare progetti a medio e
lungo termine dai quali ritagliare forme, politiche di intervento
locale, a misura locale ma non a logica di intervento ed a spessore
strategico. Credo anch'io che il particolare non vada assunto
acriticamente ma inserito in una prospettiva globale. Né
possiamo lasciarci trascinare in crisi altrui, assecondando l'alibi
di chi sostiene l'impossibilità di strategie complessive e
globali perché viviamo in tempi postmoderni.
L'utopia anarchica è sempre stata una progettualità
sperimentale mai conchiusa in se stessa, né perfettamente
anticipata dalla teoria. Anzi. Purtuttavia non sperimentiamo più
ipotesi di interventi locali graduali e flessibili atti a far
crescere la quantità e la qualità degli spazi di
libertà, di autogestione, di autodeterminazione, di autonomia
economica e politica, di estraneità allo stato ed alle sue
istituzioni periferiche e decentrate. La crescita di spazi di
libertà, in una sola espressione, non può non
coinvolgere ampie fasce di popolazione, senza privilegiare sacche di
"simpatie-ghettizzate". Gradualità e
flessibilità costituiscono supporti essenziali di una
strategia politica che valorizzi il "primato"
dell'etica anarchica, cioè di quei valori espressi dalla
prassi anarchica, e che solitamente acquistano i nomi propri di
libertà, uguaglianza nella differenza, diversificazione,
solidarietà, orizzontalità. Valori espressi da
prassi, insisto, e non viceversa, perché è inesistente
un primato di valori intellettuali: solo pratiche che si
estendono, cambiano la qualità dell'esistenza collettiva
e individuale. Ciò sarà impossibile senza una
lotta contro lo stato in tutte le sue espressioni, ma
altrettanto impossibile sarà condurre in maniera
organizzata una tale lotta senza una flessibilità di
obiettivi intermedi, di tattiche parziali che, pur non
contraddicendo con il fine etico-politico della progettualità
anarchica, sono di necessità delimitate dal raggio di
possibilità oggettivamente perseguibili e concretizzabili
a livello di una realtà attuale condivisibile da tutti - e
non privilegio o di menti intellettualmente dotate che acquisiscono
uno spirito ed un agire anarchico o di particolari porzioni
sociali che consentono una prassi individuale ispirata
all'anarchia. Il progetto anarchico è collettivo perché
è sociale; ed è individualizzato perché
attiene potenzialmente ad ogni individuo, ma solo in quanto
condiviso; in caso contrario l'anarchia sarebbe un'inammissibile
privilegio intellettuale o sociale. La gradualità mal si
concilia con la natura dei compromessi politici dettati da
condizioni e da contesti sui quali non sempre si ha la capacità
e la possibilità di manipolazione e intervento
di trasformazione. Ciò nonostante un progetto anarchico
deve trovare al proprio interno lo spazio dell'accettazione
temporanea di compromessi di natura tattica, senza svilire se stesso
né pregiudicare la coerenza mezzi-fini. Del resto, quanto
dico è più difficile a "teorizzare" che
a "praticare", perché nella vita di ciascuno di
noi siamo drammaticamente lacerati di continuo da compromessi che
subiamo e sui quali facciamo leva per superare le condizioni e i
contesti che ci vincolano a tali compromessi. Nella sofferta
contraddizione, troviamo l'incitamento ad avanzare la radicalità
critica del nostro comportamento, senza assuefarci al compromesso.
Si tratterebbe allora di accettare una simile soluzione sul piano
collettivo politico, elaborando nella lacerazione ulteriori fasi di
rottura dei compromessi tattici che incontreremo inevitabilmente nel
dispiegamento tortuoso delle nostre strategie o dei nostri
progetti. Ovviamente occorre dotarsi di una lucidità
necessaria a leggere sempre e in tempo reale la natura del
compromesso, e la nostra posizione in esso, al fine di controllare
le reazioni della nostra prassi. Ed è tale lucidità
che mi fa dubitare della proposta progettuale del municipalismo
libertario di Bookchin, del quale, ripeto, condivido ansie di
auto-trasformazione sul finire del secolo, pena il timore
dell'inessenzialità del pensiero sociale e politico
dell'anarchismo (se le istanze di libertà non periranno
mai finché ci sarà un aggregato sociale, siamo sicuri
lo stesso del pensiero anarchico? siamo sicuri che tali istanze,
un domani, non si creeranno un punto di riferimento teorico e
politico estraneo all'anarchismo? e in tale situazione di
spiazzamento, finita cioè la nostra rendita di posizione
storica, noi anarchici "fanatici" della libertà
"ideale amante mia" cosa faremo? prenderemmo "doppia
tessera", per così dire? seppelliremmo anche noi la
teoria anarchica per abbracciare quella nuova? ci faremo
sorpassare dalle nuove istanze di libertà?). Le obiezioni
che muovo al municipalismo libertario provengono da una lettura
delle condizioni politiche materiali in cui si esprime
l'organizzazione istituzionale (centrale e periferica) del potere in
Italia, che è sostanzialmente e notevolmente diversa da
quella vigente negli USA. Sono obiezioni che ricavano il punto di
vista ideologico - necessario come discrimine di valutazione
qualitativa di un qualunque progetto - a partire da considerazioni
politiche dettate dai vincoli del tempo presente. Ciò
perché occorre non dimenticare che ogni progetto, anche il
migliore sulla carta, va inserito in un contesto che la
condiziona, più che venirne condizionato; ed è in
questo attrito tattico che si giocano le buone chances di
riuscita. A differenza degli USA (e degli stati maggiormente a
tradizione democratica come quelli orientali del New England cui si
