Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 21 nr. 186
novembre 1991


Rivista Anarchica Online

Barricate a Mosca
di Alessio Vivo

Nei convulsi giorni del tentativo di golpe in Unione Sovietica, quando la possibilità di un esito sanguinoso era davvero presente, un ricercatore universitario italiano, a Mosca per lavoro, si è trovato, quasi per caso, a condividere su alcune barricate gestite dagli anarchici moscoviti, i momenti cruciali dell'opposizione al golpe. Quello che segue è il resoconto dei giorni e delle notti trascorse all'addiaccio. Il clima di umanità che emerge dal racconto e le esperienze raccolte lo rendono di grande interesse anche a distanza di mesi dal fallito golpe.

Nella breve ma dura resistenza al colpo di Stato di Mosca del 19 agosto la gioventù anarchica ha svolto un ruolo di primo piano. Un'altra pagina di storia è stata aggiunta in quei giorni, a dispetto del silenzio assoluto dei mezzi d'informazione e della stampa occidentale (ma non di tutta quella russa), alla già lunga e ricca vicenda del movimento anarchico russo. I manuali di storia dell'anarchismo che si fermano, considerando la rinascita del movimento in Europa, al maggio 1968, dovranno presto essere aggiornati con le pagine relative a Mosca 1991.
La gioventù anarchica ha mobilitato immediatamente, a poche ore dal colpo di Stato, tutti i suoi aderenti, che fra i primi sono accorsi nei luoghi cruciali dello scontro provocato dai decreti in conflitto di due poteri che hanno prodotto la frattura trasversale di un intero Paese. Insieme agli studenti e alla gente semplice hanno incominciato con un'attività frenetica e un'azione pronta e decisa a costruire le barricate e a disselciare il "Gorbatyj most" (il ponte gobbo sulla Krasnaja Presnja, sul quale la cavalleria zarista aveva caricato gli operai nel 1905). Anch'io, dall'inizio del mese a Mosca, sono accorso in quel quartiere, dove ha sede il Parlamento russo, fin dalle prime ore, perché l'unica speranza che la svolta autoritaria non passasse era riponibile esclusivamente nell'unico contro-potere esistente, dotato di sufficiente forza e legittimità: quello della Repubblica russa, da mesi impegnata in un duro contrasto su questioni cruciali con il centro dell'Unione, sempre più sottomesso alle pressioni del complesso militare-industriale e al Partito.
Nelle prime ore gli appelli rivolti alla gente nei sotterranei del metrò, nei quali circolavano volantini con proclami e venivano appesi i giornali passati alla clandestinità, richiedevano la presenza fisica di quanti più individui possibile, equipaggiati o meno, per dare una mano nell'organizzazione della difesa.
Fervevano i preparativi, circolavano le voci che annunciavano un imminente attacco. Le persone venivano organizzate, raggruppate in reparti coordinati, inizialmente con criteri spontanei, fra amici o parenti, ma poi anche come capitava e molti venivano inquadrati a caso. Così, per caso, mi sono ritrovato inquadrato nel primo "otrjad" (reparto) del "Sojuz anarchiceskoj molodezhi" (Unione della gioventù anarchica), che teneva tre barricate nei pressi del Parlamento russo, collegate fra loro da un efficiente sistema di comunicazione. La prima, quella che ostruiva l'accesso dalla Krasnaja Presnja, era già molto alta, composta di blocchi di cemento che venivano trascinati sull'asfalto, di travi pesantissime di legno e di lunghe sbarre di ferro, adatte ad infilarsi rovinosamente nei cingoli dei carri armati. Le altre due erano ancora in costruzione, soprattutto quella che era posta alla testa del Kalininskij Prospekt, poco distante dalla Moscova: per essere completata, quest'ultima, aveva ancora bisogno dell'opera delle gru, le uniche a poter spostare i pesanti blocchi di cemento dei quali sarebbe stata poi formata.
