Rivista Anarchica Online
Così fan gli
altri
di AA. VV.
Avvenimenti
L'intervista a
Riccardo Orioles, redattore capo di "Avvenimenti", è
stata realizzata da Salvo Vaccaro nei locali romani della redazione
del giornale.
Perché nasce
"Avvenimenti"?
Si è valutata
positivamente l'opportunità di un mercato lasciato scoperto
dalla stampa tradizionale e la possibilità di diventare un
punto di riferimento contro le concentrazioni editoriali nel settore
dell'informazione che nei mesi in cui nasceva "Avvenimenti"
andava a maturazione. Al di là di posizioni politiche, è
difficile oggi in Italia avere un pluralismo di informazioni su
determinati temi. Non credo che in Italia ci siano editori disposti
a correre il rischio di entrare in questa ottica, e d'altra parte
abbiamo valutato positivamente la praticabilità di una larga
partecipazione popolare ad una simile iniziativa, fondata su un
criterio di "professionalità" da un lato, e di una
larga base politica dall'altro; nel nostro comitato promotore e
nella nostra redazione sono rappresentate almeno cinque, sei
posizioni politiche differenti, di sinistra, che instaurano un
terreno di incontro, senza omogeneízzarci, in un testo oggi
sempre meno ufficiale e sempre più sovversivo: la
Costituzione italiana (i valori della libertà, la repubblica
nata dalla resistenza).
L'azionariato
popolare riesce a darvi quell'indipendenza che manca ad altre
esperienze editoriali?
Certamente. Noi
possiamo tranquillamente pubblicare un pezzo su Gardini - un pirata
formidabile da quando non esiste più Sandokan, che ha fatto
grandi cose per lo sviluppo del Brasile, e dell'Amazzonia in
particolare, come alcuni suoi amici verdi riconoscono e apprezzano -
non avendolo tra i nostri proprietari. E così per altri. Oggi
in Italia gli imprenditori più grandi hanno i giornali più
grandi, e così via secondo un costume che vedrà il
piccolo droghiere controllare il giornalino del quartiere. A questo
tentiamo di opporci, non per partito preso contro questo o
quell'altro, ma fungendo da registratore, da telecamera di quanto
succede in Italia, il che ci ha portato ad avere scontri con i
"potenti" verso i quali alcuni di noi potrebbero avere
anche simpatia - ma senza cedimenti.
La
pubblicità è però un altro veicolo del
controllo imprenditoriale sulla stampa...
Noi vendiamo 40.000
copie senza raccogliere pubblicità in misura rilevante.
Certamente, la pubblicità è condizionante, si trova in
regime di oligopolio, e limita la libertà di stampa, come
dimostra l'impero di Berlusconi, che prima di fondarsi
sull'emittenza, si fonda prevalentemente sulla raccolta
pubblicitaria. Io però comincio ad avanzare l'ipotesi che
forse sia possibile sfuggire a questa "legge", ed
"Avvenimenti" ha sostituito il sig. Agnelli come
inserzionista, a favore del sig. Y che ci invia la sua
sottoscrizione dal piccolo paesino sperduto della provincia. Siamo
ancora lontani dall'aver reso superflua la raccolta pubblicitaria,
ma riteniamo che siamo sulla buona strada per basarci soprattutto
sulle vendite e sul rapporto diretto con il lettore. Se il nostro
modello funzionerà nel nostro piccolo, avremo dimostrato che
potrà funzionare anche su scala più grande.
Perché
l'azionariato popolare non fa scuola? Si tratta di una resistenza
padronale, oppure del mondo dell'informazione?
Un giornale ha il 50%
circa del suo budget derivante dalla pubblicità, ed è
un meccanismo che in passato ha lasciato alcuni margini, ma che
oggi, estendendosi, lascia sempre meno spazi. Si può aprire,
come facciamo noi, una grossa battaglia politica, cercando di
coordinare un centinaio di piccole testate locali, mettendo però
nel conto che la si può anche non vincere perché il
mercato è già saturo: come voler aprire un'altra
industria automobilistica in Italia; in teoria nulla te 1o vieta, in
pratica non faresti strada. In questo caso, sarebbe consigliabile
aggirare l'ostacolo costruendo biciclette, o automobili ad alcool e
via dicendo, sempre per restare nell'esempio. Voglio dire che
dobbiamo coniugare una grande fantasia politica con una estrema
rigorosità. Nei confronti e per rispetto del lettore, noi
siamo costretti, primo, a non affidarci a Gardini, e poi ad evitare
errori professionali gravi. Noi non possiamo permetterci errori che
minerebbero la fiducia del lettore. I movimenti sociali hanno anche
prodotto una ricaduta professionale sul mestiere del giornalista,
per cui se il giornalista di Gardini può fare il suo lavoro
rivolgendosi agli uffici stampa, o selezionando notizie fornitegli
da fonti superiori incontrollate, noi no, dobbiamo andare a cercarci
sulla strada le notizie ed a decifrarle autonomamente. Noi
innovatori siamo così ferocemente conservatori sul piano
professionale del mestiere - molto legato alla figura dei
giornalista anni '30, il cronista di nera, per intenderci, che
raccoglie per strada le notizie.
