Né Marx, né Lenin, né Stalin,
né
Mao di Stefano Fabbri
La crisi irreversibile dell'universo marxista-leninista non
può essere considerata come l'esito di una deviazione da un
corpo dottrinario in origine incontaminato. Il primato della
politica sull'etica, cui nemmeno il marxismo era riuscito a
sfuggire, deve finalmente essere abbandonato per dare spazio ad una
coscienza che sappia fare a meno del fanatismo e dell'intolleranza.
L'impostazione è nota: il "socialismo reale"
non è stato "vero socialismo", lo stalinismo è
una depravazione che non ha niente a che vedere con il leninismo,
Marx è incolpevole. I reduci del comunismo autoritario,
aggrappati agli ultimi brandelli di vita di un'ideologia che ha dato
bancarotta a livello mondiale, continuano a procedere, pur
perseguendo nelle reciproche consuete ed interminabili diatribe, nel
solco di sempre. Paiono convinti, gli uni e gli altri, che sia
sufficiente un'attestato di eterodossia (cosa assai semplice a
ottenersi in campo marxista), aver contestato i partiti comunisti
"ufficiali", essere stati a loro volta tacciati di
"revisionismo", non aver condiviso il potere, per aver
titolo ad estraniarsi dai crimini del socialismo realizzato. Crimini
prodotti da un impianto istituzionalmente volto alla conquista di un
potere assoluto. "Trotzkisti" e leninisti "ortodossi"
fanno finta di dimenticare e qualificano come incidenti di percorso
necessari ed inevitabili (che quindi ripeterebbero anche oggi), la
repressione militare dell'Ucraina rivoluzionaria e della Comune di
Kronstad (192l) , il "comunismo di guerra", la
militarizzazione delle fabbriche, l'eliminazione dei diritti dei
lavoratori, la pena di morte ed i campi di lavoro per i dissenzienti
dell'immediato dopo-rivoluzione. Nessuno si interroga (per dire
finalmente che è un assurdo teorico totale e reazionario) sul
concetto di dittatura "del proletariato" formulato dal
"grande vecchio" già nel "Manifesto del
Partito Comunista" (1848). In realtà il marxismo non
ha mai avuto, né avrà mai, una teoria della democrazia
politica , né un'impostazione radicalmente volta alla
libertà. Da ciò discendono analisi sfalsate anche sui
fatti odierni. Per molti è difficile capire come
l'intellighenzia che fu del PCUS - cresciuta con l'idea che l'unica
democrazia possibile sia quella economica e che questa possa
esistere senza una democrazia politica, ma al tempo stesso insieme
invece ad una ristratificazione sociale accettata come incidente di
percorso nella via del comunismo - abbia semplicemente capovolto la
scala dei propri valori ponendovi all'apice, quale archetipo di
insuperata ed insuperabile perfezione, il capitalismo occidentale.
Già, ma i militanti di partito sono stati allevati al culto
del vincitore (la ragione era prima di tutto di chi vinceva e di chi
aveva dalla sua parte le "masse"), ed oggi a vincere è
il capitalismo. Il tutto viene invece esorcizzato dando la colpa
dell'esperienza fallimentare della statalizzazione totale
all'assenza di forme statali moderne e, nei più critici, ad
una rozza ideologia del "deperimento dello stato". Per
quanto riguarda la democrazia politica, si pensa unicamente ad una
maggiore democrazia di partito nell'ambito di un sistema a
partito unico. Il vero colpo per i vetero-comunisti nei recenti
accadimenti sovietici è stato lo scioglimento del PCUS, che
ha dissolto le ultime illusioni rispetto ad un'autoriforma dello
stesso e tutt'al più al sorgere, sempre all'interno di quel
ristretto ambito, di un dibattito politico da parte di classi o
gruppi d'interesse. Basti pensare alle gravi ambasce di
"Rifondazione Comunista" di fronte al "nuovo
Gorbaciov". Per chi è abituato a dipendere dai
modelli e logiche organicistiche, economicistiche e storicistiche,
i problemi si pongono sempre secondo apparenti dicotomie di segno
idealistico. Ecco il perché della svolta del PDS, la cui
maggioranza ha gettato a mare l'idea stessa di comunismo, non
potendo non concepire come unica alternativa l'altro lato della
medaglia sullo scacchiere internazionale. Dall'altra parte i vari
comunisti continuisti, che imputavano ad Occhetto sino ad un anno fa
di aver sbagliato l'"analisi e la prognosi sul PCUS"
(Rossana Rossanda, "il manifesto", 21/7/'90). In poche
parole la "riforma" può essere data solo
all'interno del tracciato segnato dal corpo dottrinario. Tutto ciò
che si muove o che deborda all'esterno è dichiarato eretico.
Il limite maggiore del marxismo sta proprio nella sua presunta
"scientificità", che pur rovinata pesantemente al
suolo, continua a costituire un archetipo al di fuori del quale non
è dato sperimentare: pena l'anatema e l'abiura. L'opzione
anarchica del comunismo libertario, principale obiettivo della
guerra senza esclusione di colpi impostata a sinistra dagli ex, così
come dai neo-comunisti, non ha spazio fra le ipotesi possibili.
