Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 21 nr. 185
ottobre 1991


Rivista Anarchica Online

La crisi ingloriosa
di Carlo Oliva

Cuba, que linda es Cuba, com'è bella Cuba, sospesa tra il cielo e il mare, con le sue spiagge incantate, le palme fruscianti baciate dalla brezza caraibica, la sua storica capitale, il suo popolo fiero. . . e come sarà più bella tra poco, quando, caduta finalmente la dittatura che la opprime, tra le palme soffierà il vento della democrazia e i fieri abitanti, invece di vantarsi scioccamente di aver resistito per trent'anni alle pretese egemoniche degli USA, potranno inchinarsi di nuovo a los norteamericanos, importandone i prodotti, cedendo, come in ogni tropico che si rispetti, spiagge e palmizi al Club Mediterranée, garantendo ai turisti il piacere di gustare i celebri cocktail al rum, di sgranocchiare le rinomate aragoste della barriera corallina, e della compagnia di senoritas eventualmente bisognose di valuta pregiata. Succede già in tutto il Caribe, e l'uguaglianza è uguaglianza, no? E poi, pensate che soddisfazione sarà per i principali opinion makers quella di umiliare finalmente un piccolo popolo reo di aver cercato di sottrarsi al comune destino del sud del mondo.
E come è bella, naturalmente, l'Europa orientale, liberata dall'oppressione sovietica, aperta alle gioie della democrazia (salvo l'eccezionale necessità di delegare poteri speciali ai vari Havel e Walesa) e a quelle del mercato, con annesse disoccupazione di massa e inflazione galoppante. Come sono belle le regioni orientali della Germania, libere di dipendere finalmente dall'economia dei confratelli occidentali, a patto, magari, di qualche sacrificio e dello smantellamento di tutte le loro strutture industriali e sociali, e dove finalmente è possibile, com'è successo in questi giorni nella libera Sassonia, organizzare raid di strada e spedizioni di vigilantes contro i mozambicani. Com'è bella la Polonia, in cui - restituito finalmente il potere al clero - è ben avviata l'abolizione di istituzioni perniciose come il divorzio e l'aborto. Come sono belli i paesi baltici che, rientrati nel concerto dei popoli liberi, possono dibattere se sia proprio il caso di concedere i diritti di cittadinanza ai connazionali di origine ebraica (o polacca o simili: visto che negarla a quelli di provenienza russa, naturalmente, è cosa che va da sé).
E infine, com'è bella la Russia. La Madre Russia, la Russia di Eltsin e dei pope, il paese che ha resistito al golpe e su cui, ammainato lo sconcio stendardo dei simboli del lavoro (manuale, che è roba che è sempre meglio lasciare agli altri) è tornato a sventolare il tricolore degli zar, e consegnato all'oblio della storia il turpe Lenin si ridà all'ex capitale il nome di quel democratico di razza che fu Pietro il Grande. E in cui, naturalmente, i cittadini sono liberi, nell'inverno imminente, di morire di fame proprio come ai tempi di quel glorioso sovrano. Che poi, diciamolo francamente, chi muore di fame è quasi sempre colpa sua: non sa applicare i principi della libera impresa, fida solo sulla solidarietà altrui e, in definitiva, non ha voglia di lavorare. Chi muore di fame in genere è un comunista, e ben gli sta. Se morissero tutti, non ci sarebbe neanche il problema.
No, non inorridiscano i cortesi lettori di "A". E i redattori possono deporre la penna che già hanno impugnato per dissociarsi con qualche sapida chiosa. Questa non è (ripeto, non è) un'apologia postuma di quel sistema socio-politico che si definiva con il nome curioso di "socialismo reale" e di cui tutti, con insignificanti eccezioni, hanno salutato quest'anno la fine ingloriosa. La libertà è sacra, e per i libertari figuriamoci. Non si può avere tutto e non tutti quelli che esultano, o si compiacciono, esultano o si compiacciono perché, in una con quei discutibili regimi, sembra siano stati spazzati dalla nostra cultura anche gli ideali di cui essi, certamente a torto, si proclamavano portatori. Lo abbiamo cantato e ricantato: sono ideali (di solidarietà, uguaglianza e pari dignità) in cui crediamo soprattutto noi. Anzi, loro non avevano alcun diritto di appropriarsene.

