Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 21 nr. 179
febbraio 1991


Rivista Anarchica Online

Così fan gli altri
di AA. VV.

Avvenimenti

L'intervista a Riccardo Orioles, redattore capo di "Avvenimenti", è stata realizzata da Salvo Vaccaro nei locali romani della redazione del giornale.

Perché nasce "Avvenimenti"?

Si è valutata positivamente l'opportunità di un mercato lasciato scoperto dalla stampa tradizionale e la possibilità di diventare un punto di riferimento contro le concentrazioni editoriali nel settore dell'informazione che nei mesi in cui nasceva "Avvenimenti" andava a maturazione. Al di là di posizioni politiche, è difficile oggi in Italia avere un pluralismo di informazioni su determinati temi. Non credo che in Italia ci siano editori disposti a correre il rischio di entrare in questa ottica, e d'altra parte abbiamo valutato positivamente la praticabilità di una larga partecipazione popolare ad una simile iniziativa, fondata su un criterio di "professionalità" da un lato, e di una larga base politica dall'altro; nel nostro comitato promotore e nella nostra redazione sono rappresentate almeno cinque, sei posizioni politiche differenti, di sinistra, che instaurano un terreno di incontro, senza omogeneízzarci, in un testo oggi sempre meno ufficiale e sempre più sovversivo: la Costituzione italiana (i valori della libertà, la repubblica nata dalla resistenza).

L'azionariato popolare riesce a darvi quell'indipendenza che manca ad altre esperienze editoriali?

Certamente. Noi possiamo tranquillamente pubblicare un pezzo su Gardini - un pirata formidabile da quando non esiste più Sandokan, che ha fatto grandi cose per lo sviluppo del Brasile, e dell'Amazzonia in particolare, come alcuni suoi amici verdi riconoscono e apprezzano - non avendolo tra i nostri proprietari. E così per altri. Oggi in Italia gli imprenditori più grandi hanno i giornali più grandi, e così via secondo un costume che vedrà il piccolo droghiere controllare il giornalino del quartiere. A questo tentiamo di opporci, non per partito preso contro questo o quell'altro, ma fungendo da registratore, da telecamera di quanto succede in Italia, il che ci ha portato ad avere scontri con i "potenti" verso i quali alcuni di noi potrebbero avere anche simpatia - ma senza cedimenti.

La pubblicità è però un altro veicolo del controllo imprenditoriale sulla stampa...

Noi vendiamo 40.000 copie senza raccogliere pubblicità in misura rilevante. Certamente, la pubblicità è condizionante, si trova in regime di oligopolio, e limita la libertà di stampa, come dimostra l'impero di Berlusconi, che prima di fondarsi sull'emittenza, si fonda prevalentemente sulla raccolta pubblicitaria. Io però comincio ad avanzare l'ipotesi che forse sia possibile sfuggire a questa "legge", ed "Avvenimenti" ha sostituito il sig. Agnelli come inserzionista, a favore del sig. Y che ci invia la sua sottoscrizione dal piccolo paesino sperduto della provincia. Siamo ancora lontani dall'aver reso superflua la raccolta pubblicitaria, ma riteniamo che siamo sulla buona strada per basarci soprattutto sulle vendite e sul rapporto diretto con il lettore. Se il nostro modello funzionerà nel nostro piccolo, avremo dimostrato che potrà funzionare anche su scala più grande.

Perché l'azionariato popolare non fa scuola? Si tratta di una resistenza padronale, oppure del mondo dell'informazione?

Un giornale ha il 50% circa del suo budget derivante dalla pubblicità, ed è un meccanismo che in passato ha lasciato alcuni margini, ma che oggi, estendendosi, lascia sempre meno spazi. Si può aprire, come facciamo noi, una grossa battaglia politica, cercando di coordinare un centinaio di piccole testate locali, mettendo però nel conto che la si può anche non vincere perché il mercato è già saturo: come voler aprire un'altra industria automobilistica in Italia; in teoria nulla te 1o vieta, in pratica non faresti strada. In questo caso, sarebbe consigliabile aggirare l'ostacolo costruendo biciclette, o automobili ad alcool e via dicendo, sempre per restare nell'esempio. Voglio dire che dobbiamo coniugare una grande fantasia politica con una estrema rigorosità. Nei confronti e per rispetto del lettore, noi siamo costretti, primo, a non affidarci a Gardini, e poi ad evitare errori professionali gravi. Noi non possiamo permetterci errori che minerebbero la fiducia del lettore. I movimenti sociali hanno anche prodotto una ricaduta professionale sul mestiere del giornalista, per cui se il giornalista di Gardini può fare il suo lavoro rivolgendosi agli uffici stampa, o selezionando notizie fornitegli da fonti superiori incontrollate, noi no, dobbiamo andare a cercarci sulla strada le notizie ed a decifrarle autonomamente. Noi innovatori siamo così ferocemente conservatori sul piano professionale del mestiere - molto legato alla figura dei giornalista anni '30, il cronista di nera, per intenderci, che raccoglie per strada le notizie.

Qual è il vostro giudizio sull'informazione in Italia? Esiste libertà di stampa?

