Cuba, que linda es Cuba, com'è bella Cuba, sospesa
tra il cielo e il mare, con le sue spiagge incantate, le palme
fruscianti baciate dalla brezza caraibica, la sua storica capitale,
il suo popolo fiero. . . e come sarà più bella tra
poco, quando, caduta finalmente la dittatura che la opprime, tra le
palme soffierà il vento della democrazia e i fieri abitanti,
invece di vantarsi scioccamente di aver resistito per trent'anni
alle pretese egemoniche degli USA, potranno inchinarsi di nuovo a
los norteamericanos, importandone i prodotti, cedendo, come in ogni
tropico che si rispetti, spiagge e palmizi al Club Mediterranée,
garantendo ai turisti il piacere di gustare i celebri cocktail al
rum, di sgranocchiare le rinomate aragoste della barriera corallina,
e della compagnia di senoritas eventualmente bisognose di valuta
pregiata. Succede già in tutto il Caribe, e l'uguaglianza
è uguaglianza, no? E poi, pensate che soddisfazione sarà
per i principali opinion makers quella di umiliare finalmente un
piccolo popolo reo di aver cercato di sottrarsi al comune destino
del sud del mondo. E come è bella, naturalmente, l'Europa
orientale, liberata dall'oppressione sovietica, aperta alle gioie
della democrazia (salvo l'eccezionale necessità di delegare
poteri speciali ai vari Havel e Walesa) e a quelle del mercato, con
annesse disoccupazione di massa e inflazione galoppante. Come sono
belle le regioni orientali della Germania, libere di dipendere
finalmente dall'economia dei confratelli occidentali, a patto,
magari, di qualche sacrificio e dello smantellamento di tutte le
loro strutture industriali e sociali, e dove finalmente è
possibile, com'è successo in questi giorni nella libera
Sassonia, organizzare raid di strada e spedizioni di vigilantes
contro i mozambicani. Com'è bella la Polonia, in cui -
restituito finalmente il potere al clero - è ben avviata
l'abolizione di istituzioni perniciose come il divorzio e l'aborto.
Come sono belli i paesi baltici che, rientrati nel concerto dei
popoli liberi, possono dibattere se sia proprio il caso di concedere
i diritti di cittadinanza ai connazionali di origine ebraica (o
polacca o simili: visto che negarla a quelli di provenienza russa,
naturalmente, è cosa che va da sé). E infine, com'è
bella la Russia. La Madre Russia, la Russia di Eltsin e dei pope, il
paese che ha resistito al golpe e su cui, ammainato lo sconcio
stendardo dei simboli del lavoro (manuale, che è roba che è
sempre meglio lasciare agli altri) è tornato a sventolare il
tricolore degli zar, e consegnato all'oblio della storia il turpe
Lenin si ridà all'ex capitale il nome di quel democratico di
razza che fu Pietro il Grande. E in cui, naturalmente, i cittadini
sono liberi, nell'inverno imminente, di morire di fame proprio come
ai tempi di quel glorioso sovrano. Che poi, diciamolo francamente,
chi muore di fame è quasi sempre colpa sua: non sa applicare
i principi della libera impresa, fida solo sulla solidarietà
altrui e, in definitiva, non ha voglia di lavorare. Chi muore di
fame in genere è un comunista, e ben gli sta. Se morissero
tutti, non ci sarebbe neanche il problema. No, non inorridiscano
i cortesi lettori di "A". E i redattori possono deporre la
penna che già hanno impugnato per dissociarsi con qualche
sapida chiosa. Questa non è (ripeto, non è)
un'apologia postuma di quel sistema socio-politico che si definiva
con il nome curioso di "socialismo reale" e di cui tutti,
con insignificanti eccezioni, hanno salutato quest'anno la fine
ingloriosa. La libertà è sacra, e per i libertari
figuriamoci. Non si può avere tutto e non tutti quelli che
esultano, o si compiacciono, esultano o si compiacciono perché,
in una con quei discutibili regimi, sembra siano stati spazzati
dalla nostra cultura anche gli ideali di cui essi, certamente a
torto, si proclamavano portatori. Lo abbiamo cantato e ricantato:
sono ideali (di solidarietà, uguaglianza e pari dignità)
in cui crediamo soprattutto noi. Anzi, loro non avevano alcun
diritto di appropriarsene.
Dove andremo a finire?