Dove andremo a finire?
Ma appunto. C'è una cosa che mi preoccupa. Sarà colpa mia, ma non mi sembra d'aver colto, nel coro di giubilo dei tanti compagni ed amici benintenzionati (che del giubilo dei vari Bush, Wojtyla ed affini, naturalmente, poco m'importa) una preoccupazione che continuo a considerare essenziale: quella, più o meno, del dove andremo a finire. Vedete, possiamo esultare tutti per la fine dell'URSS, del suo impero militare, dei suoi satelliti e del sistema ideologico ivi largamente impiegato. Possiamo farlo noi libertari, che al giubilo aggiungeremo magari un pizzico di umana soddisfazione, a ricordo e rivalsa di come, in nome di quel sistema, tanti di noi sono stati trattati e possono farlo quelli che della libertà si sono sempre preoccupati pochino. Possono esultare persino quanti al socialismo "reale" sono stati sempre fedeli, o che a quell'ideologia hanno aderito fino a ieri senza riserve: basta usare la tecnica dell'apostolo Pietro (Giovanni, 18, 25: "Stava quivi a scaldarsi e gli chiesero: "Non sei anche tu dei suoi discepoli?" Ed egli disse: "No, non lo sono") o quella di Pietro Ingrao (E cosa c'entra L'URSS con il comunismo?). Il comunismo, naturalmente, è un'esperienza storica di lungo respiro, che non si esaurisce nelle proposizioni ideologiche dei suoi teorici o nelle esperienze politiche compiute in suo nome, ma non è neanche separabile in sé e per sé (non è un'utopia, spiegava quel tale, ma un movimento reale, e, per una volta, passatemi questo aggettivo). Credo che si possa ragionevolmente concordare sul fatto che i suoi obiettivi e i suoi ideali non il problema di dove andremo a finire senza quegli ideali, beh, è un problema che resta.
Cerchiamo di essere seri. E badiamo che per essere poco seri non è necessario credere che la crisi ingloriosa del comunismo, come si dice oggi, segni la fine dell'impero del male e l'automatico avvento dell'età dell'oro. Agli osservatori in buona fede sono bastati pochi mesi per rendersi conto di come i mostri che aduggiano la società occidentale siano ben più radicati di quanto si credesse prima. È bastato togliere il coperchio di un sistema autoritario perché i fantasmi del nazionalismo, del razzismo, dell'intolleranza, dell'antisemitismo e della guerra tornassero a infestare il nostro continente (con lo smacco supplementare, per noi, di dover assistere al rapido rigenerarsi di autoritarismi di segno diverso). Questa è una constatazione quasi ovvia, che pone, se mai, dei problemi di tipo storico, perché mostra quanto fragile fosse, in definitiva, quel coperchio, e quanto vana fosse la pretesa di chi credeva o asseriva o sperava che fosse cambiata, nello spazio di poche generazioni, la struttura ideologica di intere società nazionali. Porrebbe, veramente, anche un problemino morale, sui criteri di valutazione di un sistema, che in fondo, faceva da coperchio a tali fantasmi, ma questo è un cammino insidioso, sul quale non sarà il caso di avventurarsi. Almeno per ora.

Non esultiamo troppo
Il dilemma di fondo è un altro. Riguarda la società in cui viviamo noi. O crediamo che in questo nuovo ordine politico-ideologico che si sta definendo a livello planetario i valori cui continuiamo a credere abbiano maggiori possibilità di svilupparsi e affermarsi di quante ne avessero prima (che è possibile, in teoria, ma a me sembra un po' un'ingenuità) o no. E se no non abbiamo alcun motivo per esultare. Abbiamo assistito alla scomparsa di un sistema mostro per ritrovarci in un sistema mostro: quello che bandisce la solidarietà e l'uguaglianza dai propri valori, che giustifica (e esalta) la vittoria del forte sul debole e misura la dignità dei suoi cittadini in termine rigidamente monetari. Un sistema che solo sull'ingiustizia fonda il proprio dinamismo, e che teme nella giustizia la propria fine.
Pensiamoci solo un momento. Guardiamoci attorno. Ascoltiamo quanto gli imbonitori di ogni tipo e colore ci ripetono continuamente, ossessivamente, e, magari, proviamo a chiederci quale sarà il nostro destino. Sì, è vero: siamo puri di cuore, non siamo minimamente coinvolti nelle turpitudini della Terza Internazionale, siamo noi i "veri" custodi dei valori della sinistra. Ma non esultiamo troppo: il mondo è complicato, e la storia ancora di più. Potrebbe darsi persino il caso che la sconfitta del comunismo, absit iniuria, sia anche la nostra sconfitta.