Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 21 nr. 183
giugno 1991


Rivista Anarchica Online

A nous la libertè
diario a cura di Felice Accame

Trito e ritrito

Una lettera di Francesco Ranci a Felice Accame e la risposta di quest'ultimo: in questa forma inconsueta si dipana, questa volta, la consueta rubrica del nostro Felice.

Caro Felice,
ho visto "Balla coi lupi" e - primo motivo di delusione - ci ho trovato poco o nulla di quell'impegno a rappresentare la vita culturale dei "pellerossa" che era stato promesso dallo sbandierato utilizzo nel film della loro lingua. Il regista mi pare abbia lavorato sul trito e ritrito, a partire dalla distribuzione obbligatoriamente antirazzista delle parti (indiani buoni, indiani cattivi, bianchi buoni e bianchi cattivi): dico "obbligatoriamente" perché il genere western annovera già nel suo ricco passato tutte queste opzioni, ed escluderne qualcuna oggi penso sia molto difficile a patto di non voler deludere gli spettatori, anche i più ebeti o i più digiuni di film western.
Belli e brutti, calmi e impulsivi, acculturati e ignoranti, sono sparsi di qua e di là della "frontiers" tutta ideologica, fra esseri umani diversi e la riconsiderazione delle ragioni storiche dei pellerossa si accompagna ad una simmetrica riconsiderazione delle ragioni storiche degli yankee, di certo non meno benevola. La frontiera, infatti, viene attraversata dal protagonista (ufficiale americano, in perfetto stile ottocentesco-anglosassone, come dire l'imperialismo moderno in persona) per un suo interesse dichiaratamente archeologico ( "voglio vedere la frontiera, prima che scompaia" - dice e coerentemente alla fine del film saluta gli amici indiani come se fossero già morti, se ne va tristemente a vivere lontano una nuova vita, ricordandoli belli, intelligenti, amici, ma troppo pochi per contrapporsi alla "civiltà" straripante).
Il regista ha intanto chiarito che mentre il fronte orientale è sostanzialmente compatto - è vero, c'è la Guerra Civile, ma i sudisti sono pure comparse, nel film come nella storia - il fronte occidentale, invece, oltre che numericamente e scientificamente assai inferiore, è diviso in tribù rivali (perciò inferiore in civiltà). Gli indiani sono superiori in bellezza, onestà, spirito di gruppo, allegria; tutte virtù che il protagonista apprende rapidamente da loro, fino ad essere da loro stessi apprezzato, ed elevato al massimo grado della gerarchia sociale, il comando delle operazioni militari. In tutte le interazioni fra l'americano e la tribù che lo accoglie lo spettatore deve sempre constatare una superiorità culturale dello yankee. Concetto che viene ribadito fino alla noia dalla figura del personaggio femminile, che sembra avere i cromosomi più autopoietici del west (l'educazione Sioux nulla ha potuto: solo a fiutare l'uomo bianco ella riacquista i modi della perfetta casalinga, anzi è di quel tantino succube gioiosa del suo maschio esclusivo che ricorda meglio gli anni d'oro della borghesia europea).
Inoltre - dove si evidenzia maggiormente la finzione del film "dalla parte degli indiani" - oltre la frontiera ci sono anche gli indiani cattivi, tutti diversi da quelli buoni. Sono i Pawnee, che ricordano esteticamente (quello estetico è uno dei punti di vista più coccolati e stimolati dal regista, anzi direi quello privilegiato) lo stile "punk" quanto i buoni ricalcano l'"hippie" (assecondando così mode recenti, e stereotipandole ai massimi livelli). I Pawnee comunicando fra loro nella loro lingua, sono razzisti: trattano un uomo bianco povero, lercio e stupido ma buono come fosse "selvaggina" e passano dalle parole ai fatti. Non sono cannibali ma potrebbero esserlo, e la vittima potrebbe essere il Nostro (viene suggerito esplicitamente dal regista tramite un inganno allo spettatore). Compiono orribili misfatti, i Pawnee-punk, e se non fosse stato per una "botta di memoria" del protagonista avrebbero sterminato gli amichevoli, intelligenti e colorati ma ingenui Sioux-hippies.
