Nei convulsi giorni del tentativo di golpe in Unione
Sovietica, quando la possibilità di un esito sanguinoso era
davvero presente, un ricercatore universitario italiano, a Mosca per
lavoro, si è trovato, quasi per caso, a condividere su
alcune barricate gestite dagli anarchici moscoviti, i momenti
cruciali dell'opposizione al golpe. Quello che segue è
il resoconto dei giorni e delle notti trascorse all'addiaccio. Il
clima di umanità che emerge dal racconto e le esperienze
raccolte lo rendono di grande interesse anche a distanza di mesi dal
fallito golpe.
Nella breve ma dura resistenza al colpo di Stato di Mosca del
19 agosto la gioventù anarchica ha svolto un ruolo di primo
piano. Un'altra pagina di storia è stata aggiunta in quei
giorni, a dispetto del silenzio assoluto dei mezzi d'informazione e
della stampa occidentale (ma non di tutta quella russa), alla già
lunga e ricca vicenda del movimento anarchico russo. I manuali di
storia dell'anarchismo che si fermano, considerando la rinascita del
movimento in Europa, al maggio 1968, dovranno presto essere
aggiornati con le pagine relative a Mosca 1991.
La gioventù anarchica ha mobilitato immediatamente, a poche
ore dal colpo di Stato, tutti i suoi aderenti, che fra i primi
sono accorsi nei luoghi cruciali dello scontro provocato dai decreti
in conflitto di due poteri che hanno prodotto la frattura
trasversale di un intero Paese. Insieme agli studenti e alla gente
semplice hanno incominciato con un'attività frenetica e
un'azione pronta e decisa a costruire le barricate e a disselciare
il "Gorbatyj most" (il ponte gobbo sulla Krasnaja Presnja,
sul quale la cavalleria zarista aveva caricato gli operai nel 1905).
Anch'io, dall'inizio del mese a Mosca, sono accorso in quel
quartiere, dove ha sede il Parlamento russo, fin dalle prime ore,
perché l'unica speranza che la svolta autoritaria non
passasse era riponibile esclusivamente nell'unico contro-potere
esistente, dotato di sufficiente forza e legittimità: quello
della Repubblica russa, da mesi impegnata in un duro contrasto su
questioni cruciali con il centro dell'Unione, sempre più
sottomesso alle pressioni del complesso militare-industriale e al
Partito. Nelle prime ore gli appelli rivolti alla gente nei
sotterranei del metrò, nei quali circolavano volantini con
proclami e venivano appesi i giornali passati alla clandestinità,
richiedevano la presenza fisica di quanti più individui
possibile, equipaggiati o meno, per dare una mano
nell'organizzazione della difesa. Fervevano i preparativi,
circolavano le voci che annunciavano un imminente attacco. Le
persone venivano organizzate, raggruppate in reparti coordinati,
inizialmente con criteri spontanei, fra amici o parenti, ma poi
anche come capitava e molti venivano inquadrati a caso. Così,
per caso, mi sono ritrovato inquadrato nel primo "otrjad"
(reparto) del "Sojuz anarchiceskoj molodezhi" (Unione
della gioventù anarchica), che teneva tre barricate nei
pressi del Parlamento russo, collegate fra loro da un efficiente
sistema di comunicazione. La prima, quella che ostruiva l'accesso
dalla Krasnaja Presnja, era già molto alta, composta di
blocchi di cemento che venivano trascinati sull'asfalto, di travi
pesantissime di legno e di lunghe sbarre di ferro, adatte ad
infilarsi rovinosamente nei cingoli dei carri armati. Le altre due
erano ancora in costruzione, soprattutto quella che era posta alla
testa del Kalininskij Prospekt, poco distante dalla Moscova: per
essere completata, quest'ultima, aveva ancora bisogno dell'opera
delle gru, le uniche a poter spostare i pesanti blocchi di cemento
dei quali sarebbe stata poi formata. Questa imponente barricata,
che avrebbe sbalordito l'architetto Hausmann, lo "sventratore
di Parigi" dopo la Comune, era lunga come tutta la
larghezza di una delle strade più imponenti di Mosca. Essa
apparteneva alla gioventù anarchica, che vigilava sulla sua
integrità e contro attacchi improvvisi di autoblindo o carri
armati. Proprio su quella barricata con i giovani libertari ho
trascorso le ore più drammatiche della lotta. Ero capitato
con loro per caso, ma forse non troppo, perché i miei vecchi
studi sulla storia dell'anarchismo russo, mi avevano subito spinto
ad una simpatia spontanea nei loro confronti ed a far sì che
le separazioni fra otrjady mi portassero automaticamente ad essere
incluso nel loro reparto. In quelle ore, in netto contrasto con
la falsificazione spettacolarizzante operata dai mass-media, i quali
inducevano a credere in Occidente che la crisi era di immediata e
scontata soluzione, il pericolo imminente era quello di una guerra
civile, tanto più cruenta quanto più procrastinata da
un'estenuante attesa. L'esercito fin dalle prime ore era spaccato in
fronti diametralmente opposti, nessuno poteva rimanere indifferente
e tutti erano costretti a prendere posizione in base alle proprie
più intime convinzioni. Prendere posizione era però
già portare ad una frattura fra i cittadini e infatti alcuni,
soprattutto anziani, appoggiavano apertamente la giunta golpista.