D'altra parte, dignità "di sistema" viene
riconosciuta solo all'antagonista capitalismo, che ha per la libertà
politica una pratica altrettanto strumentale: vecchia e "nuova"
sinistra sono sempre entrate in crisi, pur nel pieno della critica
al "socialismo reale", sulla questione del capitalismo di
stato, spesso negando l'evidenza di quella che si è creata in
URSS e Cina e nei paesi satelliti. Non potevano accettare il dato di
una complementarietà di fatto fra i due sistemi, che invece
il capitalismo occidentale aveva riconosciuto da tempo e che è
stata dimostrata sempre di più dallo svolgersi degli
avvenimenti fino ad oggi.
Comunismo nostalgico e democrazia reale
Di contro, per mantenere un barlume di speranza, i neo-comunisti
sono obbligati sempre più ad uscire dal seminato,
costretti ad una battaglia titanica contro loro stessi nel gioco
pericoloso di allargare le sbarre di un'impostazione nata chiusa a
priori. Il fine è quello di tentare di conciliare
l'inconciliabile: libertà politica e dittatura, eguaglianza
economica e ventaglio salariale, lotta per la democrazia e monopolio
a sinistra, sindacati ridotti a mere cinghie di trasmissione del
partito e sviluppo autonomo delle contraddizioni nel mondo del
lavoro, autogestione e rigida pianificazione centralistica, seguendo
una strada già usata dagli ex-comunisti. Il comunismo
nostalgico rimane così elemento interno alla "democrazia
reale", la cui crisi, peraltro, speriamo si approssimi. Allo
stesso tempo il concetto di "egemonia" cerca un approccio
con la richiesta etica che viene dalla società civile:
"della possibile riconversione ad un controllo etico-politico
dell'innovazione tecnologica per effetto della crisi ambientale...
un regolatore etico-politico non più totalitario, applicato
ai processi scientifico-tecnologici e per il loro tramite a quelli
economico-produttivi, sarà il solo cui si possano, forse
tardivamente, affidare le speranze di salvezza della civiltà
e della stessa crescita economica ridimensionata e ridistribuita"
(è l'eco-marxista Giuseppe Prestipino su "il manifesto"
, l0/8/'90).
Il pensiero va automaticamente a Murray Bookchin ed all'ecologia
sociale con cui tutti oggi devono fare i conti, ma che non è
possibile altro che in una società non solo liberata dal
dominio e dall'ottica del profitto, ma astatale, federalista,
comunalista, libertaria, che ha le sue radici teoriche in "Campi,
fabbriche, officine" del 1898 di Pétr Kropotkin. D'altra
parte il pragmatismo assoluto di matrice marxista non sarà
mai sufficientemente decantato. Mentre in Romania, Bulgaria ed
addirittura in Albania, il partito è pronto a divenire
persino "anticomunista" pur di conservare il potere, in
Cina, dove la libertà è ancora un "concetto
borghese" (Lenin), e dove si coniuga allegramente l'imitazione
dei sistemi produttivi giapponesi e della Corea del Sud con il
collettivismo neo-feudale delle campagne, il sociologo He Xin,
braccio destro di Deng, sostiene testualmente la necessità di
riproporre il marxismo come religione, quale veicolo unificante di
massa per l'industrializzazione e la modernizzazione. Secondo lui il
"marxismo scientifico" è fallito e può
sopravviverne l'immagine solo con tale accorgimento. Non sarà
inutile sottolineare come appunto tale pragmatismo provenga proprio
da una ex guardia rossa che ha ben conosciuto il culto della
personalità. Il marxismo, giunto all'ipogeo, si legittima
quindi ormai unicamente come strumento di dominio, buono per tutti
gli usi in ordine alle esigenze di quella nuova classe che ha così
bene saputo veicolare e tradire le istanze di base e di
emancipazione del movimento dei lavoratori, irretendolo in una
operaiolatria utile ai "professionisti della politica" per
impostare il proprio dominio di classe, raggiunto tramite la
gestione di un'economia statalizzata nel nome di tutti, ma gestita
da pochi. Questa concausa ha la sua rilevanza nella rimozione
sistematica della matrice anarchica. Se vi è infatti un dato
oggettivo inconfutabile oggi come ieri, nonostante i grandi
mutamenti avvenuti, è la congiura del silenzio che sui temi,
le idee, la tradizione del movimento anarchico, viene operata
congiuntamente nel mondo politico, quasi che un pezzo di storia sia
stato rimosso con un colpo di spugna. Il pluralismo rimane ancora un
tabù per tutte le organizzazioni di matrice comunista, in
particolare rispetto alla teoria comunista anarchica, che pure non è
elemento casuale ma estremamente ricco di testi, esperienze e
presenze. I "rinnovatori", per parte loro, pur rendendo,
ed in modo spesso pedante ed interessato, i dovuti omaggi alla
sinistra liberale, giustizialista ed azionista e facendo la corte
alla socialdemocrazia, evitano in modo scientifico l'argomento, e ne
abusano a proprio piacimento con furbeschi mascheramenti (è
il caso dell'aggiunta del termine "libertario" inserito
a qualificare lo statuto del PDS). Come "sostituto" si
utilizzano i radicali e la presenza costante di Pannella ai
"festival dell'Unità" e di "Cuore" sta a
dimostrarlo.
