Rivista Anarchica Online
A nous la libertè diario a cura di Felice Accame
Trito e ritrito
Una lettera di
Francesco Ranci a Felice Accame e la risposta di quest'ultimo: in
questa forma inconsueta si dipana, questa volta, la consueta
rubrica del nostro Felice.
Caro Felice, ho
visto "Balla coi lupi" e - primo motivo di delusione - ci
ho trovato poco o nulla di quell'impegno a rappresentare la vita
culturale dei "pellerossa" che era stato promesso
dallo sbandierato utilizzo nel film della loro lingua. Il
regista mi pare abbia lavorato sul trito e ritrito, a partire dalla
distribuzione obbligatoriamente antirazzista delle parti (indiani
buoni, indiani cattivi, bianchi buoni e bianchi cattivi):
dico "obbligatoriamente" perché il genere
western annovera già nel suo ricco passato tutte
queste opzioni, ed escluderne qualcuna oggi penso sia molto
difficile a patto di non voler deludere gli spettatori, anche i
più ebeti o i più digiuni di film western. Belli e
brutti, calmi e impulsivi, acculturati e ignoranti, sono sparsi di
qua e di là della "frontiers" tutta ideologica, fra
esseri umani diversi e la riconsiderazione delle ragioni storiche
dei pellerossa si accompagna ad una simmetrica riconsiderazione
delle ragioni storiche degli yankee, di certo non meno benevola. La
frontiera, infatti, viene attraversata dal protagonista (ufficiale
americano, in perfetto stile ottocentesco-anglosassone, come dire
l'imperialismo moderno in persona) per un suo interesse
dichiaratamente archeologico ( "voglio vedere la frontiera,
prima che scompaia" - dice e coerentemente alla fine del film
saluta gli amici indiani come se fossero già morti, se ne
va tristemente a vivere lontano una nuova vita, ricordandoli
belli, intelligenti, amici, ma troppo pochi per contrapporsi alla
"civiltà" straripante). Il regista ha intanto
chiarito che mentre il fronte orientale è sostanzialmente
compatto - è vero, c'è la Guerra Civile, ma i
sudisti sono pure comparse, nel film come nella storia - il fronte
occidentale, invece, oltre che numericamente e scientificamente
assai inferiore, è diviso in tribù rivali (perciò
inferiore in civiltà). Gli indiani sono superiori in
bellezza, onestà, spirito di gruppo, allegria; tutte virtù
che il protagonista apprende rapidamente da loro, fino ad essere da
loro stessi apprezzato, ed elevato al massimo grado della
gerarchia sociale, il comando delle operazioni militari. In tutte le
interazioni fra l'americano e la tribù che lo accoglie lo
spettatore deve sempre constatare una superiorità culturale
dello yankee. Concetto che viene ribadito fino alla noia dalla
figura del personaggio femminile, che sembra avere i cromosomi più
autopoietici del west (l'educazione Sioux nulla ha potuto: solo a
fiutare l'uomo bianco ella riacquista i modi della perfetta
casalinga, anzi è di quel tantino succube gioiosa del suo
maschio esclusivo che ricorda meglio gli anni d'oro della borghesia
europea). Inoltre - dove si evidenzia maggiormente la finzione
del film "dalla parte degli indiani" - oltre la frontiera
ci sono anche gli indiani cattivi, tutti diversi da quelli buoni.
Sono i Pawnee, che ricordano esteticamente (quello estetico è
uno dei punti di vista più coccolati e stimolati dal
regista, anzi direi quello privilegiato) lo stile "punk"
quanto i buoni ricalcano l'"hippie" (assecondando
così mode recenti, e stereotipandole ai massimi livelli).