Moltissimi moscoviti erano trattenuti in casa dalla paura dilagante,
dall'incubo di un ritorno al passato già in atto. I decreti
contrastanti accusavano il fronte opposto di essere fuorilegge e
proclamavano che il processo per i crimini commessi contro la legge
era prossimo. I provocatori dei servizi segreti cercavano di
fomentare gli odi e di scatenare risse per poter poi arrestare la
gente, soprattutto i più coraggiosi, che non avevano paura di
parlare apertamente. Il KGB aveva sguinzagliato ovunque osservatori.
Il panico si era impadronito della gente comune, tempestata di
informazioni poco chiare e immersa in un clima di profonda
incertezza. Già si affacciava il clima di sospetto reciproco
dell'epoca brezneviana, misto a paura e ad angoscia, elementi
tipici della situazione caratterizzata dalla guerra civile. Era
già stato proclamato lo sciopero generale politico e si
parlava con insistenza di coprifuoco. I difensori del Parlamento
russo erano già protagonisti e partecipanti di una guerra
civile in incubazione. Solo la rabbia popolare gridava il rifiuto di
una ricaduta nel terrore. La popolazione per le strade faceva
appello ai soldati perché non sparassero, ma l'esercito e i
singoli soldati che lo compongono sono sempre stati in quei casi due
cose differenti.
Calma affascinante
Anche i giovani anarchici, sulla barricata del Kalininskij
Prospekt, parlavano della possibilità di una svolta cinese
improvvisa e della repressione che non si sarebbe fatta attendere
forse tanto a lungo come in Cina. Nessuno poteva prevedere in
effetti quale grado di radicalità, brutalità e
disumanità quello stato d'eccezione avrebbe assunto. Lo
scontro sembrava imminente e prossimo a radicalizzarsi in una
progressiva escalation. Ne parlavano però con una calma
affascinante, che mi attirava, insieme alla naturalità e alla
spontaneità con la quale erano scesi per le strade. Non c'era
mai sui loro volti l'ombra della paura, ma anzi i ragazzi vestiti di
scuro per mimetizzarsi nella notte o con giacche color cachi, muniti
di tascapane e borraccia per il combattimento urbano, nonché
di scarpe adatte a camminare nel fango, fra le macerie e le
ferraglie, e alcuni di loro con il fazzoletto rosso e nero al collo,
spesso sorridevano e parlavano pacatamente e in modo educato,
trovandosi perfettamente a loro agio in quel clima e su quelle
strade, come se da sempre non si fossero preparati ad altro che a
quegli eventi. Non avevano mai paura, ma lavoravano alacremente,
perfettamente organizzati. Nemmeno quando veniva comunicato che
dalle colline Lenin si preparava un attacco di proporzioni colossali
per mezzo dei carri armati ed al quale sarebbe stato difficile
resistere a mani nude, appariva qualche segno di panico. Nemmeno
quando il 20, nel tardo pomeriggio, dalla zona del metro
Barrikadnaja e dalla via Bol'shaja Gruzinskaja si annunciava un
intervento delle autoblindo, poi avvenuto, con uno sfondamento
infruttuoso, mi è mai capitato di vedere serpeggiare fra di
loro segnali di paura. I giovani della Gioventù anarchica si
spostavano nelle raffiche di vento gelido, nel fango, sotto la
pioggia intermittente, trasportando ferraglie per rafforzare il
nostro sbarramento anticarro, sul quale sventolava una bandiera nera
con al centro una rossa A. Le mani erano sporche, spesso
insanguinate per la costruzione delle barricate, i vestiti
inzaccherati di spruzzi di fango. Parlando con i giovani
anarchici del mio reparto, sotto il grande muraglione, la sera del