Questa imponente barricata, che avrebbe sbalordito l'architetto Hausmann, lo "sventratore di Parigi" dopo la Comune, era lunga come tutta la larghezza di una delle strade più imponenti di Mosca. Essa apparteneva alla gioventù anarchica, che vigilava sulla sua integrità e contro attacchi improvvisi di autoblindo o carri armati. Proprio su quella barricata con i giovani libertari ho trascorso le ore più drammatiche della lotta. Ero capitato con loro per caso, ma forse non troppo, perché i miei vecchi studi sulla storia dell'anarchismo russo, mi avevano subito spinto ad una simpatia spontanea nei loro confronti ed a far sì che le separazioni fra otrjady mi portassero automaticamente ad essere incluso nel loro reparto.
In quelle ore, in netto contrasto con la falsificazione spettacolarizzante operata dai mass-media, i quali inducevano a credere in Occidente che la crisi era di immediata e scontata soluzione, il pericolo imminente era quello di una guerra civile, tanto più cruenta quanto più procrastinata da un'estenuante attesa. L'esercito fin dalle prime ore era spaccato in fronti diametralmente opposti, nessuno poteva rimanere indifferente e tutti erano costretti a prendere posizione in base alle proprie più intime convinzioni. Prendere posizione era però già portare ad una frattura fra i cittadini e infatti alcuni, soprattutto anziani, appoggiavano apertamente la giunta golpista. Moltissimi moscoviti erano trattenuti in casa dalla paura dilagante, dall'incubo di un ritorno al passato già in atto. I decreti contrastanti accusavano il fronte opposto di essere fuorilegge e proclamavano che il processo per i crimini commessi contro la legge era prossimo. I provocatori dei servizi segreti cercavano di fomentare gli odi e di scatenare risse per poter poi arrestare la gente, soprattutto i più coraggiosi, che non avevano paura di parlare apertamente. Il KGB aveva sguinzagliato ovunque osservatori. Il panico si era impadronito della gente comune, tempestata di informazioni poco chiare e immersa in un clima di profonda incertezza. Già si affacciava il clima di sospetto reciproco dell'epoca brezneviana, misto a paura e ad angoscia, elementi tipici della situazione caratterizzata dalla guerra civile.
Era già stato proclamato lo sciopero generale politico e si parlava con insistenza di coprifuoco. I difensori del Parlamento russo erano già protagonisti e partecipanti di una guerra civile in incubazione. Solo la rabbia popolare gridava il rifiuto di una ricaduta nel terrore. La popolazione per le strade faceva appello ai soldati perché non sparassero, ma l'esercito e i singoli soldati che lo compongono sono sempre stati in quei casi due cose differenti.

Calma affascinante
Anche i giovani anarchici, sulla barricata del Kalininskij Prospekt, parlavano della possibilità di una svolta cinese improvvisa e della repressione che non si sarebbe fatta attendere forse tanto a lungo come in Cina. Nessuno poteva prevedere in effetti quale grado di radicalità, brutalità e disumanità quello stato d'eccezione avrebbe assunto. Lo scontro sembrava imminente e prossimo a radicalizzarsi in una progressiva escalation. Ne parlavano però con una calma affascinante, che mi attirava, insieme alla naturalità e alla spontaneità con la quale erano scesi per le strade. Non c'era mai sui loro volti l'ombra della paura, ma anzi i ragazzi vestiti di scuro per mimetizzarsi nella notte o con giacche color cachi, muniti di tascapane e borraccia per il combattimento urbano, nonché di scarpe adatte a camminare nel fango, fra le macerie e le ferraglie, e alcuni di loro con il fazzoletto rosso e nero al collo, spesso sorridevano e parlavano pacatamente e in modo educato, trovandosi perfettamente a loro agio in quel clima e su quelle strade, come se da sempre non si fossero preparati ad altro che a quegli eventi. Non avevano mai paura, ma lavoravano alacremente, perfettamente organizzati. Nemmeno quando veniva comunicato che dalle colline Lenin si preparava un attacco di proporzioni colossali per mezzo dei carri armati ed al quale sarebbe stato difficile resistere a mani nude, appariva qualche segno di panico. Nemmeno quando il 20, nel tardo pomeriggio, dalla zona del metro Barrikadnaja e dalla via Bol'shaja Gruzinskaja si annunciava un intervento delle autoblindo, poi avvenuto, con uno sfondamento infruttuoso, mi è mai capitato di vedere serpeggiare fra di loro segnali di paura. I giovani della Gioventù anarchica si spostavano nelle raffiche di vento gelido, nel fango, sotto la pioggia intermittente, trasportando ferraglie per rafforzare il nostro sbarramento anticarro, sul quale sventolava una bandiera nera con al centro una rossa A. Le mani erano sporche, spesso insanguinate per la costruzione delle barricate, i vestiti inzaccherati di spruzzi di fango.