In Italia c'è l'assoluta libertà, sia per Agnelli che per il barbone della stazione, di andare in piazza a chiedere 1'elemosina: è un diritto inalienabile e nessuno lo può impedire. La selezione delle notizie è, oggi come ieri, terrificante, né mi sogno di fare il panegirico alla figura "mitica" del cronista "farabutto" degli anni '30, pur avendolo come modello grazie alla sua altissima capacità professionale; però, tra le cose prodotte, c'era pure un ragionevole livello di libertà di stampa. Oggi il giornalista non è diventato più cattivo o più reazionario di ieri, è più obbligato a fare alcune scelte anziché altre, meno ampie e meno libere culturalmente; inoltre la formazione del giornalista è mutata radicalmente, ed oggi vengono premiate altre capacità professionali che non la ricerca di notizie, il dialogo con la gente, ecc... Così come oggi è difficile trovare il direttore che ti manda a fare l'inchiesta, critica o meno, su Gardini, bensì il direttore che ti invierà a fare una chiacchierata con l'ufficio stampa di Gardini. E tale deficit professionale provoca anche la perdita di capacità valutativa nei confronti della controparte su cui operare l'analisi critica, senza considerare che si troverà sempre qualcuno in futuro disponibile a fungere da mero terminale. Oggi abbiamo giornalisti più puliti rispetto al cronista di ieri, più presentabili ma più vincolati. Considero con sospetto la pratica dei "fringe Benefits" tra giornalisti perché manda all'aria una certa etica professionale indipendente. È vero che c'è pure qualcuno che vuole meno libertà di stampa, però è altrettanto indubbio che ci sono minori condizioni perché questa libertà sia percepita e portata avanti. Al giornalista non interessano gli effetti a monte o a valle del suo lavoro di ricerca di informazioni.

In una realtà di poteri concorrenti, il potere della stampa è rimasto inalterato?

Guarda caso, i direttori dei giornali che "contano" sono quelli che che sono anche imprenditori; il potere della stampa vero e proprio è molto indebolito, e da tempo, per via di due fattori: in Italia non c'è mai stato un editore puro (eccetto la parentesi Rizzoli), per cui l'investimento sulla stampa, che in termini quantitativi rende meno di altri settori, viene subordinato ad altri fini utili per l'attività primaria dell'imprenditore in questione. Finché esisteva uno "stronzo" cronista incaponito a fare il suo mestiere con professionalità e dignità, allora il sistema presentava i suoi spazi di libertà; con l'emergere della concentrazione editoriale - e non solo in questo settore, per la verità - non c'è una forma di opposizione interna a questo sistema di cose, al di là di scelte volontarie e forzatamente minoritarie come la nostra e quella di altri. "Avvenimenti" vuole essere una locomotiva, un esperimento per dimostrare che è possibile fare un giornale che scavalchi alcuni meccanismi e spezzi un oligopolio; se chiude, pazienza, ma se riesce, sarà un precedente che altri potrebbero sfruttare facendo, che ne so, addirittura un quotidiano.

Da un punto di vista del lettore, quali sono i margini di libertà, di scelta, considerando la piattezza, l'omogeneità, il conformismo dilagante del panorama informativo?

Diamo uno sguardo d'insieme; abbiamo alcune riviste politiche sopravvissute, con un pubblico ben preciso di lettori; poi abbiamo un interessante arcipelago di stampa locale che riporta la voce della cosiddetta società civile, di una sorta di sinistra sociale (mi riferisco a particolari esperienze in Sicilia, in Veneto e altrove). Non è molto ma qualcosa comincia a venire fuori, timidamente, soprattutto nel giornale locale, dove si riportano notizie vere (e non tagli di nastro alla presenza di onorevoli e cose simili, sono roba ormai da medio giornale), dove si lavora liberamente perché si coinvolgono spesso direttamente ragazzi protagonisti degli stessi eventi.

Così il lettore ha meno possibilità di avere notizie per farsi un'opinione, mentre ha più opinioni con le quali restare disinformato.

Sì, il lettore è considerato un normale consumatore. Così nascono oggi i giornali, da una offerta pubblicitaria di un certo tipo in cerca di un pubblico di consumatori; operazioni più intelligenti di questo tipo inseriscono poi anche un contorno di informazioni (tipo il Venerdì di Repubblica e simili), ferma restando la correttezza professionale di separare contenuto informativo e contenuto pubblicitario. Ma in altri casi ciò non sempre avviene. In ultima analisi, tutto ciò deriva dall'oligopolio padronale e dalla diminuita capacità professionale legata alla struttura del sistema informativo, e non solo alla tenuta del singolo giornalista.

Un'ultima domanda: lavorando dieci anni fa insieme a Giuseppe Fava, a Catania, cosa è cambiato nei margini di libertà di stampa?

"I Siciliani" era un settimanale locale e non nazionale, poteva permettersi alcuni lussi perché comunque era un giornale di trincea, militante. Allora, quando venne incriminato Santapaola, il boss mafioso di Catania, il quotidiano della città diede la notizia negli interni con 48 ore di ritardo: si trattava di un fatto significativo che rendeva chiare le posizioni in campo. Adesso in Sicilia tutti sono u{ufficialmente non mafiosi, compresi i politici locali, sebbene il consiglio comunale di Catania sia tra i più tartassati dalla magistratura - una sorta di maggioranza assoluta trasversale di incriminati. Improvvisamente, nel settembre dell'88, se ricordo bene, tutti i consiglieri comunali, grazie ad un ordine del giorno, sono diventati, con l'eccezione di DP, contrari alla mafia e schierati contro di essa. E da allora la mafia a Catania è completamente debellata, una città senza omicidi... Infatti, risulta che Cossiga, Gava, Andreotti, sono da sempre acerrimi nemici della mafia, che invece annovera tra i suoi alleati quei perversi fanatici dell'antimafia come Orlando, Pintacuda, e altri mafiosi come noi. Diceva un presidente statunitense: si può imbrogliare tutto il popolo per un certo tempo, o una parte di popolo per tutto il tempo, ma non tutto il popolo per tutto il tempo. Chiudiamo con questa sentenza amaramente consolatoria sperando che non venga smentita.