20, quando un attacco era ormai imminente, mi sembrava impossibile
avere ancora di fronte gli eredi di quei circoli anarchici operai
della Krasnaja Presnja, che tanta attività avevano svolto nel
'17; i pronipoti dei Bakunin, dei Kropotkin, dei Berkman e dei
Volin, come in un volo a ritroso nella storia. I ragazzi si
muovevano con compostezza e con decisione, quasi con una dignità
antica e tutta russa, e sembravano gli unici, paragonabili soltanto
agli "Afgantsy", i reduci dell'Afghanistan, a non temere
nulla, ad essere sempre pronti, se fosse stato necessario, anche a
finire sotto i cingoli dei carri armati pur di fermarli, per non
tornare in ginocchio o nella più cupa e disperante
clandestinità. Riuscivano a trasmettere anche a me,
straniero, ma grazie alla conoscenza della lingua spesso scambiato
per russo, quello straordinario coraggio.
Sotto un cielo plumbeo
Quella stessa sera del 20, accanto alla nostra barricata non
passavano automobili. Le strade erano tutte sbarrate. Lontano,
molto lontano, si sentivano le sirene delle ambulanze o delle
automobili della polizia, il rombo delle autoblindo provenienti e
dirette verso destinazioni ignote. Alle nostre spalle, accanto alla
Moscova, tuonavano i megafoni dei più attivi organizzatori
della resistenza, che dall'alto dei carri armati davano istruzioni
alla gente sulla costruzione di barricate e sbarramenti, su come
risolvere incombenze continue e su come suddividersi per non
disperdere preziose energie. Le voci dei megafoni si perdevano nella
vastità della città e avvolgevano quel frenetico
organizzarsi come un velo delicato, tessuto dalla disperazione e
dall'angoscia che traspariva anche dai gesti di chi parlava. Nella
pioggia, nel freddo, sotto il cielo grigio, la grande e palpitante
città precipitava sempre più rapidamente verso
l'ignoto, verso avvenimenti che avrebbero cambiato il volto, e ce
n'era consapevolezza, di un intero Paese. Per le strade il fango dei
marciapiedi era stato calpestato da centinaia di stivali, di scarpe
inzuppate dall'acqua e si faceva fatica a camminare. Nell'oscurità
si inciampava in qualche ferraglia e in avanzi di barricate . La
situazione era chiaramente sfuggita di mano anche a chi quel caos
aveva provocato, cioè i golpisti. Il fiume scintillante nella
luce rosa e grigiastra ci proteggeva le spalle, ma il ponte non era
stato fatto saltare: era sbarrato solo da un'altra barricata. Mosca
in quei momenti era qualcosa di molto più grandioso della
Parigi del Maggio francese e si avvicinava di molto alla Barcellona
del '36. Il pericolo incombeva davvero e la gente era animata da uno
straordinario spirito di collaborazione, si parlava cortesemente,
ripristinando vecchie parole russe dimenticate da quasi un secolo. I
miei compagni di reparto udivano l'eco delle voci che passavano
attraverso i megafoni, ma non si scomponevano. Era come se già
perfettamente sapessero come comportarsi, perfino meglio di coloro
che avevano avuto esperienza nell'esercito e che ora la mettevano al
servizio della popolazione minacciata di una strage. Un ragazzo
giovane dei nostri, Volodja, dai capelli biondi, in quella sera (che
precedeva la notte di sangue), dal cielo plumbeo che lasciava
filtrare pochi raggi del tramonto e che preannunciava storici
eventi, aveva acceso un fuoco proprio alla base della
barricata. Sedevamo poco dopo su casse di legno, assi e blocchi
di cemento tutti insieme là attorno a parlare, quando
presso la Moscova c'era ancora confusione di gente in movimento.