Per fortuna il protagonista non ha incontrato i Pawnee, ma i Sioux! Altrimenti il film sarebbe finito subito. Fra l'altro, l'usanza di scalpare il nemico apparterrebbe ai primi e non ai secondi (altrimenti anche Kevin Costner avrebbe dovuto strappare la cotenna a dei soldati americani, prima o dopo averli uccisi "con piacere", ma per legittima difesa).
Parlavo di una distribuzione democratica delle parti, dei valori? Mi sembra che si sia parlato di un film che valorizza la cultura degli indiani, ma se si son visti effettivamente dei bei disegni colorati sul sedere dei cavalli dei Sioux, le danze intorno al fuoco la sera, il trito e ritrito, il bene e il male da una parte e dall'altra, si è visto anche che la Storia stava ineluttabilmente con i bianchi. Erano più forti, più civili, più capaci di capire l'avversario, e gli indiani - buoni e cattivi - muoiono urlando al cielo la loro rabbia. Un gesto molto bello, che tuttavia non gli vale né l'opportunità né la dignità di esistere. Ne consegue che per il nostro eroe - che si è affezionato ai Sioux come al suo cavallo e al lupo addomesticato - l'unica soluzione è far fagotto quando l'aria si fa pesante. Lo scontro brutale non è bello da vedere se si sta con i piedi in due scarpe.
E allora arriva la morale - dove casca l'asino - : perché lottare ancora, se hai l'amore di una donna? Altro che cultura degli indiani! "Balla coi lupi" chiude - conservando a fatica un barlume di logica narrativa - con un mesto matrimonio, che in fondo oggidì è sempre il minore dei mali.
Potrei aggiungere che il film è a tratti noioso, che vi sono episodi che mi hanno fatto pensare che è stato fatto uno studio per recuperare e controbattere argomenti del senso di colpa americano, verso i pellerossa e verso il resto del mondo. Vedendo il film infatti mi è tornata alla mente un'immagine televisiva della guerra del Vietnam dove un sergente americano freddamente avvicina la pistola e spara alla tempia di un ragazzetto inerme prigioniero. Vi è un sergente americano che nel film si trova faccia a faccia con un ragazzetto indiano inerme rimasto a guardia dei cavalli, gli punta la pistola in faccia e spara, ma l'arma fa cilecca, l'episodio può quindi proseguire, il sergente si volta per affrontare un guerriero e si prende un'accetta nella schiena da parte dell'ex inerme tenero fanciullo. Che si vuole di più? Mors tua vita mea...
Potrei aggiungere altro materiale per argomentare la fragilità della rappresentazione, abbellita, addolcita, o resa invece nei termini più crudi e spietati sempre con la medesima logica: l'epico, eroico destino di morte dei pellerossa torna a vivere dentro di noi, attraverso di loro recuperiamo alcune virtù primordiali, morali, insomma le solite! Quei valori che l'ufficiale trovava un po' corrotti dalle sue parti, onestà, salute, pulizia, bellezza, coesione sociale, allegria, semplicità, cose da dirsi, senso della lotta, senso della vita, e che giustificano il suo repentino passaggio della frontiera.
Ma, prima di fermare l'analisi (anzi un'interpretazione ahimè prolissa, grossolana e contorta, me ne scuso e da oggi ammiro ancor di più la tua rubrica), e prima di domandare a te che cosa ne pensi del film, del tema e della mia critica, mi piacerebbe domandarti: perché lo stregone - colui che offre la sua amicizia al Nostro eroe e che non ricalca affatto i modelli tradizionali del suo personaggio - non è uno stregone? Che senso ha l'addomesticamento del lupo (battezzato "due calzini") che poi si fa uccidere pur di rimanere fedele con lo sguardo al suo "padrone", in rapporto al nome del protagonista e del film? Sei d'accordo che si tratta di un film che proietta (metaforicamente) nell'altrui società i propri valori? Tuo