Salvo Vaccaro


Il Portavoce

Il testo su "Il portavoce", giornale di base dell'area piemontese, è il frutto di un colloquio telefonico con Paolo, uno dei redattori, esponente del "gruppo amico" di Asti.

Un giornale che scelga di riportare, come sottotitolo, "la voce dei poveri e degli emarginati", senza lasciarsi irretire dai luoghi comuni della solidarietà, deve rivestire un qualche interesse.
Paolo è uno dei redattori de "Il portavoce", una pubblicazione ciclostilata ormai da 12 anni tra Pino d'Asti e Torino, che ha saputo creare una simpatica quanto efficace simbiosi tra il tanto noto quanto raramente applicato "pensare globalmente ed agire localmente".
Le radici del "Portavoce" sono in un gruppo locale di lotta all'emarginazione nelle sue varie forme e di ricerca di alternative alla disoccupazione, secondo alcune direttrici che – ci dice Paolo – leggano questi fenomeni non solo come denuncia ma come ricerca di alternative e iniziative di solidarietà.
Varie sono le iniziative realizzate dai centri che fanno riferimento al "Portavoce" in questi anni, che hanno poi trovato riscontro sulle pagine del giornale.
Ricordiamo l'attenzione, concretizzatasi anche in opportunità lavorativa, riservata al riciclaggio e alla raccolta differenziata dei rifiuti, a sostegno della volontà di rivoltare il fenomeno della disoccupazione per creare opportunità di lavoro che non siano solo finalizzate alla sussistenza economica.
L'impostazione grafica del "Portavoce", legata agli inevitabili limiti del ciclostile, è però compensata da disegni e ghirigori che vivacizzano la lettura.
Il giornale viene pubblicato in media con una trentina di pagine comprese tra articoli di carattere generale – sempre legati comunque ai temi portanti della rivista – comunicati e cronache di iniziative sia locali che nazionali. Il "Portavoce" affronta e legge le tematiche dell'emarginazione in forma trasversale, senza indugiare su atteggiamenti eccessivamente giovanilistici, anche se hanno trovato spazio comunicati e notizie dai centri sociali.
Chi cercasse un foglio da barricate o da provocazioni iconoclaste non lo troverà nel giornale di cui stiamo parlando, dove sembrano confluire, ben distinte ma anche unite da un legame ancora da individuare, istanze cristiane e irriverenze libertarie, radicamenti in un mondo pre-industriale e progetti di rinnovamento più metropolitani, antimilitarismo, autocostruzione e una particolare attenzione alla creazione di alternative di vita e di lavoro. Se ampio spazio è riservato ai tentativi di sviluppar una rete per l'incremento dell'agricoltura biologica, un'attenzione particolare viene rivolta anche al commercio alternativo con i paesi del terzo mondo. Nell'ambito dei movimenti che operano per un nuovo modello di sviluppo, il "Portavoce" è infatti attivamente impegnato nella campagna "per un commercio equo e solidale", attraverso la rete di punti vendita che commercializzano prodotti provenienti da cooperative del sud del mondo, al di fuori dei canali gestiti dalle multinazionali dell'import-export. Al centro dell'impegno del giornale c'è quindi - come si legge in un vecchio numero – l'esigenza di farsi "portavoce" di tutte "le esperienze culturali-economiche che propongono un modello di vita e di sviluppo a dimensione della persona". Il "Portavoce" è un giornale attento soprattutto alla realtà locale ed è infatti nell'area piemontese che sono concentrati i circa trecento abbonati. Il gruppo redazionale propone delle riunioni aperte durante le quali dovrebbe essere definita l'impostazione del prossimo numero da ciclostilare. In realtà – come confermatoci da Paolo - solo un piccolo gruppo finisce col seguire regolarmente il lavoro redazionale e coll'assumersi la responsabilità delle decisioni.


Grandevu

L'esperienza del mensile "Grandevu" è qui rievocata da una delle fondatrici, Letizia Battaglia, assessore nella giunta Orlando, oggi consigliere verde a Palermo, intervistata da Salvo Vaccaro.

Letizia Battaglia è una fotografa nota a livello mondiale; consigliere comunale a Palermo nelle Liste Verdi, è stata assessore alla vivibilità nelle giunte guidate da Leoluca Orlando. Il mensile Grandevu, da lei fondato nel 1986, ha anche riflesso umori ed emozioni diffuse in una "certa" Palermo. Siamo andati a sentirla nella sua nuova casa appena finita di ristrutturare in pieno centro storico.

Grandevu: perché nasce con questa testata non comune? Il suo nome riflette già un'idea che avete in testa?