Attorno al fuoco gli occhi riverberavano il luccichio delle fiamme.
I ragazzi parlavano con voci calme, come di fronte a qualcosa di
perfettamente naturale. Mi sembrava un'immagine già vista, e
infatti mi tornavano in mente le fotografie dei rivoluzionari
armati, seduti accanto ad un falò per scaldarsi, nell'inverno
del '17. Ad un centinaio di metri, sotto il palazzo del "Sev"
(il Comecon), ormai deserto e spettrale, c'era la seconda
barricata del primo reparto della Gioventù anarchica; meno
elevata e meno protetta alle spalle, sulla quale stava in piedi,
impavida (e pericolo c'era, perché già nei palazzi di
fronte si aggiravano i tiratori scelti degli "spetsnaz"),
una ragazza che reggeva una bandiera rossa e nera, con i colori
separati da una linea obliqua al centro. Alcune persone, che ancora
scavalcavano le barricate per dirigersi verso il Palazzo bianco si
fermavano a parlare, molti riconoscendo la bandiera e dilungandosi
in racconti di ricordi, magari tramandati in famiglia, legati a quel
simbolo tanto carico di storia in Russia. La ragazza, Nadja,
sorrideva. Vedevamo tutto stando accovacciati dietro la nostra
barricata. Con noi c'erano, oltre a giovani di vent'anni o poco
più, anche ragazze che non temevano nulla, a differenza di
quelle aggregate alle altre barricate, dove già aveva luogo
l'istruzione per resistere agli attacchi con i gas lacrimogeni o
gli agenti chimici e dove le ragazze costituivano una costante
preoccupazione che, nei momenti di allarme, aveva spinto ad
allontanarle ripetutamente e al relegarle negli ambulatori medici di
fortuna. Regnava la convinzione diffusa che i golpisti avrebbero
attaccato quella notte: così è stato.
"In Occidente sapranno tutto questo?"
Alla nostra barricata si parlava di come agire, poiché il
nostro era un gruppo a sé, con proprie regole e una
propria autonomia. Non c'erano armi ed era difficile che se fossero
state distribuite, come era stato comunicato ai più vicini
difensori del Palazzo bianco, in caso di attacco sarebbero giunte
fino a noi. Forse le avrebbero ricevute solo quei giovani anarchici
che tenevano la barricata non lontano dal "Gorbatyj most"
e che in quei momenti avevano costruito una nicchia proprio sotto lo
sbarramento, per coricarsi con le coperte e riposare a turno o per
costruire un tavolo a semicerchio al quale sedersi a parlare. Ogni
tanto, quando l'emergenza finiva, mi recavo anch'io da loro. Già
alla sera venivano preparate le uniche armi disponibili: le
bottiglie incendiarie. Le maschere antigas non bastavano per tutti,
ma c'era chi nel nostro reparto ne aveva una. Nelle cupe notti
d'angoscia i giovani anarchici non hanno mai dato segni di
cedimento. "In occidente sapranno tutto,questo?", mi
chiedevano. Li rassicuravo dicendo che ne avrei scritto, ma sapevo
che i mezzi di comunicazione di massa non sarebbero stati nemmeno
minimamente in grado di dare un'idea della realtà di quei
giorni e che cercare di spiegare, di raccontare essendo poi creduti
sarebbe stata un'impresa disperata, a fronte delle idee distorte cui
sarebbero stati condannati i cittadini d'occidente, illusi di
possedere oltretutto una super-informazione. Accanto alla nostra
barricata campeggiavano sugli edifici enormi scritte, alcune
tracciate dagli anarchici stessi: "Doloj Chuntu!" (Abbasso
la giunta!); "No pasaran!" "Kommunisty putchisty!"