Una questione vecchia
Anche rispetto alla riabilitazione delle vittime politiche del
regime bolscevico sarà utile sottolineare come pochi a
sinistra, a parte i diretti interessati in URSS, hanno mai
menzionato gli innumerevoli militanti anarchici uccisi, internati o
fatti sparire dal '21 ad oggi. Peraltro, solo nell'agosto '90,
Gorbaciov, con apposito decreto, ha stigmatizzato unicamente le
persecuzioni staliniane, ed in Italia, ancora un anno fa a sinistra
c'era chi si meravigliava che in URSS vi fosse la richiesta di una
Norimberga sovietica: "un processo ai sopravvissuti ed ai morti
della nomenklatura repressiva staliniana (e post-staliniana), quando
non al PCUS stesso". Auspicando invece: "l'annullamento di
alcune decorazioni, il cambio di nome di alcune strade, la revoca di
alcuni privilegi, per dare ai cittadini l'idea che lo stato ha
davvero cambiato natura" (Astrit Dakli, "il manifesto",
15/8/'90). Eppure l'antisemitismo, la deportazione di massa ed il
genocidio di milioni di contadini e di intere etnie, non sono
qualitativamente "diversi" se gestiti da uomini con al
braccio fascia rossa e falce e martello. Oggi, in Unione
Sovietica sarebbe in corso "un esplodere di forze più
democraticiste che democratiche". E' di nuovo Rossana Rossanda
a parlare ("il manifesto", 27/8/'91), che poi conclude:
"Chi è comunista ha motivo di molto dolore, di molta
fatica, ma di nessun rimpianto". In tali brevi frasi è
racchiuso l'elemento costitutivo della differenza fra anarchismo e
marxismo: il diverso peso dato all'idea stessa di libertà.
Secondariamente, l'impostazione rigidamente giustificazionista che
vi traspare, ricorda il primato dell'autonomia del politico,
contrapposto al primato dell'etica assunto in campo libertario. Per
il bolscevismo la libertà è prioritariamente libertà
dal bisogno, da raggiungersi tramite l'organizzazione centralizzata
ed autoritaria della produzione; per l'anarchismo essa rimane
elemento impensabile se all'eguaglianza economica non si affianca
una totale libertà politica. Per il bolscevismo la libertà
politica è distorsione e "pregiudizio borghese",
per l'anarchismo la libertà "borghese" è
libertà condizionata, democrazia delegata cui sostituire la
democrazia diretta e la piena libertà politica. Secondo
l'impostazione giacobina il fine giustifica i mezzi; secondo quella
anarchica il mezzo usato diviene discrimine fra elemento di
progresso e di conservazione. La dittatura non può produrre
che autoritarismo, delega, diseguaglianza. Anziché liberare
l'uomo dal bisogno, riprodurrà lo sfruttamento. La
questione è vecchia, ma pur sempre di attualità. E'
impressionante come, rileggendo la risposta (Anarchia e
comunismo "scientifico") che Luigi Fabbri scrisse nel
1922 per confutare le saccenterie anti-anarchiche di Nicolaj
Bucharin, si possa riscontrare - pur nella brevità di un
testo necessariamente sintetico edito come pamphlet - l'analisi
puntuale delle cause della crisi sovietica (vedi box nella pagina
accanto).
Dai giacobini ai leninisti
Lo scontro fra chi ritiene di poter usare l'autorità per
emancipare l'uomo e chi pensa che ciò sia impossibile è
già tutto contenuto nella rivoluzione francese. In quella
occasione i fautori di un rafforzamento del potere centrale
tradirono in primo luogo la tendenza a reprimere la democrazia
diretta, e le istanze che sotto questo profilo venivano espresse
dagli "hebertisti", dai sanculotti e dagli "arrabbiati".
Tutto ciò coincise con un alleggerimento della pressione
contro quei gruppi di potere che, approfittando degli eventi,
riuscirono ad incarnare la nuova dirigenza. Col pretesto di colpire
i controrivoluzionari si eliminavano i rivoluzionari. Nessuna
democrazia politica: già da allora si affermava l'esclusione
persino del pluralismo a "sinistra". Le componenti
libertarie venivano già definite anarchiche. Nel quadriennio
1789/93, con il Terrore, si ha l'avvento del potere borghese. Si dà
l'inizio alla canalizzazione ed alla strumentalizzazione delle
aspirazioni popolari: gruppi "d'avanguardia" daranno
sempre nei momenti cruciali, con un intuito eccezionale, la scalata
ai vertici delle organizzazioni rivoluzionarie e degli organismi
espressi dalle lotte egualitarie. Il marxismo in seguito fornirà
la legittimazione teorica all'evoluzione di un certo tipo di dominio
e quindi diventerà oggettivamente un veicolo del
trasformismo, in particolare per l'intellighenzia proletarizzata.