Personalmente amo molto fare pubblicazioni, allora avevo già fondato, con Valeria Ajovalasit (ora presidente nazionale di Arci-donna) La luna, casa editrice di sole donne, avevo pure iniziato a fare una rivista di fotografia per sole donne; è una passione, mi piace poter pubblicare i pensieri, le idee o le opere (fotografiche) della gente. Quando diventai consigliere comunale a Palermo, prendevo dei gettoni di presenza e non volendo intascare soldi dei cittadini, pensai che sarebbe stato più utile riversarli per fare un foglio di informazione. Da assessore prendevo un gettone di due milioni e mezzo e feci Grandevu più ricco sino a coprirne i costi con quei soldi. Grandevu non vuol dire niente, è un gioco nato per caso una sera nella mente di Franco Zecchin, fotografo e mio compagno, viene da "grandeur", da "grande v", cioè "grandi verdi", un francesismo per ironizzare su un certo atteggiamento siciliano...

Ma se non sbaglio Grandevu è anche un particolare "taglio" dell'obiettivo fotografico". una metafora, insomma.

Non saprei dire quanto consapevole o inconsapevole. All'inizio davamo spazio a chiunque, a cose "serie" e a cose "banali", nel senso letterario del termine, cioè che avevano importanza solo per una persona, quella che le scriveva, e a noi sembrava importante che anche quella avesse uno spazio di rispetto. Grandevu ha cercato di ospitare la voce della gente, non era solo dei verdi, mi sarebbe sembrato ben poca cosa, sicuramente era per la sinistra - non so se si può più usare questa espressione -, cioè per la libertà, la giustizia, la verità; era aperto al PCI, a Dp, agli anarchici, ad associazioni espressioni della società civile.

Che parte giocava la fotografia, ti sembra preponderante rispetto al testo scritto?

Non era più preponderante, comunque per noi era importantissimo questa fotografia in bianco e nero, che in genere non trova spazio nei settimanali normali, frutto della ricerca di una particolare sensibilità, di una marginalità: uno sguardo marginale in rapporto ai grandi avvenimenti.

Come eravate organizzati in redazione?

C'era un ottimo rapporto tra tre-quattro persone, il giornale veniva fatto tre giorni al mese in tipografia, con un meraviglioso capo-operaio che aveva veramente capito lo spirito di Grandevu e si sacrificava con noi, mettendo in piedi il numero con pezzi richiesti o arrivati, così, anche da sconosciuti che inviavano una poesia che noi pubblicavamo.

Hai già accennato alle fonti finanziarie: ti è mai pesato o ti hanno mai fatto pesare questo tuo ruolo di "editore" in senso forte?

No, mai sorti problemi perché ho sempre diviso la mia vita con gli altri, io mettevo i soldi (anche miei) ma non avevo un ruolo politico determinante anche perché eravamo quasi sempre d'accordo. È stata una bellissima esperienza, purtroppo ora conclusa per motivi finanziari - io non ce la faccio - che sicuramente intenderò riprendere un domani, chissà con chi e come.

La pubblicità, grande invadente della stampa.

All'inizio non volevamo assolutamente pubblicità, poi si pensò di poter avere qualcuno che lavorasse a tempo pieno per Grandevu (abbonamenti, pubbliche relazioni, ecc.) pagato con un gettone derivate da entrate pubblicitarie, però se in quattro anni abbiamo incassato tra distribuzione e pubblicità cinque milioni è già assai. La distribuzione non ci dava soldi, anzi li voleva da noi per portarlo nelle edicole, e per noi era già tanto vederlo dappertutto. Finanziariamente non poteva essere un successo, la grande pubblicità non era interessata a un giornale marginale che raggiunge persone che in genere non sono consumiste, e poi la nostra qualità politica del periodo non ci rendeva graditi, né noi siamo mai stati potenti da ottenere favori da enti sotto forma di abbonamenti, non essendo ammanigliati con il potere, né ci siamo ben guardati dal chiedere qualcosa ai politici che disprezzavamo.

Qual è il panorama informativo a Palermo, con il quale competevate, come giudichi la libertà di informazione a Palermo?

Un disastro per Palermo, non esiste una stampa libera, il "Giornale di Sicilia" sembra il portavoce di qualcosa che non voglio neanche nominare, "L'Ora" si dibatte tra l'essere comunista e il tentativo di schiacciare i piccoli alla sua sinistra. La gente purtroppo viene informata da questi giornali, e si tratta di un crimine, proprio un crimine. Noi verdi, non avendo, come altri del resto, spazio sui giornali, siamo costretti a fare i tatzebao per informare i cittadini stessi. È terribile, l'informazione è ridotta ormai a veline, la stampa fa da persuasore occulto, peggio della pubblicità perché colpisce bambini e gente spesso impreparata e senza strumenti.

Cosa vuol dire per te stampa libera?

Io non conosco stampa libera in Italia, certo prediligo "La Repubblica" ma anche dietro di lei ci sono interessi potenti; no, non mi sembra che abbiamo qualcosa come il giornale inglese "The Independent", che sembra veramente libero. Io credo di essere una persona abbastanza semplice, non ho una mentalità politica, e devo leggere tre-quattro giornali per cercare di capire qualcosa, e non è detto che riesca a leggere la verità dietro i misteri. Non c'è stampa libera, ogni tanto ci sono dei buoni giornalisti, dei buoni articoli, anche se tutto dipende dalla politica e da chi c'è dietro al mondo dell'informazione.

Che caratteristiche dovrebbe avere, secondo te, un foglio libero, dal punto di vista della proprietà?