e tante altre. Ogni tanto qualcuno si arrampicava sui lastroni di
cemento della nostra barricata, contro i quali i carri armati non
avrebbero probabilmente potuto far nulla, e si affacciavano a
guardare dall'altra parte, accanto all'asta della bandiera. Ogni
tanto passavano giovani con la fascia tricolore della Repubblica
russa al braccio. Alcuni più avanti avevano fatto saltare
tutte le lampadine dei sottopassaggi pedonali, per evitare
incursioni dei corpi speciali. Vigeva anche fra le nostre fila una
disciplina spontanea e ferrea, non imposta da nessuno, della quale
qualsiasi generale impegnato in operazioni belliche avrebbe potuto
essere invidioso, senza riuscire a comprenderla. Il cielo
continuava a piangere sulla Russia. Il suo destino era in pericolo
mortale e già giungevano le voci dell'invio di truppe
asiatiche ostili ai moscoviti, proprio come con la Tien An Men era
stato fatto nella repressione cinese. I giovani anarchici non
erano però spaventati dall'idea, quanto mai probabile, di
dover pagare di persona. Il comandante della città gliela
aveva giurata: il coprifuoco avrebbe permesso di arrestarli tutti e
di incarcerarli (così sarebbero stati utilizzati gli
ordinativi di manette d'acciaio destinate agli oppositori). Inoltre,
la sua calunnia circa la presenza di elementi delinquenziali sulle
barricate (che ancora oggi circola in Occidente e non solo fra i
superstiti stalinisti), era indirizzata soprattutto ai giovani
libertari e alla nuova generazione, che i golpisti, accecati dallo
stereotipo del russo "bestia da soma", non si aspettavano
di trovarsi di fronte tanto decisi. Le divisioni interne,
estremamente complicate, fra i gruppi anarchici russi (ma anche per
tradizione storica), delle quali i ragazzi mi spiegavano, erano
in quei giorni del tutto insensibili ed era come se non esistessero,
annullate da un impeto di rivolta che univa tutti. Per questo non ne
parlo qui, e non solo perché sarebbe troppo lungo, ma perché
in quei giorni non contavano affatto. Nella notte di sangue, fra
il 20 e il 21 agosto, prima di tutto arrivò un avviso
diramato da Stankievich e relativo all'attacco di 10 autobus carichi
di forze speciali addestratissime. Per cinque volte poi si
ripeterono falsi allarmi e solo il caso ha permesso che il peggio
non avvenisse. Agli scontri sul Sadovoe Kol'co erano presenti anche
alcuni anarchici, accorsi sul luogo immediatamente. Gli incursori
correvano armati sui tetti degli edifici, i tiratori scelti erano
appostati da lungo tempo. Alcuni armati del Kgb, mezzi vestiti in
borghese e mezzi in tenuta militare, correvano fra le vie con
borse sportive nelle quali nascondevano le armi. I ragazzi del mio
reparto correvano anch'essi da un posto all'altro a dare man forte,
ma alcuni erano rimasti a guardia delle barricate. Era pericoloso
correre lungo le vie. Non traspariva la stanchezza, almeno non sui
loro volti. Eppure stanchi dovevano esserlo, e affamati, ormai con i
nervi a pezzi per la lunga attesa e i continui falsi allarmi, alcuni
dei quali terribili da sopportare, come quello dell'attacco
imminente da parte della Divizija Vitebskaja, il mattino del 21,
appoggiata dagli incursori aerei del KGB. La tradizione dei
combattimenti stradali non era più viva da tempo a Mosca.
Eppure era stata spontanea e calibrata l'organizzazione che
precludeva ai combattimenti, con anche l'impiego di una tattica
precisa.
Felicità incontenibile
Ci si sentiva separati dal resto del mondo, quella notte, e si
sapeva che nessuno avrebbe potuto aiutarci. La sera erano arrivati
messaggi dalle Repubbliche baltiche con la preghiera di resistere,
perché tutte le speranze erano riposte sulla nostra
resistenza. Si fumava accanto al fuoco, pensando alla gente rimasta
a casa, all'impossibilità di avvertire perché i
telefoni erano lontanissimi ed era pericoloso raggiungerli. Tutta la
notte occorreva prestar orecchio alle comunicazioni che i giovani
anarchici si scambiavano, su quale direzione avrebbero preso le
autoblindo nemiche. L'atmosfera pre-insurrezionale del 19 e del 20
si era trasformata in vero e proprio clima rivoluzionario. Le
notizie che arrivavano sugli scontri, parlavano di morti e feriti.
