Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 21 nr. 186
novembre 1991


Rivista Anarchica Online

Gradualità e flessibilità

Ho letto con interesse la lettera di Murray Bookchin ("A" 185) e ne condivido le preoccupazioni. Temo che, sul versante di una strategia complessiva in grado di realizzare una utopia - è cosi che intendo il pensiero e la prassi anarchica - e quindi sulle azioni in positivo da intraprendere per avviarci in questa direzione, il movimento anarchico e libertario presenti ampie carenze di presenza, di propositività, di intraprendenza, di innovazione, di sperimentazione. Temo che, non avendo più da perdere "solo le nostre catene", ci siamo da un po' di tempo in qua rifugiati nel conservatorismo, refrattari ad avanzare progetti a medio e lungo termine dai quali ritagliare forme, politiche di intervento locale, a misura locale ma non a logica di intervento ed a spessore strategico.
Credo anch'io che il particolare non vada assunto acriticamente ma inserito in una prospettiva globale. Né possiamo lasciarci trascinare in crisi altrui, assecondando l'alibi di chi sostiene l'impossibilità di strategie complessive e globali perché viviamo in tempi postmoderni. L'utopia anarchica è sempre stata una progettualità sperimentale mai conchiusa in se stessa, né perfettamente anticipata dalla teoria. Anzi.
Purtuttavia non sperimentiamo più ipotesi di interventi locali graduali e flessibili atti a far crescere la quantità e la qualità degli spazi di libertà, di autogestione, di autodeterminazione, di autonomia economica e politica, di estraneità allo stato ed alle sue istituzioni periferiche e decentrate. La crescita di spazi di libertà, in una sola espressione, non può non coinvolgere ampie fasce di popolazione, senza privilegiare sacche di "simpatie-ghettizzate". Gradualità e flessibilità costituiscono supporti essenziali di una strategia politica che valorizzi il "primato" dell'etica anarchica, cioè di quei valori espressi dalla prassi anarchica, e che solitamente acquistano i nomi propri di libertà, uguaglianza nella differenza, diversificazione, solidarietà, orizzontalità. Valori espressi da prassi, insisto, e non viceversa, perché è inesistente un primato di valori intellettuali: solo pratiche che si estendono, cambiano la qualità dell'esistenza collettiva e individuale.
Ciò sarà impossibile senza una lotta contro lo stato in tutte le sue espressioni, ma altrettanto impossibile sarà condurre in maniera organizzata una tale lotta senza una flessibilità di obiettivi intermedi, di tattiche parziali che, pur non contraddicendo con il fine etico-politico della progettualità anarchica, sono di necessità delimitate dal raggio di possibilità oggettivamente perseguibili e concretizzabili a livello di una realtà attuale condivisibile da tutti - e non privilegio o di menti intellettualmente dotate che acquisiscono uno spirito ed un agire anarchico o di particolari porzioni sociali che consentono una prassi individuale ispirata all'anarchia.
Il progetto anarchico è collettivo perché è sociale; ed è individualizzato perché attiene potenzialmente ad ogni individuo, ma solo in quanto condiviso; in caso contrario l'anarchia sarebbe un'inammissibile privilegio intellettuale o sociale. La gradualità mal si concilia con la natura dei compromessi politici dettati da condizioni e da contesti sui quali non sempre si ha la capacità e la possibilità di manipolazione e intervento di trasformazione. Ciò nonostante un progetto anarchico deve trovare al proprio interno lo spazio dell'accettazione temporanea di compromessi di natura tattica, senza svilire se stesso né pregiudicare la coerenza mezzi-fini. Del resto, quanto dico è più difficile a "teorizzare" che a "praticare", perché nella vita di ciascuno di noi siamo drammaticamente lacerati di continuo da compromessi che subiamo e sui quali facciamo leva per superare le condizioni e i contesti che ci vincolano a tali compromessi.
Nella sofferta contraddizione, troviamo l'incitamento ad avanzare la radicalità critica del nostro comportamento, senza assuefarci al compromesso. Si tratterebbe allora di accettare una simile soluzione sul piano collettivo politico, elaborando nella lacerazione ulteriori fasi di rottura dei compromessi tattici che incontreremo inevitabilmente nel dispiegamento tortuoso delle nostre strategie o dei nostri progetti. Ovviamente occorre dotarsi di una lucidità necessaria a leggere sempre e in tempo reale la natura del compromesso, e la nostra posizione in esso, al fine di controllare le reazioni della nostra prassi. Ed è tale lucidità che mi fa dubitare della proposta progettuale del municipalismo libertario di Bookchin, del quale, ripeto, condivido ansie di auto-trasformazione sul finire del secolo, pena il timore dell'inessenzialità del pensiero sociale e politico dell'anarchismo (se le istanze di libertà non periranno mai finché ci sarà un aggregato sociale, siamo sicuri lo stesso del pensiero anarchico? siamo sicuri che tali istanze, un domani, non si creeranno un punto di riferimento teorico e politico estraneo all'anarchismo? e in tale situazione di spiazzamento, finita cioè la nostra rendita di posizione storica, noi anarchici "fanatici" della libertà "ideale amante mia" cosa faremo? prenderemmo "doppia tessera", per così dire? seppelliremmo anche noi la teoria anarchica per abbracciare quella nuova? ci faremo sorpassare dalle nuove istanze di libertà?).