riferisce Bookchin), dove il potere statuale federale è
lontano fisicamente e istituzionalmente, giacché gli stati
esercitano sovranità su buona parte di politiche interne
e sociali (al di là degli aspetti finanziari non certo
trascurabili), in Italia la struttura politica fra centro e
periferia non è interrotta in nessun segmento. Unica è
la legislazione centrale che decentra proprie competenze (e di
recente, più ad organi direttamente dipendenti dallo
stato, come i prefetti, che alle regioni): la classe politica
chiamata a gestire gli organi istituzionali è la stessa al
centro come in periferia (stessa vuole dire medesima selezione,
medesima logica di intervento, spesso medesime persone, medesimo
bacino elettorale) : la presenza dei partiti è invadente;
l'autonomia concessa alle periferie è limitata (eccetto le
regioni a statuto speciale). Inoltre, la logica politica
dominante non subisce correzioni di sorta da nessuna parte, e del
resto la cattura del consenso obbedisce a regole in vigore al
centro e in periferia, per chi si vuole candidare al ruolo di primo
attore della cosa pubblica. Non parliamo di adulterazioni e
inquinamenti politici nel meridione (e Milano, da capitale morale
dell'Italia che lavora e produce, non vuole essere da meno). La
politica fatta con i soldi pubblici obbliga ad una massimizzazione
delle risorse destinate all'uso improprio del denaro drenato
fiscalmente (altri direbbero estorto legalmente, a differenza
della estorsione illecita della criminalità organizzata). In
tale logica, le repliche di copioni prescritti avvengono
ovunque. Queste brevi annotazioni vogliono dimostrare
sinteticamente la scarsa condizione di autonomia che presenta il
quadro di una politica locale entro le regole del gioco
istituzionale. Eppure, senza ambire a forme di municipalismo
libertario, ci sono stati tentativi di rottura del quadro
politico a partire anche dal locale, più con operazioni di
riforma e altamente simboliche e spettacolari - dalle quali non
sono seguite però reali rotture delle regole del gioco
sistemico, nemmeno a livello locale. Avevano iniziato i radicali,
avanzando una manovra a tenaglia fondata sull'ostruzionismo
parlamentare e sui referendum popolari, con qualche
esito soddisfacente, dal loro punto di vista, conseguito con la
istituzionalizzazione di alcune conquiste sociali (divorzio,
aborto) che godevano di vasto consenso nel paese. Di recente, i
verdi hanno visto naufragare la loro politica unitematica
sull'ecologia, che muoveva dal basso e dalle sedi istituzionali.
E per quanto mi consta personalmente, mi riferisco alla esperienza
del Coordinamento Cittadino per la Partecipazione di Palermo
durante l'era del sindaco Orlando, da me riportate come
testimonianza in queste stesse pagine (si veda "A" l72 del
marzo '90). Rinviando a quanto allora detto sui pregi e sui
limiti, si possono così riassumere le obiezioni teoriche
al municipalismo libertario (che non voglia gestire il potere locale
con logiche libertarie, il che mi sembrerebbe quantomeno
contraddittorio, oltre che difficilmente consentibile dal potere in
atto). Quali effetti reali produce un controllo dal basso,
partecipato e autogestito, del potere istituzionale, oltre per
tanto la denuncia e la controinformazione? Quale capacità
di mobilitazione permanente occorre sviluppare per inceppare
meccanismi legislativi a livello locale (ammesso che non siano
automaticamente derivati di riflesso da ingiunzioni normative
superiori)? Per operare svolte che incidono su comportamenti
collettivi pubblici, quali vie non normative (cioè sociali
e non politiche, per attenersi di comodo a sfere fittiziamente
diversificate) occorre seguire? Come stabilizzare nel tempo,
difendendole da attacchi e senza adoperare il metodo (e la
logica) legislativo, situazioni che si ritengono eque e
libertarie? Se questi sono i problemi di un intervento locale
animato in modo partecipativo, libertario nei suoi fini
(l'ampliamento delle sfere di azione pubblica, l'estensione di
risorse e benefici, ecc.) e autogestito nelle sue modalità
d'espressione, l'intrusione nei circuiti istituzionali, seppure
locali, in Italia credo sia proprio l'unica strada da escludere
senza remore. Se l'anarchismo mira a far acquistare una
consapevolezza ed una pratica estranea allo stato, cioè
un'autonomia di solidarietà in grado di fare a meno dello
stato, a tutti i livelli, per risolvere problemi di convivenza,
occorre anche svuotare di senso e di legittimità i "palazzi
del potere", le sedi palesi ove si esercita spesso un
simulacro di dominio, a favore di luoghi occulti, ma che non di meno
esprimono l'"aura sacra" del potere. La vanificazione come
operazione simbolica è insufficiente ma necessaria, cosicché
è bene non ricorrere minimamente ai "luoghi" del
potere per veicolare istanze libertarie. Ciò contraddice
il progetto municipalistico libertario, che ritiene di poter
innestare elementi libertari in sedi istituzionali per stravolgerle.
L'innesto è possibile, ma sovente al prezzo
dell'auto-stravolgimento e dell'appiattimento finale sul profilo,
sui metodi e le logiche di quelle sedi istituzionali. Fermo
restando la fantasia per sviluppare progetti locali di risoluzione
collettiva di problemi sociali che faccia appello a valori
differenti dal solito (solidarietà, difesa del più
debole, ecc.) e che muova i propri passi parallelamente alla sfera
decisionale politica per definizione, secondo logiche ad essa
totalmente estranee. Ma questo è un altro capitolo da
aprire.