I Pawnee comunicando fra loro nella loro lingua, sono razzisti:
trattano un uomo bianco povero, lercio e stupido ma buono come
fosse "selvaggina" e passano dalle parole ai fatti. Non
sono cannibali ma potrebbero esserlo, e la vittima potrebbe
essere il Nostro (viene suggerito esplicitamente dal regista tramite
un inganno allo spettatore). Compiono orribili misfatti, i
Pawnee-punk, e se non fosse stato per una "botta di memoria"
del protagonista avrebbero sterminato gli amichevoli, intelligenti e
colorati ma ingenui Sioux-hippies. Per fortuna il protagonista
non ha incontrato i Pawnee, ma i Sioux! Altrimenti il film sarebbe
finito subito. Fra l'altro, l'usanza di scalpare il nemico
apparterrebbe ai primi e non ai secondi (altrimenti anche Kevin
Costner avrebbe dovuto strappare la cotenna a dei soldati americani,
prima o dopo averli uccisi "con piacere", ma per legittima
difesa). Parlavo di una distribuzione democratica delle parti,
dei valori? Mi sembra che si sia parlato di un film che valorizza
la cultura degli indiani, ma se si son visti effettivamente dei bei
disegni colorati sul sedere dei cavalli dei Sioux, le danze intorno
al fuoco la sera, il trito e ritrito, il bene e il male da una parte
e dall'altra, si è visto anche che la Storia stava
ineluttabilmente con i bianchi. Erano più forti, più
civili, più capaci di capire l'avversario, e gli indiani -
buoni e cattivi - muoiono urlando al cielo la loro rabbia. Un gesto
molto bello, che tuttavia non gli vale né l'opportunità
né la dignità di esistere. Ne consegue che per il
nostro eroe - che si è affezionato ai Sioux come al suo
cavallo e al lupo addomesticato - l'unica soluzione è far
fagotto quando l'aria si fa pesante. Lo scontro brutale non è
bello da vedere se si sta con i piedi in due scarpe. E allora
arriva la morale - dove casca l'asino - : perché lottare
ancora, se hai l'amore di una donna? Altro che cultura degli
indiani! "Balla coi lupi" chiude - conservando a fatica un
barlume di logica narrativa - con un mesto matrimonio, che in
fondo oggidì è sempre il minore dei mali. Potrei
aggiungere che il film è a tratti noioso, che vi sono episodi
che mi hanno fatto pensare che è stato fatto uno studio
per recuperare e controbattere argomenti del senso di colpa
americano, verso i pellerossa e verso il resto del mondo. Vedendo il
film infatti mi è tornata alla mente un'immagine televisiva
della guerra del Vietnam dove un sergente americano freddamente
avvicina la pistola e spara alla tempia di un ragazzetto inerme
prigioniero. Vi è un sergente americano che nel film si trova
faccia a faccia con un ragazzetto indiano inerme rimasto a guardia
dei cavalli, gli punta la pistola in faccia e spara, ma l'arma fa
cilecca, l'episodio può quindi proseguire, il sergente si
volta per affrontare un guerriero e si prende un'accetta nella
schiena da parte dell'ex inerme tenero fanciullo. Che si vuole di
più? Mors tua vita mea... Potrei aggiungere altro
materiale per argomentare la fragilità della
rappresentazione, abbellita, addolcita, o resa invece nei termini
più crudi e spietati sempre con la medesima logica:
l'epico, eroico destino di morte dei pellerossa torna a vivere
dentro di noi, attraverso di loro recuperiamo alcune virtù
primordiali, morali, insomma le solite! Quei valori che
l'ufficiale trovava un po' corrotti dalle sue parti, onestà,
salute, pulizia, bellezza, coesione sociale, allegria,
semplicità, cose da dirsi, senso della lotta, senso della
vita, e che giustificano il suo repentino passaggio della
frontiera. Ma, prima di fermare l'analisi (anzi
un'interpretazione ahimè prolissa, grossolana e contorta, me
ne scuso e da oggi ammiro ancor di più la tua rubrica), e
prima di domandare a te che cosa ne pensi del film, del tema e della
mia critica, mi piacerebbe domandarti: perché lo stregone -
colui che offre la sua amicizia al Nostro eroe e che non ricalca
affatto i modelli tradizionali del suo personaggio - non è
uno stregone? Che senso ha l'addomesticamento del lupo (battezzato
"due calzini") che poi si fa uccidere pur di rimanere
fedele con lo sguardo al suo "padrone", in rapporto
al nome del protagonista e del film? Sei d'accordo che si tratta di
un film che proietta (metaforicamente) nell'altrui società i
propri valori? Tuo Francesco Ranci
Mediocre tasso di coraggio
Cerco di rispondere subito alla lettera di Francesco Ranci. Sinteticamente:
a) Grossomodo concordo. "Balla coi lupi" di Kevin
Costner non aggiunge una virgola al cinema "revisionista"
in materia di indiani d'America - arriva dopo, ben dopo "Corvo
Rosso non avrai il mio scalpo", "Soldato blu", "Il
piccolo grande uomo", "Un uomo chiamato cavallo",
etc., che hanno costituito il ribaltamento del tradizionale
paradigma che esigeva "buoni coloni" e
"pestiferi pellerossa". I valori che informano la sua
struttura narrativa appartengono ad una cultura del pentimento e
si sa che, più un pentimento è tardivo, più
deve indurre al sospetto. Il senno di poi con il quale
s'imbastiscono storie e riflessioni come queste segue di certo a
tante vicende (Vietnam e dibattiti attuali sul "rispetto delle
culture" inclusi): Ranci ne rileva spietatamente le principali
articolazioni. Tuttavia il film, a mio avviso, offre aspetti
cinematograficamente positivi che ne consigliano la visione: certi
campi lunghi sono di rara bellezza formale, certe sequenze complesse
(come quelle della caccia ai bisonti) raggiungono toni epici, la
tecnologia al servizio della costruzione progressiva dell'immagine
(i primissimi piani iperrealistici che evolvono in plastiche figure
d'insieme) è davvero notevole, e, en passant, ci sono anche
asserti di tutto rispetto (per esempio il brano - omesso da Ranci
- di lancinante antimilitarismo che culmina con il suicidio di un
ufficiale fra delirio ed estrema abiezione).