La proprietà non c'entra niente, sarebbe comunque meglio che fossero gli stessi giornalisti a mettersi insieme, ad essere i proprietari del loro lavoro, ad unirsi per una certa idea di informazione. Sono però piuttosto scettica perché i soldi sono però sempre dall'altra parte.

Che strumenti ha il cittadino per informarsi e per essere protagonista dell'informazione?

Il cittadino non ha alcun mezzo, e le "lettere al direttore", ad esempio, provano come vengono pubblicate solo quelle funzionali al taglio editoriale del giornale in questione. Non saprei come occorrerebbe strutturare un giornale affinché i cittadini abbiano obiettivamente voce, sarebbe tutto da sperimentare. Il giornale è uno strumento essenziale, potente, e il giornalista avrebbe da fare tanto per la sua professione, anzi, per la sua missione, e mi rendo conto di usare una frase vecchia a cui non credono più neanche i preti. Sono comunque fiduciosa che ci siano possibilità da esplorare e che ce la faremo, anche in questa finta democrazia che dà la libertà di spendere quel po' che si guadagna più o meno lecitamente.

Salvo Vaccaro


AAM Terra Nuova

Pino de Sario, che ne è stato uno dei fondatori, parla della rivista "AAM" Terra Nuova, delle speranze che l'hanno animata e di quelle che la accompagneranno verso il nuovo millennio.

Origini e moventi di Aam Terra Nuova: rompere le "uova nel paniere" a chi sta avvilendo e contrabbandando con profitto le infinite e misteriose complessità proprie del "vivente". In altre parole, promuovere un'assidua azione di disturbo per contrastare l'atteggiamento rapace perpetuato dagli attuali governi su natura, uomo e sensibilità.
Altrimenti, perché mai avremmo dovuto simpatizzare -noi ancora piccoli - per i cugini più grandi, ribelli, che andavano a gettare uova alle signore impellicciate della Scala di Milano? Oppure, perché essere solidali con le centinaia di giovani proletari che rivendicavano il diritto anche alla musica, in barba ai "padroni" dei mega-concerti?
Abbiamo coabitato nella navicella in direzione "altra costellazione", quella composta dai proletari in divisa, dalle radio libere, dalle comuni agricole e urbane, dai bollettini della controcultura (dalla "Tazza di te" a "Puzz"). Insomma, ci siamo innamorati di quei vagiti giovanili che, attratti dall'insubordinazione e insofferenza per le norme dettate, e dalla cultura ribelle, ci facevano sentire fuori dalle righe, fuori da ogni demagogica prescrizione. Ci dondolavamo così al suono di una enfatica e anche lieve poesia.
"L'urlo" di Allen Ginsberg ci fece sentire ancora di più figli di quelle ribellioni. Così i beat-come prima gli hipsters - nacquero e morirono; un po' come meteore lasciavano il posto ad altre "strane" mode, tutte, a loro maniera, figlie di una affascinante ricerca libertaria. Sono passati i freak, gli indiani (metropolitani), gli alternativi (mistici, naturisti e autosufficienti). Cosa porteranno invece i nuovi anni'90? Per ora, solo qualche presagio "sotterraneo". Come sotterranei, o meglio underground, eravamo nei due decenni passati, allorché "la grande nemica, la seduzione dell'establishment" - per dirla alla Fernanda Pivano - azionò tutte le sue capacità di assorbimento.

I nativi
Gli alteri signori della terra americana, i pellerossa, verso cui i giovani USA ed europei, si sono sempre sentiti attratti in un misto di rimorso per i misfatti e le stragi dei padri a loro danno e di fascino per una civiltà vicina ma quasi completamente perduta, per i riti sociali e religiosi, per la comunione perpetua di sacro e profano, cielo e terra. Sono proprio loro a sciogliere il nostro imbarazzante dilemma, non altro poi e quello stesso che fece impazzire un'intera generazione, stiamo parlando del "personale e politico". Ricordo con simpatia le conversazioni con John Mohawk, rappresentante del Consiglio delle Nazioni Irochesi, che con tutta tranquillità ci diceva: "Ma come fare a non impegnarsi nello stesso tempo ai problemi interni della mia tribù (cibo, relazioni, bambini, ecc.) e alle minacce che ci provengono dallo stato del Sud Dakota?". In quegli anni a Black Hills le compagnie elettriche e forestali filo-governative erano sulle tracce dell'uranio, pretesto e fine, per contrastare ulteriormente la pur avvilente vita in riserva.
Anche Aam Terra Nuova in questi dieci e passa anni ha tentato di attivare la medesima consonanza, non con pochi limiti e demagogie. Al cibo e alla salute proponevamo come inscindibili bisogni l'impegno antimilitarista e antinucleare.
Ebbene, questa capacità di comprendere ed elaborare, anche se a fatica, si è fatta certamente largo nel movimento. La realtà poi ha avuto la sua parte, imponendoci alcuni utili smantellamenti delle fissità ideologiche, belle e buone nuove religioni, con tanto di vangelo e prelati.
Abbiamo nel frattempo assaporato l'ebbrezza di entrare e uscire dai soliti ambiti di competenza, azzardandoci a volte ed esponendoci fin troppo alle improvvisazioni di turno, orientando però il nostro sguardo verso una cultura globale che potesse lucidamente far esercizio di apertura e di incisività al contempo. Abbandonare le fissità ha significato anche tenere a bada le latenze razzistiche che, diciamocelo, sono state assai presenti nei movimenti sedicenti libertari e rivoluzionari in genere. Non si tratta, a nostro modesto parere, di coltivare la "verità" su libri, nelle menti o nell'asfissia delle sedi politiche, bensì di annunciarne un probabile o presunto avvicinamento, fatto di tenui tentativi, di gradualità - come diceva il buon Malatesta - e soprattutto di tanta pratica.