L'apparato del "partito proletario" perpetua
l'impostazione giacobina, operando "per conto delle masse"
sulle masse stesse. Marx, di formazione idealista, traspone in
termini socialisti l'idea di Hegel, il quale inchinandosi di fronte
alla rivoluzione francese, definita "superbo levar del sole",
intravide l'idea di uno stato che da espressione di una volontà
generale divenisse strumento realizzatore della volontà
universale (sorta di deus ex machina). Tutto ciò in Marx
viene trasposto nello "stato socialista", atto a garantire
"il processo di estinzione delle classi". Marx è
stato definito "il Machiavelli del socialismo" (di
stato). Nella sua analisi lo stato è un apparato di
dominio nato per consolidare e mantenere il potere delle classi
egemoni: una struttura autoritaria nata come garante dello
sfruttamento. Ciò nonostante ne prevede un utilizzo in chiave
liberatoria, per l'emancipazione sociale. Lo stato proletario appare
quindi come una contraddizione di termini: si ipotizza l'uso di uno
strumento che si riconosce a priori come autoritario e fautore di
coercizione, per favorire lo sviluppo della libertà. La
logica coercitiva viene ulteriormente rafforzata dalla cosiddetta
"dittatura del proletariato". Sfugge il fatto che tramite
l'apparato di partito si possa produrre la rinascita di una classe
di nuovi padroni. Questo è il tema delle critiche di Bakunin
a Marx. I marxisti, pur riconoscendo nei giacobini l'espressione
di ideali ed interessi borghesi, non riescono che a copiarne i
metodi, ma questi metodi non possono essere presi a parte dall'idea
che li ha partoriti. Nonostante le illusioni del Marx giovane, lo
stato socialista pianifica il dominio in una sorta di "idealismo"
economico sempre incompiuto, perpetuando la discriminazione fra
lavoro manuale ed intellettuale; con una sua burocrazia e
meritocrazia partitica, ripropone il ventaglio salariale e l'accesso
solo per una minoranza al godimento di beni e servizi di lusso.
Inoltre l'immaginario collettivo abituato alla dittatura sarà
il meno adatto a concepire l'autogestione. Lo stato proprietario
sarà legittimato ad eliminare ogni contraddizione: il punto
più debole di tutta la costruzione marxiana, l'utopia
negativa, è nel pensare che lo stato possa eliminarsi da
solo. L'anarchismo, viceversa, propone la rottura immediata con la
struttura del dominio, e la democrazia politica come autogoverno
senza coercizioni rispetto a libertà d'opinione e di
sperimentazione, l'abolizione del lavoro salariato, l'esempio
comunista, ed imposta l'attitudine all'autogestione già nelle
strutture politiche che esprime. Prima dei leninisti, anche i
giacobini entrarono in crisi esercitando il potere: per alcuni la
rivoluzione era stata innanzitutto un'esigenza sorta dalla base, le
cui istanze dovevano venire appoggiate e solo mediate
dall'avanguardia. Furono i primi a sperimentare il patibolo.
Viceversa i fautori di una rivoluzione interamente determinata e
gestita da una élite, gli stessi che eressero la
ghigliottina, vennero poi massacrati a loro volta dai fautori degli
interessi della borghesia maturati durante la rivoluzione, quando
questi furono certi che non gli sarebbero più serviti. Questo
è accaduto anche in URSS e nelle rivoluzioni che il marxismo
ha espresso. Le giustificazioni teoriche, come "il socialismo
in un solo paese", sono un mascheramento di nuovi interessi.
L'esperienza di Guevara, distaccatosi da Cuba (ed abbandonato nella
sierra boliviana) perché contrario alla dipendenza
dell'economia cubana da quella sovietica, è un esempio
prodotto da un sistema che aveva assunto in sé anche i
caratteri dell'etnocentrismo e del colonialismo.