b) Le domande che Ranci mi rivolge vertono sul "senso"
di alcuni elementi della narrazione (perché lo stregone,
perché il lupo). Una risposta la vedo plausibile soltanto
dopo aver distinto un senso per colui che narra (che ha da far
tornare i conti alla tasca della propria coscienza artistica sempre
che ce l'abbia e che sia la sua), da un senso per colui che ascolta
(che è libero di far tornare i conti in modo diverso,
anche perché il suo orizzonte è più ampio,
comprendendo il narratore medesimo e le condizioni in cui narra, e
non solo la storia narrata). Pretendere l'uguaglianza dell'uno
all'altro è una forma di fascismo culturale: chi comunica
deve accettare il libero gioco dell'interpretazione su quanto ha
comunicato. Soprattutto deve accettare l'applicazione di criteri
interpretativi estranei alla comunicazione medesima (io posso ben
dire di voler solo dire che "domani probabilmente pioverà",
ma mia moglie deve essere lasciata libera di interpretare la mia
previsione come una richiesta di "non partire per il mare").
Così, il fatto che l'eroe vada a spasso spensierato nella
prateria (1), che incontri un'indiana ferita (2), che la riporti al
villaggio (3), che questa poi guarisca (4), che sia in realtà
una bianca e che si ricordi qualche parola d'inglese (5), che sia la
protetta dello stregone (6), che venga da questi invitata a far da
interprete per i colloqui con il nostro eroe (7) e che, per farla
finita noi, loro due finiscano per l'innamorarsi l'una dell'altro
senza opposizione di alcuno (8), può esser visto - nella
ottupla articolazione - come un sistema coerente idoneo a realizzare
talune economie nella spesa narrativa, senza tuttavia perder nulla
sul piano della logica causale. Venendo a mancare uno solo di
quegli otto segmenti, la sceneggiatura avrebbe dovuto adottare
chissà quante e chissà quali altre soluzioni. Il
"senso", insomma, va al di là del consapevole e,
quando giova parlarne, lo si collochi nei vari ambiti di una ricca
mappa relazionale.
c) Con queste precauzioni metodologiche posso allora dire che
"stregone" e "lupo" rispondono alle medesime
esigenze ideologiche di trasformazione. Lo stregone di "Balla
coi lupi" abbandona lo stereotipo del "pazzo ululante"
foriero di una cultura arcaica, tribale e oscurantista per assumere
un aspetto da intellettuale che sembra appena uscito dal M.I.T. o
dalla Berkeley University - l'intellettuale cui addirittura si fa
esprimere il bello ed il piacere del confronto culturale con
argomenti che farebbero inorridire un Feyerabend ("chi lo sa
che l'uomo bianco non abbia medicine migliori delle nostre",
alla faccia del relativismo). Il lupo, da belva famelica che
rincorre le slitte disperse per farsi gl'incauti passeggeri al
carpaccio, diventa il fraterno animale ecologicamente armonico - una
specie di lupo di Gubbio riverniciato di laicità -, mansueto
fra mansueti, dedito fra dediti. Destini omologhi, dunque, per
figure narrative che rappresentano parimenti l'alternativa scartata
a suo tempo nonché la fittizia occasione di un fittizio
riscatto.
d) Ranci dice che la distribuzione degli stigmi è tale
che, se il nostro eroe avesse subito incontrato i Pawnee e non i
Sioux, il film sarebbe arrivato alla sua conclusione. L'ipotesi è
senza dubbio corretta. Tanto mi sembra corretta che ritengo stia
proprio qui la prova del mediocre tasso di coraggio analitico del
film. Per guadagnare in spessore ideologico ed innovatività
narrativa, al protagonista avrebbero dovuto toccare proprio i
Pawnee e le loro attenzioni nefande, di prim'acchito, come sente
odore di ultima frontiera: liberatici così dall'imbarazzante
punto di vista egemone, il narratore avrebbe potuto lasciare il
ruolo di protagonista ai Pawnee medesimi e provare a spiegarcene
le loro ragioni dal loro stesso punto di vista. Un esercizio di
democrazia che si guarderebbero bene dal fare.
Felice Accame
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