Che fare
Essere più pratici e meno disincantati. Meno ideologici, meno costruiti e più esposti ai venti della mutevolezza e del divenire. In molti oramai (vedi Enel e campagna sul risparmio energetico) fanno appello al buon senso, una sorta di ultima spiaggia... per raddrizzare storture divenute pressoché congenite. Un bagno di buon senso potrebbe fare bene anche ai militanti che negli ultimi quattro lustri hanno impugnato un testimone e raccolto la speranza al cambiamento, certamente trasversale a epoche, età storiche e generazioni.
Ma va bene il buon senso, ma per fare che? La Pivano scriveva già nel '73: "Era inevitabile l'approdo a una concezione che vede la rivoluzione come creazione di strutture sociali e culturali alternative ma coesistenti a quelle del sistema. Il processo dunque è ancora e sempre quello dello svuotamento dall'interno", in quello che nei passi successivi avrebbe definito come "società nella società" (1).
Per Gary Snyder sono tre i punti o forse gli ingredienti per animare tale visione; il selvatico, come realtà non manipolata e non gestita dall'uomo; il buono come utile e vitale per la sussistenza; il sacro, come ciclico e spirituale susseguirsi di eventi e manifestazioni.

Riabitare
Gli ecologisti ben intenzionati possono anche abbandonare una battaglia in difesa del territorio quando diventa stancante e noiosa e tornarsene alle loro case in città. Ma chi abita veramente un posto, dice Nabokov, "lotterà con le unghie e coi denti, come fosse aggredito in un vicolo cieco". E il vero abitare non significa non viaggiare. Ma può essere quel crocevia di scelte (questo posto e non un altro), di pragmatismi (l'arte di destreggiarsi e di far funzionare le cose intorno a sé) e di nuove acquisite sensibilità. Ray Dessman ha introdotto due termini utili per descrivere la cultura del riabitare: "culture a base ecosistemica" e "culture da biosfera". Dassman vuole contrapporre le società la cui vita o la cui economia sono incentrate su una specifica regione naturale, a quelle che hanno scoperto che era profittevole espandersi in un'altra vallata, nel territorio di un altro popolo, per sottrargli risorse naturali e umane.
Così, con enfasi, pigli semprevivi, forse troppa poesia, abbiamo insistito - a ragione - in questi anni sulla necessità di un ritorno alla terra. I riabitatori come ama chiamarli Snyder - o i nuovi insediamenti - come li abbiamo definiti noi - sono quegli individui che abbandonano le società industriali e ritornano alla natura. Ma le esigenze concrete della vita radicata in un posto, basata sull'energia verde delle piante e del sole che si concentra in quei punto, sono oasi intense, intellettualmente e fisicamente, che questa è anche una scelta morale e spirituale. Intraprendendo questo cammino, cominciamo ad imparare qualcosa di queste antiche vie, che sono al di fuori della storia e perennemente nuove. (2)

AAM Terra Nuova
La visione, o meglio, le necessità del 1977, anno di fondazione, parlavano di intenzioni a trovare momenti di contatto attraverso tre coordinamenti paralleli, agricoltura, alimentazione e medicina (ossia "aam"). Cinque anni più tardi, nell'introdurre "Terra Nuova", letteralmente avvolti in fantasiosi e ispirati scenari planetari, in una poesia presa a prestito da Terry Riley, tratteggiavamo la vastità dell'intervento. Non ben consapevoli degli oneri a cui andavamo incontro (ma neppure delle grandi soddisfazioni a cui ci schiudevamo...) in quei versi c'era tutta la nostra utopia in vista di una società senza guerre, senza violenze (comprese quelle dei macelli), dove gratuità e salute dovevano essere a tutti garantite. Un luogo dove alle smantellate autostrade potevano seguire rigogliosi orti e dove con le bandiere nazionali venivano cucite tende da circo, dove, - attenzione - "fu permesso ai politici di rappresentare innocui giochi teatrali e dove il concetto di lavoro fu dimenticato".
Cosa resta di quel disincanto, di quella "purezza", di quella forza? Sicuramente tante tracce, svariati assaggi, intuizioni come cavallette, ma anche scarsi mezzi, tante facce ancora tristi, tanta utopia in fumo, qualche certezza in più sugli strumenti di cui dotarsi e qualche contraddizione - sana - di ideologica natura e comportamentale (o finalmente!). Il fatto che, a distanza di ben tredici anni, ancora esiste Aam Terra Nuova, il primo tra i primi ad affrontare i temi dei consumi ecologici, è già un indizio più che incoraggiante. Occorre però far seguire all'indizio di idee e presagi, fin qui solo tratteggiati, fatti più marcati di inequivocabile significato, che possano portare incrementi in solidità e intrapresa.
Le riviste, come la piccola editoria di base, hanno bisogno di allargare il loro mercato, di acquistare nuove e più diffuse committenze, di accrescere in capacità manageriali e di immagine. Il discorso è del resto estensibile anche agli altri settori produttivi (vedi quello agroalimentare, artigianale, dei servizi in genere). Ma da dove viene la capacità di affrontare i nodi del denaro e dell'economia - ripetutamente rimossi e occultati in nome delle alternatività - o gli scottanti quanto delicati aspetti delle competenze, delle divisioni dei lavori, che molto spesso, oltre dalla vacua "non-gerarchia" non sanno andare.
Siamo poveri e restiamo poveri è parimenti ideologico come il povero che cerca di arricchirsi a tutti i costi. Ma più che demagogia, si tratta forse - e permettetelo - di ulteriore fissità. Come quei gruppi che pur di non darsi sistemi più efficienti, dirsi che non è vero che si è tutti uguali - che il "comando" esiste e va amministrato, rischiano di chiudere baracca e burattini... Ogni appello al buon senso è qui puramente casuale. Ma dicevamo, chi e come ci può affrancare dal perpetuo ideologismo, dalla immotivata superiorità che rasenta a volte una sprezzante e cieca presunzione? Chi, se non noi stessi. Cooperatori, militanti, gestori di spazi "alternativi", gruppi e associazioni, circoli e comitati, editori, dobbiamo fare più sul serio, dobbiamo arrischiare nuove tendenze, avvicinare gli stessi fantasmi (denaro e organizzazione in testa) che troppe volte ci han fatto scappare a gambe levate.