Francesco Ranci

Mediocre tasso di coraggio

Cerco di rispondere subito alla lettera di Francesco Ranci. Sinteticamente:
a) Grossomodo concordo. "Balla coi lupi" di Kevin Costner non aggiunge una virgola al cinema "revisionista" in materia di indiani d'America - arriva dopo, ben dopo "Corvo Rosso non avrai il mio scalpo", "Soldato blu", "Il piccolo grande uomo", "Un uomo chiamato cavallo", etc., che hanno costituito il ribaltamento del tradizionale paradigma che esigeva "buoni coloni" e "pestiferi pellerossa". I valori che informano la sua struttura narrativa appartengono ad una cultura del pentimento e si sa che, più un pentimento è tardivo, più deve indurre al sospetto. Il senno di poi con il quale s'imbastiscono storie e riflessioni come queste segue di certo a tante vicende (Vietnam e dibattiti attuali sul "rispetto delle culture" inclusi): Ranci ne rileva spietatamente le principali articolazioni. Tuttavia il film, a mio avviso, offre aspetti cinematograficamente positivi che ne consigliano la visione: certi campi lunghi sono di rara bellezza formale, certe sequenze complesse (come quelle della caccia ai bisonti) raggiungono toni epici, la tecnologia al servizio della costruzione progressiva dell'immagine (i primissimi piani iperrealistici che evolvono in plastiche figure d'insieme) è davvero notevole, e, en passant, ci sono anche asserti di tutto rispetto (per esempio il brano - omesso da Ranci - di lancinante antimilitarismo che culmina con il suicidio di un ufficiale fra delirio ed estrema abiezione).
b) Le domande che Ranci mi rivolge vertono sul "senso" di alcuni elementi della narrazione (perché lo stregone, perché il lupo). Una risposta la vedo plausibile soltanto dopo aver distinto un senso per colui che narra (che ha da far tornare i conti alla tasca della propria coscienza artistica sempre che ce l'abbia e che sia la sua), da un senso per colui che ascolta (che è libero di far tornare i conti in modo diverso, anche perché il suo orizzonte è più ampio, comprendendo il narratore medesimo e le condizioni in cui narra, e non solo la storia narrata). Pretendere l'uguaglianza dell'uno all'altro è una forma di fascismo culturale: chi comunica deve accettare il libero gioco dell'interpretazione su quanto ha comunicato. Soprattutto deve accettare l'applicazione di criteri interpretativi estranei alla comunicazione medesima (io posso ben dire di voler solo dire che "domani probabilmente pioverà", ma mia moglie deve essere lasciata libera di interpretare la mia previsione come una richiesta di "non partire per il mare"). Così, il fatto che l'eroe vada a spasso spensierato nella prateria (1), che incontri un'indiana ferita (2), che la riporti al villaggio (3), che questa poi guarisca (4), che sia in realtà una bianca e che si ricordi qualche parola d'inglese (5), che sia la protetta dello stregone (6), che venga da questi invitata a far da interprete per i colloqui con il nostro eroe (7) e che, per farla finita noi, loro due finiscano per l'innamorarsi l'una dell'altro senza opposizione di alcuno (8), può esser visto - nella ottupla articolazione - come un sistema coerente idoneo a realizzare talune economie nella spesa narrativa, senza tuttavia perder nulla sul piano della logica causale. Venendo a mancare uno solo di quegli otto segmenti, la sceneggiatura avrebbe dovuto adottare chissà quante e chissà quali altre soluzioni. Il "senso", insomma, va al di là del consapevole e, quando giova parlarne, lo si collochi nei vari ambiti di una ricca mappa relazionale.
c) Con queste precauzioni metodologiche posso allora dire che "stregone" e "lupo" rispondono alle medesime esigenze ideologiche di trasformazione. Lo stregone di "Balla coi lupi" abbandona lo stereotipo del "pazzo ululante" foriero di una cultura arcaica, tribale e oscurantista per assumere un aspetto da intellettuale che sembra appena uscito dal M.I.T. o dalla Berkeley University - l'intellettuale cui addirittura si fa esprimere il bello ed il piacere del confronto culturale con argomenti che farebbero inorridire un Feyerabend ("chi lo sa che l'uomo bianco non abbia medicine migliori delle nostre", alla faccia del relativismo). Il lupo, da belva famelica che rincorre le slitte disperse per farsi gl'incauti passeggeri al carpaccio, diventa il fraterno animale ecologicamente armonico - una specie di lupo di Gubbio riverniciato di laicità -, mansueto fra mansueti, dedito fra dediti. Destini omologhi, dunque, per figure narrative che rappresentano parimenti l'alternativa scartata a suo tempo nonché la fittizia occasione di un fittizio riscatto.
d) Ranci dice che la distribuzione degli stigmi è tale che, se il nostro eroe avesse subito incontrato i Pawnee e non i Sioux, il film sarebbe arrivato alla sua conclusione. L'ipotesi è senza dubbio corretta. Tanto mi sembra corretta che ritengo stia proprio qui la prova del mediocre tasso di coraggio analitico del film. Per guadagnare in spessore ideologico ed innovatività narrativa, al protagonista avrebbero dovuto toccare proprio i Pawnee e le loro attenzioni nefande, di prim'acchito, come sente odore di ultima frontiera: liberatici così dall'imbarazzante punto di vista egemone, il narratore avrebbe potuto lasciare il ruolo di protagonista ai Pawnee medesimi e provare a spiegarcene le loro ragioni dal loro stesso punto di vista. Un esercizio di democrazia che si guarderebbero bene dal fare.

Felice Accame