Il ruolo del partito
Oltre le "buone intenzioni" rimane un dato di fatto:
un sistema di valori si esplicita, aldilà dei fini, già
nei mezzi che propone. E nonostante le cortine fumogene tese a
celare quali "deviazioni" tutti gli errori, diviene sempre
più evidente un elemento fondamentale: le prime vere forme di
"revisionismo" (e di riformismo) in campo socialista,
nacquero e si propagarono proprio da quelle idee che prefigurarono
come possibile un "uso rivoluzionario" dello stato ai fini
dell'emancipazione umana. Il "rivoluzionarismo"
marxista-leninista esprime un progetto altrettanto "revisionista"
che la "socialdemocrazia", la quale trae pure origine da
concezioni molto vicine al marxismo stesso, teorizzanti per la lotta
politica l'uso degli ingranaggi elettivi "rappresentativi"
concessi nell'ambito del capitalismo "classico" e la
statalizzazione progressiva dell'economia e dei "servizi",
tramite "riforme di struttura" tanto che, per liberarsi
dalle strettoie di un diktat ingombrante, quando si vede costretta
ad abiurare un discorso programmatico di economia mista, la
socialdemocrazia è altresì costretta ad abiurare
completamente il marxismo (vedasi in Italia la "riscoperta"
di Proudhon) ed a ricercare altrove, tradizionalmente nel
liberalismo o strumentalmente nell'anarchismo, un nuovo retroterra
teorico. Il marxismo garantisce di fatto nel corso degli anni la
continuità di una linea autoritaria ed illibertaria, ove la
pratica della sopraffazione e della calunnia contro gli oppositori
viene elevata a sistema, poiché pur non avendo una teoria
della democrazia politica si considera unico depositario della vera
scienza sociale. Il percorso segnato deve seguire tappe
obbligate; il piano economico è quello determinante: alla
presunta mutazione dei rapporti economici viene subordinata in modo
meccanico la trasformazione dei rapporti sociali.
Ma anche la trasformazione economica stessa viene demandata al
dopo-rivoluzione. Neanche la rottura epocale basta al cambiamento
e vi è quindi un doppio rimando: l'attuazione piena del
comunismo è di là da venire, non ha termini precisi la
fase di transizione, che può così, come è
avvenuto in URSS, prolungarsi all'infinito. Per l'immediato ci si
avvale unicamente di una pratica politica che prende a prestito
strumentalmente qualsiasi mezzo ritenga opportuno, se considerato
utile in funzione della strategia della conquista del potere. Il
programma dei partiti comunisti marxisti-leninisti è così
riassunto. Non esiste nell'oggi uno sforzo teso a preconizzare una
società futura già nei rapporti interni alle
organizzazioni politiche e sindacali. Queste sono tutte strutturate
specularmente a quelle reazionarie, in modo gerarchico e
coercitivo.
Machiavellismo politico
Parallelamente il corpo sociale viene subordinato al partito.
Prassi e teorie che si pongono in modo nettamente antitetico
rispetto a qualsiasi forma di organizzazione orizzontale ed
autogestionaria espressa direttamente dalla società al di
fuori del partito-guida. Si nega quindi già nell'oggi ciò
che si dichiara di voler costruire nel futuro, subordinando sin dal
suo apparire al machiavellismo politico ogni lotta, ogni
aspirazione, ogni esigenza espressa a livello di base. Tutto ciò
che non è controllato dal partito viene vissuto
necessariamente come potenziale fonte di pericolo, e sovente nella
storia si vede come il comunismo di stato abbia preferito la
distruzione ed il fascismo (vedi il patto Molotov-Ribbentrop e
l'assassinio della Spagna libertaria), al libero sviluppo del
comunismo autogestionario. Il partito, l'avanguardia, nella
concezione giacobino-marxista, non possono mai essere del tutto
assorbiti nel movimento dei lavoratori, non sono mai
(differentemente dalla convinzione corrente) completamente interni
al movimento "di classe" e tantomeno alle realtà
culturali e d'opinione, giudicate come secondarie anche se utili
strumentalmente. Essi esistono per dirigere, codificare,
analizzare e pianificare. La promozione di conflittualità è
unicamente strumento del potere, potere in primo luogo di gestire
secondo parametri predeterminati la conflittualità stessa.
Nuova sinistra e problema dell'etica
La "nuova sinistra", alle prese con l'intransigenza
delle "chiese madri", non ha fatto altro che riproporre le
forme più sclerotiche di avanguardismo. Strategie
politiche che, di fase in fase, sono passate da un velleitarismo
opportunista e parlamentare (fronte popolare con le sinistre
tradizionali) ad un avventurismo senza sbocchi ("tanto peggio,
tanto meglio"). Non ci si può scordare, per rimanere
al nostro paese, delle azioni deliranti messe in atto senza tenere
nel minimo conto i livelli obiettivi di crescita e comprensione
delle masse sfruttate, le prevaricazioni operate a più
riprese sulla volontà collettiva, la proposizione di
strategie calate dall'alto, il militarismo di maniera, la grossolana
retorica movimentista mascherante la realtà di occulti gruppi
dirigenti "professionali" intenti a manovrare il
ribellismo, ad emettere sentenze "in nome del popolo",
oppure a giudicare secondo parametri squisitamente dottrinari la
giustezza o meno delle richieste e delle tensioni espresse dalla
società civile e dal mondo del lavoro. Tutte "amenità"
nate e vissute sotto il segno della "autonomia del politico",
con il suo congenito disprezzo per l'etica. La causa è
nell'arroganza di un sistema totalitario che ha prodotto mostri
ovunque è comparso sulla scena: Castro che sottopone gli
omosessuali ad elettroshock non è diverso da Pol Pot, da Mao
che stermina la comune di Canton, né dai vari Togliatti,
Longo e Vidali che dirigono gli assassini e i torturatori pugnalando
alle spalle la rivoluzione spagnola. Un vero e proprio fascismo
rosso, che anche dalla "nuova sinistra" è stato
introiettato e riproposto in modo esaltato ed enfatico per lunghi
decenni. È davvero assai singolare che tendenze, fanatismi
ed una forma mentis di tale genere abbia potuto accompagnare così
da vicino, in un insieme schizofrenico, movimenti d'emancipazione e
realtà giovanili che hanno trasformato il costume ed i
rapporti umani sul piano del personale. L'affrancamento dal giogo
del lavoro salariato ed alienante, dalle ruolizzazioni forzate,
dall'impostazione sessuale e sessista, la lotta per la libertà
d'espressione e di comunicazione a tutti i livelli, anche religiosa,
per i sottovalutati diritti umani e delle etnie, il rinnovamento
artistico ed il rispetto per l'unicità dell'individuo e le
sue prerogative, che masse intere hanno perseguito, facevano
veramente a pugni con l'incubo di una simile intolleranza
annunciata. Ricordiamoci del "realismo socialista", dei
matrimoni di partito, via via sino agli scontri per bande.