Nuove maschere
Quindi poveri, ma non per sempre. L'organizzazione del collettivo vista in orizzontale, giusto, ma con incarichi, responsabilità che variano, ruotano, contagiano.
Vabbè ricchi - si potrà chiedere - ma quale ricchezza e per che cosa? Ricchezza di mezzi, di occasioni, di possibilità; ricchezza di informazioni e servizi; ricchezza in capacità. Ricchezza di strutture che si aprono ad un nuovo mondo, affrancandosi dalle storture altrimenti riproposte con lo stampino.
E non venitemi a raccontare che per testimoniare il nostro impegno antimilitarista possiamo solo andare in pellegrinaggio un mese sì e un mese no davanti al carcere di Peschiera... O che per essere in sintonia col "verde" crescente, non possiamo che aggregarci alla solita biciclettata, ormai un classico dei classici.
Intendiamoci, vanno benissimo queste cose. Ma perché non pensare a qualcosa che ci investa più da vicino, ci sospinga più nel profondo, ci stimoli evoluzioni più nette? Perché continuare a vita all'esiguità e alla miseria del tempo liberato di "dopolavoro" e "dopo-pensione". E' insinuata forse la fissità, o ancor di più la sicurezza?
Essere umani e costruire giorno per giorno umanità è come un crogiolo che contempla le maestrie politiche e relazionali, le arti manageriali ed affettive, i saprei intuitivi ed effettivi.

Nuovo millennio
E' datata '88 la carta di intenti che raccoglie gli spunti per il nuovo millennio. È scaturita da un lavoro di gruppo tra rappresentanti delle diverse aree del movimento: ecologista, nuova era, autosufficiente, anarco-libertaria, nonviolenta. Nella dolce campagna toscana in una tiepida fine-estate, erano più tenui anche i toni, più flessibili le asserzioni, forse tutto cospirava verso una più profonda emancipazione?
"Noi non ci contrapponiamo pragmaticamente a niente e a nessuno, seppure ci troviamo a dissentire radicalmente dalle forme dominanti". Indicazioni nitide e trasparenti erano riportate su quella "carta", germogli di uno sguardo meno fisso e più panoramico e di insieme, "che dopo l'epoca dell'ego e del dominio, ci porti integrazione fra femminile e maschile, materiale e spirituale, natura e cultura, in una unità finalmente compiuta, forse divina".
Se i linguaggi si fanno più elastici, le menti più aperte, nuove possibili convergenze possono presentarsi da qui ai prossimi anni. Il programma comune potrebbe essere rappresentato da forme di impegno sociale a detrimento dei passati politici e delle tentazioni di irregimentare attività, iniziative, esperimenti: Un grande laboratorio di intenti potrebbe invece entrare in funzione, una palestra in cui far comparire i propri grandi saggi (da Bakunin a Gandhi, da Fukuoka a Capra, ecc.) e provare ad attivare aperture e nuove congiunzioni. Potrebbe così definirsi l'opera di una specie di consulta che raccolga tutti gli organismi di base che nella società intendono esprimere le loro qualità e convinzioni.
E chissà che già da quest'anno non si riesca - intorno alla nostra proposta di bioregionalismo (italiano) - ad innescare la prima marcia e incominciare ad andare.

Pino de Sario

1) Mario Maffi, La cultura underground, Laterza, Bari 1973.
2) Gary Snyder, La grana delle cose, Ega, Torino 1987.