C'era una calma che faceva paura. In città si sparava. Avevo
già conosciuto la paura in Russia, prima delle riforme: i
controlli spietati, le schedature come occidentale, gli
interrogatori ingiustificati. Nemmeno per me era una novità.
Così riuscivo a mantenermi come i giovani che mi stavano
accanto, lucido, immerso nell'ebbrezza delle barricate e dello
scontro imminente, della resa dei conti, dell'orgogliosa autodifesa.
Come i giovani libertari e insieme a tanti altri, sentivo che era
venuto il momento di farla pagare una volta per tutte a chi tante
sofferenze aveva inferto in un settantennio al popolo russo. Anche
alle nostre spalle, dietro la nostra barricata sul Kalininskij
Prospekt, dalla parte del Gostinitsa Ukraina, c'è stato un
tentativo di sfondamento da parte delle forze armate: per fortuna
non riuscito. L'umidità penetrava nelle ossa, il freddo
non dava tregua. Ormai verso la fine, ma quando non si sapeva
ancora che i golpisti erano stati sconfitti e che preparavano la
fuga, la direzione del primo otrjad degli anarchici aveva deciso di
attaccare lo Stato Maggiore. Era però un'azione ormai
inutile. Le stesse intenzioni affioreranno anche dopo la
vittoria, con la proposta dell'occupazione del famigerato Palazzo
della Lubianka, sede del KGB, in occasione del rovesciamento della
Statua di Dzerzhinskij. Non si trattava però mai di azioni
plateali, ma di decisioni calcolate lucidamente. La vittoria ha
portato una felicità incontenibile anche nelle file dei
giovani anarchici, che però hanno deciso di non interrompere
l'onda lunga della loro azione. Aleksandr Cervjakov, uno dei
militanti più attivi, continuava ad ammonire che le forze
della reazione erano ancora in movimento, ed aveva ragione. Oltre ad
avvertire che il golpe era solo uno dei tentativi di svolta
autoritaria nella lunga catena di esse manifestatasi a partire da un
anno e mezzo a questa parte, esortava i compagni a vigilare e ad
organizzarsi, a portare a compimento azioni decisive. Infatti, le
forze speciali, e non solo le schegge impazzite delle forze del
Ministero degli Interni, hanno agito almeno fino al 23 agosto nei
sotterranei dei ministeri e delle sedi di partito, per distruggere
documenti e comunicazioni riguardanti il colpo di Stato e il periodo
precedente ad esso. Pochi giorni dopo la vittoria popolare i
giovani anarchici hanno occupato sulla Bol'shaja Gruzinskaja, il
Museo del Komsomol (la gioventù comunista, oggi sciolta) e
l'hanno tenuto per una sera e una notte, bivaccandovi e vigilando,
finché non è intervenuta la polizia, che li ha
trascinati fuori, fermati e interrogati al commissariato di zona.
Maksim, uno dei partecipanti all'occupazione, da tempo aveva
preparato l'azione. C'erano anche numerose ragazze, con fasce nere
al braccio o che tenevano i capelli. All'atto dell'espulsione
erano rimaste nel cortile del museo, sotto la pioggia, come se
niente le avesse spaventate. Una di loro, sui vent'anni e vestita di
nero che contrastava con i capelli biondissimi, teneva fra le
braccia un gattino e lo accarezzava sotto l'acqua. Ecco, questa
forse è l'immagine che più simboleggia la dolcezza e
la semplicità che ha segnato il contributo dei giovani
anarchici russi alla sconfitta della nuova dittatura, l'immagine che
ricordo con più commozione perché legata al momento in
cui tutto sembrava concluso e nessuno sarebbe andato a dire loro
grazie per quello che avevano fatto, destinati per natura come sono
a dover ricominciare sempre daccapo, a contrastare i soprusi di
qualunque potere.