Un passo in avanti
Di fronte ad esiti inconfutabili e che parlano chiaro, occorre
sedimentare una coscienza radicalmente diversa e realmente
rivoluzionaria, capace finalmente di fare terra bruciata attorno
all'intolleranza. Occorre distruggere, una volta per sempre, il
terreno di coltura di simili aberrazioni, fertilizzato dagli
schieramenti dogmatici ed incomunicanti, da "scelte di campo"
omologate ed appiattite secondo i canoni di massimalismi di maniera
pronti a dare la priorità alla demagogia barricadiera di
"avanguardie" che hanno piegato a volte anche il campo
libertario ad un'attitudine acritica, in uno scontro apparente fra
concezioni del mondo in realtà complementari una all'altra.
Che dava così poco peso alla libertà, in una scala di
valori sfalsata, secondo la quale dittatura e democrazia sarebbero
la stessa cosa; in un internazionalismo piatto dove per forza il
"bene" doveva essere tutto da una parte rispetto a sistemi
di dominio complessivamente a noi estranei. Restringendo
l'attenzione critica sui valori della rivoluzione ai minimi termini
e piegando la strategia della libertà a scadenze e scansioni
non sue. Ancora oggi si scontano simili impostazioni in una
visione deformata della questione mediorientale, in un appoggio
acritico ai sandinisti nicaraguensi (anche quando vietano il diritto
di sciopero); magari addirittura a Gheddafi e Saddam Hussein, nel
silenzio totale sul Tibet, in una rinuncia a combattere con ugual
forza i totalitarismi imperanti e discernere con capacità
critica le differenze fra i sistemi di dominio. Una diminuita
precisione d'analisi che ha reso difficile l'operare in realtà
che sono di fatto diverse e differenti nelle contraddizioni
interne. La svolta epocale è gravida di incognite e dei
rischi di una ristrutturazione planetaria
apertamente monodirezionale. Ma nessuno si sente orfano: alla
storia si risponde con atti politici, non accusando il destino o il
solito "nemico di classe". Il collettivismo burocratico è
in via di estinzione perché sin dall'inizio si è
confrontato sullo stesso terreno e con gli stessi metodi con un
sistema che è divenuto il suo alter ego: non aveva alterità
da contrapporre. Dopo una pesante cappa di piombo, il mondo ha
fatto un passo in avanti, non fosse altro perché il movimento
d'emancipazione va affrancandosi dalle catene interne di una grande
menzogna planetaria: il marxismo politico. L'analisi economica di
Marx mantiene un significato storico nella denuncia dello
sfruttamento, ma perde l'aura ieratica, la saccenza sacerdotale
dello scientismo ed il significato millenarista che le erano stati
attribuiti, costretta di nuovo alla più terrena dimensione
empirica, mentre riemergono non smentite dalla storia le
impostazioni proudhoniana, bakuninista e malatestiana. Ed al di là
di ciò, nel domani non si affermerà mai più
un'utopia totalitaria che d'ora in poi è attesa solo da
rigurgiti senza speranza.
