Che sempre viva la gestione unitaria di Carlo Oliva
L'esito dell'ultimo congresso della CGIL ha rivelato uno
scarso interesse della più grande confederazione italiana per
i più semplici meccanismi della democrazia politica. Lo si
è visto, ad esempio, nella mancata decisione di adottare il
voto segreto per l'elezione del gruppo dirigente, che alla
verifica delle urne sembra aver preferito l'autocooptazione
Non so con quanta passione i lettori abbiano seguito le vicende
del recente congresso nazionale della CGIL a Rimini. Quanto a me,
sarà colpa mia, ma vi confesso di aver trovato più
difficoltà nell'investire di un significato ideologico
qualsiasi la contrapposizione tra Bruno Trentin e Fausto Bertinotti
(e le rispettive fazioni) di quante ne avessi incontrate, a suo
tempo, a proposito, non dirò di Coppi e Bartali, ma di
Arcibaldo e Petronilla (Jiggs e Maggie per i puristi) nei fumetti di
George McManus. Comunque, date certe mie caratteristiche di
vecchio formalista pedante, non negherò d'essermi lasciato
affascinare dal problema, ivi intensamente sofferto, della "gestione
unitaria" del sindacato, come a dire del voto palese o
segreto. Sembra infatti, stando alle fonti che mi è capitato
di consultare, che solo con riluttanza il Trentin, in apertura dei
lavori, si fosse dichiarato disposto, bontà sua, a continuare
a dirigere la massima forza sindacale italiana, che per la prima
volta nella sua storia era giunta al Congresso divisa in maggioranza
e minoranza, un fatto che per il tipo di tradizione politica cui il
Trentin stesso appartiene, è assai disdicevole. La condizione
che poneva era che la gestione futura dell'organizzazione fosse
unitaria, e su questa ragionevole esigenza concordavano tutti, il
Bertinotti incluso. Vi dirò, l'esigenza sembrava
ragionevole persino a me, perché si sa che se una dirigenza
deve badare soprattutto a tenere al loro posto i nemici interni,
poca energia le rimane per il perseguimento dei fini istituzionali
dell'organizzazione che dirige. Ma poi ho capito che condizione
imprescindibile dell'auspicata gestione unitaria era che
all'elezione degli organismi dirigenti si andasse (come dicono i
sindacalisti) con una lista unica (e possibilmente bloccata) e il
voto rigorosamente palese, coram populo e per alzata di
mano. In caso contrario, c'era il rischio che certi "cattivi",
comunemente identificati da una parte nei temibili metalmeccanici di
Brescia e in certi ancor più temibili "portuali"
senza specificazione geografica e dall'altra negli infidi
"miglioristi lombardi", approfittassero del voto segreto -
che per qualche assurdità statutaria poteva essere imposto
dalla richiesta di soli cinquantotto delegati - per "fotografare
la situazione di spaccatura esistente" e, peggio ancora, per
fare i conti nel segreto dell'urna con i dirigenti a loro sgraditi.
Per fortuna che non si sono trovati cinquantotto individui tanto
abietti da imporre una conclusione del genere.
In confidenza, io ho fatto parte per un decennio abbondante
della CGIL (sono stato uno dei fondatori, e per un po' mi ero illuso
d'essere uno dei dirigenti, del primo sindacato confederale dei
lavoratori della scuola). Poi, a un certo punto mi sono accorto che
non mi ci riconoscevo più, anzi, era da qualche anno che non
rinnovavo la tessera, anche se loro, per via di una vecchia delega
mai revocata formalmente, continuavano puntuali a riscuotere ogni
mese alla fonte il contributo sindacale dovuto. Li ho cortesemente
pregati di smettere, e mi hanno fatto sapere che per esigenze
contabili l'interruzione del prelievo poteva aver luogo solo
all'inizio dell'anno: trovandoci allora solo al secondo mese, dovevo
continuare a versare ancora per dieci. Al che ho capito che
un'organizzazione così attenta ai fatti contabili e così
indifferente al problema politico di un suo organizzato che non si
considerava più rappresentato, aveva, nella prospettiva della
lotta di classe del paese, ben poco futuro. Cosa c'entrano queste
reminiscenze? Beh, c'è qualcosa in comune - credetemi - tra
quell'atteggiamento e quello di chi non si rende conto (o finge non
rendersi conto) che le elezioni - e quel ragionevole espediente
precauzionale che è lo scrutinio segreto - sono state appunto
inventate per fotografare con la massima precisione possibile la
condizione esistente nel corpo elettorale (e se la condizione è
di spaccatura, è meglio che la spaccatura sia registrata
senza falsi pudori, no?) e per permettere agli elettori di fare i
conti nel segreto dell'urna con quei dirigenti di cui per un motivo
o per l'altro non siano soddisfatti. Se no, a cosa cavolo
servirebbero? "Fare i conti" non è una bella
espressione, forse, ma provate a sostituirla con "confermare"
e "non confermare" e vedrete che andrà tutto
bene. Una gestione unitaria basata su liste in qualche modo
predefinite sarà sempre una gestione che rinuncia al criterio, rozzo finché si vuole,
insufficiente senz'altro, ma almeno
indiscutibile, dell'identificazione delle tendenze e delle esigenze
presenti tra gli elettori. Nel qual caso, naturalmente, di criterio
se ne adotterà qualcun altro, magari uno interessantissimo e
altamente sofisticato, ma che avrà comunque l'interessante
caratteristica di non essere edotto alla base, ma definito
nell'ambito di un vertice ristretto, in nome di tutti gli interessi
e i valori che stanno a cuore a chi si trova al vertice, ma non è
detto che debbano stare a cuore per forza a chi al vertice,
poveretto, non c'è. Sarà, insomma, una gestione
contrattata, che non è esattamente sinonimo di democrazia, e
neanche di efficienza operativa. Che se crediamo che in un certo
ambito i dirigenti esprimano per definizione - incarnino quasi - gli
interessi e i punti di riferimento dei loro diretti, tanto vale che
si investano del ruolo dirigenziale da soli, senza farsi eleggere da
nessuno, che si fa prima.
Ma appunto. Crollano i muri, vacillano gli ideali di un paio di
secoli di storia, ma per certa sinistra italiana la forma migliore
di democrazia resta inesorabilmente l'autocooptazione dei gruppi
dirigenti. Che malinconia.