CARTA D'IDENTITA'

AAM Terra Nuova è una associazione costituitasi attorno all'omonima rivista fondata nel 1977. Riferimento articolato e composito, i suoi intenti corrono lungo il filo dell'ecologia dei fatti, delle scelte di vita, delle proposizioni innovative, consapevole che mutamenti profondi possono solo scaturire da una graduale e costante trasformazione radicata nell'individuale quotidiano. I suoi interventi più qualificati sono in direzione:
1) Qualità dei prodotti, con il sostegno e la partecipazione a organismi di studio e di tutela degli alimenti naturali;
2) Qualità del territorio ossia, bioregionalismo, agricoltura biologica, bioedilizia, tecnologie appropriate;
3) Qualità dell'essere, Nuova Era, educazione e didattica.
Le iniziative più qualificanti di questi tredici anni hanno visto la promozione di "10 Tesi per un'alimentazione naturale", "8 Punti per una prevenzione del cancro", "Osservazioni per il nuovo millennio". Numerose le campagne promosse, sulle Alternative possibili, sul Riciclaggio dei rifiuti e sul Lavoro liberato.
AAM Terra Nuova è anche una piccola casa editrice. Pubblica dei libri di approfondimento e la Mappa dell'Italia Naturale, un indirizzario preziosissimo con operatori e attività segnalate a livello nazionale.
La rivista è invece bimestrale, tiratura diecimila copie, distribuite con una rete propria in tutte le regioni italiane.

PdS


Accaparlante

Nicola Rabbi e Andrea Tinti, redattori del bimestrale bolognese "Accaparlante", rivista di informazione sulle differenze, chiariscono il senso della loro esperienza.

Quando nasce la vostra rivista e perché si chiama "Accaparlante"?

"Accaparlante è nata nel 1983 all'interno del Centro Documentazione sull'Handicap dell'Aias (Associazione Italiana Assistenza agli Spastici) di Bologna. Non si può capire la rivista se non si considera questo contesto. Accaparlante ha recepito in maniera giornalistica l'esigenza del Centro di approfondire la tematica dell'handicap sotto l'aspetto culturale, un aspetto all'epoca totalmente nuovo e inesplorato. Il nome del nostro periodico deriva da un semplice gioco di parole. L'Acca è l'unica parola muta del nostro alfabeto ed è, guarda caso, l'iniziale di handicap. Per molti anni l'handicap è rimasto silenzioso senza poter esprimere le sue esigenze e peculiarità: ecco perché la scelta provocatoria di una acca che da muta inizia a parlare e a parlare bene.

Come vi collocate all'interno del panorama delle riviste che affrontano i temi più specifici delle "differenze"?
Il panorama editoriale di questo tipo offre degli esempi interessanti di corretta informazione e di rispetto della persona. Rispetto che spesso non si ritrova nella grande stampa nazionale sempre alla ricerca della notizia d'effetto. Purtroppo la stampa del nostro tipo rischia di diventare molto settoriale e (diciamolo pure) noiosa.
Ecco noi abbiamo cercato di fare una rivista che accanto ad una corretta e specifica informazione, potesse essere anche appetibile al lettore e non cadesse nel trabocchetto della rivista "per addetti ai lavori". Per arrivare a questo, pubblichiamo in ogni numero di Accaparlante delle inchieste aggiornate su ciò che succede nella nostra realtà locale, facciamo ricorso alle fotografie e ai disegni, soprattutto quello di copertina che è un po' un nostro segno di identificazione. Un altro modo per essere più incisivi è stata la scelta di operare sul territorio locale (Bologna e provincia) per poter avere dei riscontri concreti.

Oltre all'handicap trattate di altri argomenti?
La decisione di occuparci anche di altre differenze deriva dai tentativo di non essere troppo settoriali e dalla nostra personale esperienza che esiste un filo sotterraneo che lega tutte le differenze: certi meccanismi e regole sono ricorrenti quando si parla di un handicappato, di un immigrato o di un carcerato. Da più di un anno a questa parte, Accaparlante si occupa anche di immigrazione, di carcere, di minori, di alcoolismo, di psichiatria. Per noi la Differenza è un valore arricchente e non già un impoverimento; ne consegue che quando trattiamo un argomento cerchiamo di evitare qualsiasi caduta nel pietismo.
Poi un orecchio le tendiamo verso quei movimenti che pur non essendo strettamente "differenti", cionondimeno sono vicini alle differenze di cui noi ci occupiamo, come gruppi di volontariato, gli obiettori di coscienza, le forze pacifiste.

Qual è la struttura redazionale di Accaparlante?
La redazione è una delle peculiarità della nostra rivista. Sette anni di esperienza hanno permesso di organizzare una redazione che, oltre a vedere impegnate alcune persone handicappate, ha dato l'opportunità di fondere professionalità di tipo giornalistico con l'esperienza diretta. Più concretamente il gruppo redazionale è composto da cinque, sei persone (la maggior parte giornalisti pubblicisti) una ventina di collaboratori.

Chi legge la vostra rivista?
All'inizio la rivista era letta dalle persone più direttamente interessate, dagli handicappati, dai loro familiari, dagli operatori sociali. Oggi i lettori di Accaparlante tagliano trasversalmente molti altri ambiti della realtà bolognese. Studenti, volontari, amministratori, politici, realtà della cooperazione e dei servizi; poi con l'introduzione delle nuove tematiche la rivista ha ampliato enormemente il suo ambito di intervento e di lettori.

Dateci qualche dato tecnico...
Accaparlante esce ogni due mesi e tira circa 3000 copie, oltre che per abbonamento, viene distribuita nelle maggiori librerie della città e in tutte le edicole sempre in ambito cittadino. A parte la stampa vera e propria (su carta riciclata) la rivista viene interamente "assemblata" nel Centro di Documentazione, dove gli articoli vengono battuti su computer e successivamente video-impaginati. Le fotografie e le illustrazioni di copertina sono tutte originali.