Parlando con i giovani anarchici del mio reparto, sotto il grande muraglione, la sera del 20, quando un attacco era ormai imminente, mi sembrava impossibile avere ancora di fronte gli eredi di quei circoli anarchici operai della Krasnaja Presnja, che tanta attività avevano svolto nel '17; i pronipoti dei Bakunin, dei Kropotkin, dei Berkman e dei Volin, come in un volo a ritroso nella storia. I ragazzi si muovevano con compostezza e con decisione, quasi con una dignità antica e tutta russa, e sembravano gli unici, paragonabili soltanto agli "Afgantsy", i reduci dell'Afghanistan, a non temere nulla, ad essere sempre pronti, se fosse stato necessario, anche a finire sotto i cingoli dei carri armati pur di fermarli, per non tornare in ginocchio o nella più cupa e disperante clandestinità. Riuscivano a trasmettere anche a me, straniero, ma grazie alla conoscenza della lingua spesso scambiato per russo, quello straordinario coraggio.

Sotto un cielo plumbeo
Quella stessa sera del 20, accanto alla nostra barricata non passavano automobili. Le strade erano tutte sbarrate. Lontano, molto lontano, si sentivano le sirene delle ambulanze o delle automobili della polizia, il rombo delle autoblindo provenienti e dirette verso destinazioni ignote. Alle nostre spalle, accanto alla Moscova, tuonavano i megafoni dei più attivi organizzatori della resistenza, che dall'alto dei carri armati davano istruzioni alla gente sulla costruzione di barricate e sbarramenti, su come risolvere incombenze continue e su come suddividersi per non disperdere preziose energie. Le voci dei megafoni si perdevano nella vastità della città e avvolgevano quel frenetico organizzarsi come un velo delicato, tessuto dalla disperazione e dall'angoscia che traspariva anche dai gesti di chi parlava. Nella pioggia, nel freddo, sotto il cielo grigio, la grande e palpitante città precipitava sempre più rapidamente verso l'ignoto, verso avvenimenti che avrebbero cambiato il volto, e ce n'era consapevolezza, di un intero Paese. Per le strade il fango dei marciapiedi era stato calpestato da centinaia di stivali, di scarpe inzuppate dall'acqua e si faceva fatica a camminare. Nell'oscurità si inciampava in qualche ferraglia e in avanzi di barricate . La situazione era chiaramente sfuggita di mano anche a chi quel caos aveva provocato, cioè i golpisti. Il fiume scintillante nella luce rosa e grigiastra ci proteggeva le spalle, ma il ponte non era stato fatto saltare: era sbarrato solo da un'altra barricata.
Mosca in quei momenti era qualcosa di molto più grandioso della Parigi del Maggio francese e si avvicinava di molto alla Barcellona del '36. Il pericolo incombeva davvero e la gente era animata da uno straordinario spirito di collaborazione, si parlava cortesemente, ripristinando vecchie parole russe dimenticate da quasi un secolo.
I miei compagni di reparto udivano l'eco delle voci che passavano attraverso i megafoni, ma non si scomponevano. Era come se già perfettamente sapessero come comportarsi, perfino meglio di coloro che avevano avuto esperienza nell'esercito e che ora la mettevano al servizio della popolazione minacciata di una strage. Un ragazzo giovane dei nostri, Volodja, dai capelli biondi, in quella sera (che precedeva la notte di sangue), dal cielo plumbeo che lasciava filtrare pochi raggi del tramonto e che preannunciava storici eventi, aveva acceso un fuoco proprio alla base della barricata.