Comunismo
anarchico o comunismo dittatoriale
"Noi non crediamo
alla morte naturale o fatale dello stato, come conseguenza
automatica dell'abolizione delle classi. Lo stato non è
soltanto un prodotto della divisione di classe: ma è esso
stesso a sua volta un generatore di privilegi, riproduce così
nuove divisioni di classe. Marx era in errore nel ritenere che,
abolite le classi, lo stato dovesse morire di morte naturale, come
per mancanza d'alimenti. Lo stato non cesserà d'esistere se
non lo si distruggerà di deliberato proposito, allo stesso
modo che non cesserà d'esistere il capitalismo, se non lo si
ucciderà espropriandolo. Lasciando in piedi uno stato, esso
genererà intorno a sé una nuova classe dirigente, se
pure non avrà preferito riappacificarsi con l'antica. In
sostanza finché lo stato esisterà le divisioni di
classe non cesseranno e le classi non saranno mai definitivamente
abolite"... (...) "Probabilmente
si crede che il decentramento delle funzioni significhi sempre e ad
ogni costo lo spezzettamento della produzione, e che la produzione
in grande, l'esistenza di vaste associazioni di produttori, sia
impossibile senza l'accentramento della loro gestione in un ufficio
unico centrale, secondo un unico piano direttivo. Questo sì
che è infantilismo. I comunisti marxisti, specialmente i
russi, sono ipnotizzati a distanza dal miraggio della grande
industria d'Occidente e d'America, e scambiano per organismo di
produzione ciò che è esclusivamente un mezzo di
speculazione tipicamente capitalistica, un mezzo per esercitare lo
sfruttamento con più sicurezza; e non s'accorgono che questa
specie d'accentramento, lungi dal giovare alle vere necessità
della produzione, è invece proprio ciò che la limita,
la ostacola e la frena a seconda dell'interesse capitalistico". (...) "Ma si
capisce che se all'accentramento nel governo, più o meno
dittatoriale che sia, di tutti i poteri militari e politici, si
aggiungesse l'accentramento economico della produzione, vale a dire
lo stato fosse nel tempo stesso carabiniere e padrone, e l'officina
fosse anche una caserma, allora l'oppressione statale diverrebbe
intollerabile - e le ragioni di osteggiarla da parte degli anarchici
sarebbero moltiplicate. Purtroppo, è questo lo sbocco
evidente della via per cui si sono messi i comunisti autoritari. Né
essi stessi lo negano. Infatti, che cosa
vogliono fare in pratica i comunisti? Che cosa hanno cominciato a
fare in Russia? La dittatura statale e militare più
accentrata, oppressiva e violenta. E con ciò, allo stato
dittatoriale affidano o intendono affidare insieme la gestione della
ricchezza sociale e della produzione: il che esagera e rende
ipertrofica l'autorità statale, anche a danno della
produzione, ed ha per conseguenza la costituzione di una nuova
classe o casta privilegiata al posto dell'antica. Soprattutto a
danno della produzione: non è male insistere su ciò; e
l'esperienza russa ha dimostrato che non abbiamo torto, - poiché
se oggi la Russia si dibatte nelle strette terribili della fame, ciò è certamente a causa
dell'infame blocco del capitalismo occidentale
e a causa della siccità eccezionale del clima; ma vi hanno
contribuito per la loro buona parte gli effetti disorganizzatori
dell'accentramento burocratico, politico e militaresco
dittatoriale". (...) "Del resto
rivoluzionari e proletariato in genere avranno bisogno
dell'organizzazione non solo per le necessità della lotta ma
anche per quelle della produzione e della vita sociale, che non può
arrestarsi. Ma se la lotta e l'organizzazione hanno lo scopo di
liberare il proletariato dallo sfruttamento e dal dominio statale,
non se ne può affidare la guida, la formazione e la direzione
precisamente ad un nuovo stato, che avrebbe interesse ad imprimere
alla rivoluzione un indirizzo del tutto contrario". (...) "Quando
esiste un governo, di veramente organizzata non v'è che la
minoranza che lo compone; e se le masse nonostante ciò si
organizzano, questo avviene contro di lui, fuori di lui, per lo meno
indipendentemente da lui. Fossilizzandosi in un governo, la
rivoluzione si disorganizzerebbe come tale, poiché
affiderebbe ad esso il monopolio dell' organizzazione e dei mezzi di
lotta. La conseguenza sarebbe che il nuovo governo, insediatosi
sulla rivoluzione, getterebbe - durante il periodo più o meno
lungo del suo potere «provvisorio»
- le basi burocratiche, militari ed economiche d'una nuova
organizzazione statale duratura, intorno cui si creerebbe
naturalmente una fitta rete di interessi e di privilegi; ed in breve
volgere di tempo s'avrebbe, non l'abolizione dello stato bensì
uno stato più forte e vitale dell'antico, il quale tornerebbe
ad avere la funzione sua propria, che Marx gli riconosceva, « di
mantenere la grande maggioranza produttrice sotto il giogo d'una
minoranza sfruttatrice poco numerosa»". (...) "Sulla
«provvisorietà» del
governo dittatoriale non è il caso di soffermarci troppo.
Provvisoria probabilmente sarà la forma più aspra e
violenta di autoritarismo, ma appunto in questo periodo violento di
comprensione e di coazione si getteranno le basi del governo o stato
duraturo del domani". (...)
"Il capitalismo non cesserebbe d'essere tale se da privato
divenisse «capitalismo di stato». Lo stato in tal caso
non avrebbe compiuta una espropriazione, bensì una
appropriazione". (...)