Ma appunto. C'è una cosa che mi preoccupa. Sarà
colpa mia, ma non mi sembra d'aver colto, nel coro di giubilo dei
tanti compagni ed amici benintenzionati (che del giubilo dei vari
Bush, Wojtyla ed affini, naturalmente, poco m'importa) una
preoccupazione che continuo a considerare essenziale: quella, più
o meno, del dove andremo a finire. Vedete, possiamo esultare
tutti per la fine dell'URSS, del suo impero militare, dei suoi
satelliti e del sistema ideologico ivi largamente
impiegato. Possiamo farlo noi libertari, che al giubilo
aggiungeremo magari un pizzico di umana soddisfazione, a ricordo e
rivalsa di come, in nome di quel sistema, tanti di noi sono stati
trattati e possono farlo quelli che della libertà si sono
sempre preoccupati pochino. Possono esultare persino quanti al
socialismo "reale" sono stati sempre fedeli, o che a
quell'ideologia hanno aderito fino a ieri senza riserve: basta usare
la tecnica dell'apostolo Pietro (Giovanni, 18, 25: "Stava quivi
a scaldarsi e gli chiesero: "Non sei anche tu dei suoi
discepoli?" Ed egli disse: "No, non lo sono") o
quella di Pietro Ingrao (E cosa c'entra L'URSS con il comunismo?).
Il comunismo, naturalmente, è un'esperienza storica di lungo
respiro, che non si esaurisce nelle proposizioni ideologiche
dei suoi teorici o nelle esperienze politiche compiute in suo
nome, ma non è neanche separabile in sé e per sé
(non è un'utopia, spiegava quel tale, ma un movimento reale,
e, per una volta, passatemi questo aggettivo). Credo che si possa
ragionevolmente concordare sul fatto che i suoi obiettivi e i suoi
ideali non il problema di dove andremo a finire senza quegli ideali,
beh, è un problema che resta. Cerchiamo di essere seri. E
badiamo che per essere poco seri non è necessario credere che
la crisi ingloriosa del comunismo, come si dice oggi, segni la fine
dell'impero del male e l'automatico avvento dell'età
dell'oro. Agli osservatori in buona fede sono bastati pochi mesi
per rendersi conto di come i mostri che aduggiano la società
occidentale siano ben più radicati di quanto si credesse
prima. È bastato togliere il coperchio di un sistema
autoritario perché i fantasmi del nazionalismo, del razzismo,
dell'intolleranza, dell'antisemitismo e della guerra tornassero a
infestare il nostro continente (con lo smacco supplementare, per
noi, di dover assistere al rapido rigenerarsi di autoritarismi di
segno diverso). Questa è una constatazione quasi ovvia, che
pone, se mai, dei problemi di tipo storico, perché mostra
quanto fragile fosse, in definitiva, quel coperchio, e quanto vana
fosse la pretesa di chi credeva o asseriva o sperava che fosse
cambiata, nello spazio di poche generazioni, la struttura ideologica
di intere società nazionali. Porrebbe, veramente, anche un
problemino morale, sui criteri di valutazione di un sistema, che in
fondo, faceva da coperchio a tali fantasmi, ma questo è un
cammino insidioso, sul quale non sarà il caso di
avventurarsi. Almeno per ora.
Non esultiamo troppo
Il dilemma di fondo è un altro. Riguarda la società
in cui viviamo noi. O crediamo che in questo nuovo ordine
politico-ideologico che si sta definendo a livello planetario i
valori cui continuiamo a credere abbiano maggiori possibilità
di svilupparsi e affermarsi di quante ne avessero prima (che è
possibile, in teoria, ma a me sembra un po' un'ingenuità) o
no. E se no non abbiamo alcun motivo per esultare. Abbiamo
assistito alla scomparsa di un sistema mostro per ritrovarci in un
sistema mostro: quello che bandisce la solidarietà e
l'uguaglianza dai propri valori, che giustifica (e esalta) la
vittoria del forte sul debole e misura la dignità dei suoi
cittadini in termine rigidamente monetari. Un sistema che solo
sull'ingiustizia fonda il proprio dinamismo, e che teme nella
giustizia la propria fine.
Pensiamoci solo un momento. Guardiamoci attorno. Ascoltiamo quanto
gli imbonitori di ogni tipo e colore ci ripetono continuamente,
ossessivamente, e, magari, proviamo a chiederci quale sarà il
nostro destino. Sì, è vero: siamo puri di cuore, non
siamo minimamente coinvolti nelle turpitudini della Terza
Internazionale, siamo noi i "veri" custodi dei valori
della sinistra. Ma non esultiamo troppo: il mondo è
complicato, e la storia ancora di più. Potrebbe darsi persino
il caso che la sconfitta del comunismo, absit iniuria, sia anche la
nostra sconfitta.