Sedevamo poco dopo su casse di legno, assi e blocchi di cemento tutti insieme là attorno a parlare, quando presso la Moscova c'era ancora confusione di gente in movimento. Attorno al fuoco gli occhi riverberavano il luccichio delle fiamme.
I ragazzi parlavano con voci calme, come di fronte a qualcosa di perfettamente naturale. Mi sembrava un'immagine già vista, e infatti mi tornavano in mente le fotografie dei rivoluzionari armati, seduti accanto ad un falò per scaldarsi, nell'inverno del '17.
Ad un centinaio di metri, sotto il palazzo del "Sev" (il Comecon), ormai deserto e spettrale, c'era la seconda barricata del primo reparto della Gioventù anarchica; meno elevata e meno protetta alle spalle, sulla quale stava in piedi, impavida (e pericolo c'era, perché già nei palazzi di fronte si aggiravano i tiratori scelti degli "spetsnaz"), una ragazza che reggeva una bandiera rossa e nera, con i colori separati da una linea obliqua al centro. Alcune persone, che ancora scavalcavano le barricate per dirigersi verso il Palazzo bianco si fermavano a parlare, molti riconoscendo la bandiera e dilungandosi in racconti di ricordi, magari tramandati in famiglia, legati a quel simbolo tanto carico di storia in Russia. La ragazza, Nadja, sorrideva. Vedevamo tutto stando accovacciati dietro la nostra barricata. Con noi c'erano, oltre a giovani di vent'anni o poco più, anche ragazze che non temevano nulla, a differenza di quelle aggregate alle altre barricate, dove già aveva luogo l'istruzione per resistere agli attacchi con i gas lacrimogeni o gli agenti chimici e dove le ragazze costituivano una costante preoccupazione che, nei momenti di allarme, aveva spinto ad allontanarle ripetutamente e al relegarle negli ambulatori medici di fortuna. Regnava la convinzione diffusa che i golpisti avrebbero attaccato quella notte: così è stato.

"In Occidente sapranno tutto questo?"
Alla nostra barricata si parlava di come agire, poiché il nostro era un gruppo a sé, con proprie regole e una propria autonomia. Non c'erano armi ed era difficile che se fossero state distribuite, come era stato comunicato ai più vicini difensori del Palazzo bianco, in caso di attacco sarebbero giunte fino a noi. Forse le avrebbero ricevute solo quei giovani anarchici che tenevano la barricata non lontano dal "Gorbatyj most" e che in quei momenti avevano costruito una nicchia proprio sotto lo sbarramento, per coricarsi con le coperte e riposare a turno o per costruire un tavolo a semicerchio al quale sedersi a parlare. Ogni tanto, quando l'emergenza finiva, mi recavo anch'io da loro. Già alla sera venivano preparate le uniche armi disponibili: le bottiglie incendiarie. Le maschere antigas non bastavano per tutti, ma c'era chi nel nostro reparto ne aveva una.
Nelle cupe notti d'angoscia i giovani anarchici non hanno mai dato segni di cedimento. "In occidente sapranno tutto,questo?", mi chiedevano. Li rassicuravo dicendo che ne avrei scritto, ma sapevo che i mezzi di comunicazione di massa non sarebbero stati nemmeno minimamente in grado di dare un'idea della realtà di quei giorni e che cercare di spiegare, di raccontare essendo poi creduti sarebbe stata un'impresa disperata, a fronte delle idee distorte cui sarebbero stati condannati i cittadini d'occidente, illusi di possedere oltretutto una super-informazione.
Accanto alla nostra barricata campeggiavano sugli edifici enormi scritte, alcune tracciate dagli anarchici stessi: "Doloj Chuntu!" (Abbasso la giunta!); "No pasaran!" "Kommunisty putchisty!" e tante altre.