"Tutti sanno come il nostro ideale, sintetizzato nella parola
anarchia, preso nel suo contenuto programmatico di organizzazione
libertaria del socialismo, si è sempre chiamato comunismo
anarchico. Quasi tutta la letteratura anarchica è socialista
in senso comunista fin dalla fine della I Internazionale. Il
collettivismo legalitario e statale da un lato ed il comunismo
anarchico e rivoluzionario, erano le due scuole in cui si divideva
principalmente il socialismo fino allo scoppio della rivoluzione
russa nel 1917. Quante polemiche, dal 1880 al 1918, non abbiamo
sostenuto con i socialisti marxisti, gli odierni neo-comunisti, in
sostegno dell'ideale comunista contro il loro collettivismo da
caserma germanica!". (...)
"Il dissenso, il contrasto, non è dunque tra anarchia e
comunismo più o meno «scientifico» ma bensì
tra il comunismo autoritario e statale, spinto fino al dispotismo
dittatoriale ed il comunismo anarchico o antistatale con la sua
concezione libertaria della rivoluzione".
Luigi Fabbri (da
Anarchia e comunismo
"scientifico",
1922)
Quale ruolo per gli
anarchici
La riedificazione
sociale ha basi eminentemente etiche. Stabilire il primato
dell'etica sulla autonomia della politica significa stabilire il
primato dell'anarchismo, unico ad essere fuori dalla logica della
"ragion di stato" ed a postulare l'identità fra
mezzi e fini. La crisi dei
"movimenti" è stata determinata dall'incapacità
nel rispondere fattivamente al bisogno di riconversione della
politica. L'afflato etico è stato schiacciato dai canoni
determinati dall'egemonia marxista: ideologia su bisogni; "purismo"
dottrinario su complessità; "avanguardia" contro
autoorganizzazione; richiesta indotta di direzione. Dalla necessità
di una rifondazione etica hanno tratto vantaggio le strutture
cattoliche reinserendo, sull'assenza di "valori vivi" e
tangibili validi per il presente ed a fronte di un'impostazione
idealista dall'improbabile futuro (crollo di tutti i modelli di
socialismo marxista), gli unici "valori a portata di mano":
quelli "tradizionali", secondo i dettami di un moralismo
di maniera, retaggio, fra l'altro (in Italia come in Polonia), del
connubio catto-comunista. Nell'anarchismo è
esplicito un "rapporto etico con le idee", la critica dei
machiavellismi sia nella concezione del bene assoluto (pace sociale,
conservazione, gerarchia) che in quella della lotta politica (rifiuto
di ogni uso strumentale dell'etica). Ma l'anarchismo di oggi
è in grado di recepire ed avvalorare questa sua eccezionale
qualità specifica? Nel mondo libertario non dovrebbero
esistere "bisogni ideologici", l'ideologia non dovrebbe
mai venire riproposta in un'ottica di alienazione come necessità
astratta. Dovrebbe venire invece rielaborata continuamente la
qualità dell'intervento, riportando costantemente all'ordine
del giorno in modo tangibile la necessità del cambiamento, a
partire dalla realtà di tutti i giorni. Occorre una
discussione aperta, senza censura o rimozioni. La grande tensione
che il movimento possiede fisiologicamente verso la libera
sperimentazione, rimane spesso compressa da logiche massimaliste di
importazione, penetrate dal campo marxista, che tendono ad
identificare la prassi sperimentale e gradualista con l'ipoteca
riformista. Il gradualismo è sulla linea del colpo di stato e
della presa del potere. Stabilire una alterità rispetto
all'impianto giacobino che si impernia sulla "avanguardia",
significa capire sino a che punto si sia parte del corpo sociale,
re-imparare il lessico della realtà, abbandonare il mito del
"tutto e subito", uscire dal dilemma. L'anarchismo, nella
stessa misura in cui non può rinunciare alla rivoluzione
(anche se deve ripensare continuamente la prassi e la sostanza), non
deve sentirsi "orfano" della rivoluzione: deve possedere
un progetto per il "qui ed ora". Nulla può
sostituirsi ad una lotta graduale ed "immediata" che
rispetti i tempi di crescita e maturazione dei larghi strati della
società civile (senza rimandi al "domani") e che ne
recepisca le istanze. L'anarchismo deve farsi duttile per rimanere
incisivo. La rifondazione dell'agire libertario parte anche da basi
culturali, ecologiche, biologiche. Occorre saper innestare questi
temi sulle radici di un movimento nato come strumento di lotta dei
lavoratori, in una larga prosecuzione ideale dell'impostazione
"storica". Anche per l'anarchismo è quindi
necessario produrre una rottura con le commistioni e le sudditanze
che l'auge marxista ha prodotto intorno a sé, "scaricando"
ogni assunto e procedura a carattere assolutistico-dogmatica.
Occorre un programma dinamico, occorre considerare nei suoi giusti
termini lo scontro idelogico-culturale.