Le obiezioni che muovo al municipalismo libertario provengono da una lettura delle condizioni politiche materiali in cui si esprime l'organizzazione istituzionale (centrale e periferica) del potere in Italia, che è sostanzialmente e notevolmente diversa da quella vigente negli USA. Sono obiezioni che ricavano il punto di vista ideologico - necessario come discrimine di valutazione qualitativa di un qualunque progetto - a partire da considerazioni politiche dettate dai vincoli del tempo presente. Ciò perché occorre non dimenticare che ogni progetto, anche il migliore sulla carta, va inserito in un contesto che la condiziona, più che venirne condizionato; ed è in questo attrito tattico che si giocano le buone chances di riuscita. A differenza degli USA (e degli stati maggiormente a tradizione democratica come quelli orientali del New England cui si riferisce Bookchin), dove il potere statuale federale è lontano fisicamente e istituzionalmente, giacché gli stati esercitano sovranità su buona parte di politiche interne e sociali (al di là degli aspetti finanziari non certo trascurabili), in Italia la struttura politica fra centro e periferia non è interrotta in nessun segmento. Unica è la legislazione centrale che decentra proprie competenze (e di recente, più ad organi direttamente dipendenti dallo stato, come i prefetti, che alle regioni): la classe politica chiamata a gestire gli organi istituzionali è la stessa al centro come in periferia (stessa vuole dire medesima selezione, medesima logica di intervento, spesso medesime persone, medesimo bacino elettorale) : la presenza dei partiti è invadente; l'autonomia concessa alle periferie è limitata (eccetto le regioni a statuto speciale). Inoltre, la logica politica dominante non subisce correzioni di sorta da nessuna parte, e del resto la cattura del consenso obbedisce a regole in vigore al centro e in periferia, per chi si vuole candidare al ruolo di primo attore della cosa pubblica. Non parliamo di adulterazioni e inquinamenti politici nel meridione (e Milano, da capitale morale dell'Italia che lavora e produce, non vuole essere da meno). La politica fatta con i soldi pubblici obbliga ad una massimizzazione delle risorse destinate all'uso improprio del denaro drenato fiscalmente (altri direbbero estorto legalmente, a differenza della estorsione illecita della criminalità organizzata). In tale logica, le repliche di copioni prescritti avvengono ovunque.
Queste brevi annotazioni vogliono dimostrare sinteticamente la scarsa condizione di autonomia che presenta il quadro di una politica locale entro le regole del gioco istituzionale. Eppure, senza ambire a forme di municipalismo libertario, ci sono stati tentativi di rottura del quadro politico a partire anche dal locale, più con operazioni di riforma e altamente simboliche e spettacolari - dalle quali non sono seguite però reali rotture delle regole del gioco sistemico, nemmeno a livello locale. Avevano iniziato i radicali, avanzando una manovra a tenaglia fondata sull'ostruzionismo parlamentare e sui referendum popolari, con qualche esito soddisfacente, dal loro punto di vista, conseguito con la istituzionalizzazione di alcune conquiste sociali (divorzio, aborto) che godevano di vasto consenso nel paese. Di recente, i verdi hanno visto naufragare la loro politica unitematica sull'ecologia, che muoveva dal basso e dalle sedi istituzionali. E per quanto mi consta personalmente, mi riferisco alla esperienza del Coordinamento Cittadino per la Partecipazione di Palermo durante l'era del sindaco Orlando, da me riportate come testimonianza in queste stesse pagine (si veda "A" l72 del marzo '90). Rinviando a quanto allora detto sui pregi e sui limiti, si possono così riassumere le obiezioni teoriche al municipalismo libertario (che non voglia gestire il potere locale con logiche libertarie, il che mi sembrerebbe quantomeno contraddittorio, oltre che difficilmente consentibile dal potere in atto).
Quali effetti reali produce un controllo dal basso, partecipato e autogestito, del potere istituzionale, oltre per tanto la denuncia e la controinformazione? Quale capacità di mobilitazione permanente occorre sviluppare per inceppare meccanismi legislativi a livello locale (ammesso che non siano automaticamente derivati di riflesso da ingiunzioni normative superiori)? Per operare svolte che incidono su comportamenti collettivi pubblici, quali vie non normative (cioè sociali e non politiche, per attenersi di comodo a sfere fittiziamente diversificate) occorre seguire? Come stabilizzare nel tempo, difendendole da attacchi e senza adoperare il metodo (e la logica) legislativo, situazioni che si ritengono eque e libertarie? Se questi sono i problemi di un intervento locale animato in modo partecipativo, libertario nei suoi fini (l'ampliamento delle sfere di azione pubblica, l'estensione di risorse e benefici, ecc.) e autogestito nelle sue modalità d'espressione, l'intrusione nei circuiti istituzionali, seppure locali, in Italia credo sia proprio l'unica strada da escludere senza remore.
Se l'anarchismo mira a far acquistare una consapevolezza ed una pratica estranea allo stato, cioè un'autonomia di solidarietà in grado di fare a meno dello stato, a tutti i livelli, per risolvere problemi di convivenza, occorre anche svuotare di senso e di legittimità i "palazzi del potere", le sedi palesi ove si esercita spesso un simulacro di dominio, a favore di luoghi occulti, ma che non di meno esprimono l'"aura sacra" del potere. La vanificazione come operazione simbolica è insufficiente ma necessaria, cosicché è bene non ricorrere minimamente ai "luoghi" del potere per veicolare istanze libertarie. Ciò contraddice il progetto municipalistico libertario, che ritiene di poter innestare elementi libertari in sedi istituzionali per stravolgerle. L'innesto è possibile, ma sovente al prezzo dell'auto-stravolgimento e dell'appiattimento finale sul profilo, sui metodi e le logiche di quelle sedi istituzionali.
Fermo restando la fantasia per sviluppare progetti locali di risoluzione collettiva di problemi sociali che faccia appello a valori differenti dal solito (solidarietà, difesa del più debole, ecc.) e che muova i propri passi parallelamente alla sfera decisionale politica per definizione, secondo logiche ad essa totalmente estranee. Ma questo è un altro capitolo da aprire.

Salvo Vaccaro
(Palermo)