Ogni tanto qualcuno si arrampicava sui lastroni di cemento della nostra barricata, contro i quali i carri armati non avrebbero probabilmente potuto far nulla, e si affacciavano a guardare dall'altra parte, accanto all'asta della bandiera. Ogni tanto passavano giovani con la fascia tricolore della Repubblica russa al braccio. Alcuni più avanti avevano fatto saltare tutte le lampadine dei sottopassaggi pedonali, per evitare incursioni dei corpi speciali. Vigeva anche fra le nostre fila una disciplina spontanea e ferrea, non imposta da nessuno, della quale qualsiasi generale impegnato in operazioni belliche avrebbe potuto essere invidioso, senza riuscire a comprenderla.
Il cielo continuava a piangere sulla Russia. Il suo destino era in pericolo mortale e già giungevano le voci dell'invio di truppe asiatiche ostili ai moscoviti, proprio come con la Tien An Men era stato fatto nella repressione cinese. I giovani anarchici non erano però spaventati dall'idea, quanto mai probabile, di dover pagare di persona. Il comandante della città gliela aveva giurata: il coprifuoco avrebbe permesso di arrestarli tutti e di incarcerarli (così sarebbero stati utilizzati gli ordinativi di manette d'acciaio destinate agli oppositori). Inoltre, la sua calunnia circa la presenza di elementi delinquenziali sulle barricate (che ancora oggi circola in Occidente e non solo fra i superstiti stalinisti), era indirizzata soprattutto ai giovani libertari e alla nuova generazione, che i golpisti, accecati dallo stereotipo del russo "bestia da soma", non si aspettavano di trovarsi di fronte tanto decisi.
Le divisioni interne, estremamente complicate, fra i gruppi anarchici russi (ma anche per tradizione storica), delle quali i ragazzi mi spiegavano, erano in quei giorni del tutto insensibili ed era come se non esistessero, annullate da un impeto di rivolta che univa tutti. Per questo non ne parlo qui, e non solo perché sarebbe troppo lungo, ma perché in quei giorni non contavano affatto.
Nella notte di sangue, fra il 20 e il 21 agosto, prima di tutto arrivò un avviso diramato da Stankievich e relativo all'attacco di 10 autobus carichi di forze speciali addestratissime. Per cinque volte poi si ripeterono falsi allarmi e solo il caso ha permesso che il peggio non avvenisse. Agli scontri sul Sadovoe Kol'co erano presenti anche alcuni anarchici, accorsi sul luogo immediatamente. Gli incursori correvano armati sui tetti degli edifici, i tiratori scelti erano appostati da lungo tempo. Alcuni armati del Kgb, mezzi vestiti in borghese e mezzi in tenuta militare, correvano fra le vie con borse sportive nelle quali nascondevano le armi. I ragazzi del mio reparto correvano anch'essi da un posto all'altro a dare man forte, ma alcuni erano rimasti a guardia delle barricate. Era pericoloso correre lungo le vie. Non traspariva la stanchezza, almeno non sui loro volti. Eppure stanchi dovevano esserlo, e affamati, ormai con i nervi a pezzi per la lunga attesa e i continui falsi allarmi, alcuni dei quali terribili da sopportare, come quello dell'attacco imminente da parte della Divizija Vitebskaja, il mattino del 21, appoggiata dagli incursori aerei del KGB. La tradizione dei combattimenti stradali non era più viva da tempo a Mosca. Eppure era stata spontanea e calibrata l'organizzazione che precludeva ai combattimenti, con anche l'impiego di una tattica precisa.

Felicità incontenibile
Ci si sentiva separati dal resto del mondo, quella notte, e si sapeva che nessuno avrebbe potuto aiutarci. La sera erano arrivati messaggi dalle Repubbliche baltiche con la preghiera di resistere, perché tutte le speranze erano riposte sulla nostra resistenza. Si fumava accanto al fuoco, pensando alla gente rimasta a casa, all'impossibilità di avvertire perché i telefoni erano lontanissimi ed era pericoloso raggiungerli. Tutta la notte occorreva prestar orecchio alle comunicazioni che i giovani anarchici si scambiavano, su quale direzione avrebbero preso le autoblindo nemiche. L'atmosfera pre-insurrezionale del 19 e del 20 si era trasformata in vero e proprio clima rivoluzionario. Le notizie che arrivavano sugli scontri, parlavano di morti e feriti. C'era una calma che faceva paura. In città si sparava. Avevo già conosciuto la paura in Russia, prima delle riforme: i controlli spietati, le schedature come occidentale, gli interrogatori ingiustificati. Nemmeno per me era una novità. Così riuscivo a mantenermi come i giovani che mi stavano accanto, lucido, immerso nell'ebbrezza delle barricate e dello scontro imminente, della resa dei conti, dell'orgogliosa autodifesa. Come i giovani libertari e insieme a tanti altri, sentivo che era venuto il momento di farla pagare una volta per tutte a chi tante sofferenze aveva inferto in un settantennio al popolo russo.
Anche alle nostre spalle, dietro la nostra barricata sul Kalininskij Prospekt, dalla parte del Gostinitsa Ukraina, c'è stato un tentativo di sfondamento da parte delle forze armate: per fortuna non riuscito.
L'umidità penetrava nelle ossa, il freddo non dava tregua. Ormai verso la fine, ma quando non si sapeva ancora che i golpisti erano stati sconfitti e che preparavano la fuga, la direzione del primo otrjad degli anarchici aveva deciso di attaccare lo Stato Maggiore. Era però un'azione ormai inutile. Le stesse intenzioni affioreranno anche dopo la vittoria, con la proposta dell'occupazione del famigerato Palazzo della Lubianka, sede del KGB, in occasione del rovesciamento della Statua di Dzerzhinskij. Non si trattava però mai di azioni plateali, ma di decisioni calcolate lucidamente.
La vittoria ha portato una felicità incontenibile anche nelle file dei giovani anarchici, che però hanno deciso di non interrompere l'onda lunga della loro azione. Aleksandr Cervjakov, uno dei militanti più attivi, continuava ad ammonire che le forze della reazione erano ancora in movimento, ed aveva ragione. Oltre ad avvertire che il golpe era solo uno dei tentativi di svolta autoritaria nella lunga catena di esse manifestatasi a partire da un anno e mezzo a questa parte, esortava i compagni a vigilare e ad organizzarsi, a portare a compimento azioni decisive.
Infatti, le forze speciali, e non solo le schegge impazzite delle forze del Ministero degli Interni, hanno agito almeno fino al 23 agosto nei sotterranei dei ministeri e delle sedi di partito, per distruggere documenti e comunicazioni riguardanti il colpo di Stato e il periodo precedente ad esso.
Pochi giorni dopo la vittoria popolare i giovani anarchici hanno occupato sulla Bol'shaja Gruzinskaja, il Museo del Komsomol (la gioventù comunista, oggi sciolta) e l'hanno tenuto per una sera e una notte, bivaccandovi e vigilando, finché non è intervenuta la polizia, che li ha trascinati fuori, fermati e interrogati al commissariato di zona. Maksim, uno dei partecipanti all'occupazione, da tempo aveva preparato l'azione. C'erano anche numerose ragazze, con fasce nere al braccio o che tenevano i capelli.
All'atto dell'espulsione erano rimaste nel cortile del museo, sotto la pioggia, come se niente le avesse spaventate. Una di loro, sui vent'anni e vestita di nero che contrastava con i capelli biondissimi, teneva fra le braccia un gattino e lo accarezzava sotto l'acqua. Ecco, questa forse è l'immagine che più simboleggia la dolcezza e la semplicità che ha segnato il contributo dei giovani anarchici russi alla sconfitta della nuova dittatura, l'immagine che ricordo con più commozione perché legata al momento in cui tutto sembrava concluso e nessuno sarebbe andato a dire loro grazie per quello che avevano fatto, destinati per natura come sono a dover ricominciare sempre daccapo, a contrastare i soprusi di qualunque potere.