Qual è
il vostro giudizio sull'informazione in Italia? Esiste libertà
di stampa?
In Italia c'è
l'assoluta libertà, sia per Agnelli che per il barbone della
stazione, di andare in piazza a chiedere 1'elemosina: è un
diritto inalienabile e nessuno lo può impedire. La selezione
delle notizie è, oggi come ieri, terrificante, né mi
sogno di fare il panegirico alla figura "mitica" del
cronista "farabutto" degli anni '30, pur avendolo come
modello grazie alla sua altissima capacità professionale;
però, tra le cose prodotte, c'era pure un ragionevole livello
di libertà di stampa. Oggi il giornalista non è
diventato più cattivo o più reazionario di ieri, è
più obbligato a fare alcune scelte anziché altre, meno
ampie e meno libere culturalmente; inoltre la formazione del
giornalista è mutata radicalmente, ed oggi vengono premiate
altre capacità professionali che non la ricerca di notizie,
il dialogo con la gente, ecc... Così come oggi è
difficile trovare il direttore che ti manda a fare l'inchiesta,
critica o meno, su Gardini, bensì il direttore che ti invierà
a fare una chiacchierata con l'ufficio stampa di Gardini. E tale
deficit professionale provoca anche la perdita di capacità
valutativa nei confronti della controparte su cui operare l'analisi
critica, senza considerare che si troverà sempre qualcuno in
futuro disponibile a fungere da mero terminale. Oggi abbiamo
giornalisti più puliti rispetto al cronista di ieri, più
presentabili ma più vincolati. Considero con sospetto la
pratica dei "fringe Benefits" tra giornalisti perché
manda all'aria una certa etica professionale indipendente. È
vero che c'è pure qualcuno che vuole meno libertà di
stampa, però è altrettanto indubbio che ci sono minori
condizioni perché questa libertà sia percepita e
portata avanti. Al giornalista non interessano gli effetti a monte o
a valle del suo lavoro di ricerca di informazioni.
In
una realtà di poteri concorrenti, il potere della stampa è
rimasto inalterato?
Guarda caso, i
direttori dei giornali che "contano" sono quelli che che
sono anche imprenditori; il potere della stampa vero e proprio è
molto indebolito, e da tempo, per via di due fattori: in Italia non
c'è mai stato un editore puro (eccetto la parentesi Rizzoli),
per cui l'investimento sulla stampa, che in termini quantitativi
rende meno di altri settori, viene subordinato ad altri fini
utili per l'attività primaria dell'imprenditore in questione.
Finché esisteva uno "stronzo" cronista incaponito a
fare il suo mestiere con professionalità e dignità,
allora il sistema presentava i suoi spazi di libertà; con
l'emergere della concentrazione editoriale - e non solo in questo
settore, per la verità - non c'è una forma di
opposizione interna a questo sistema di cose, al di là di
scelte volontarie e forzatamente minoritarie come la nostra e quella
di altri. "Avvenimenti" vuole essere una locomotiva, un
esperimento per dimostrare che è possibile fare un giornale
che scavalchi alcuni meccanismi e spezzi un oligopolio; se chiude,
pazienza, ma se riesce, sarà un precedente che altri
potrebbero sfruttare facendo, che ne so, addirittura un quotidiano.
Da un
punto di vista del lettore, quali sono i margini di libertà,
di scelta, considerando la piattezza, l'omogeneità, il
conformismo dilagante del panorama informativo?
Diamo uno sguardo
d'insieme; abbiamo alcune riviste politiche sopravvissute, con un
pubblico ben preciso di lettori; poi abbiamo un interessante
arcipelago di stampa locale che riporta la voce della cosiddetta
società civile, di una sorta di sinistra sociale (mi
riferisco a particolari esperienze in Sicilia, in Veneto e altrove).
Non è molto ma qualcosa comincia a venire fuori, timidamente,
soprattutto nel giornale locale, dove si riportano notizie vere (e
non tagli di nastro alla presenza di onorevoli e cose simili, sono
roba ormai da medio giornale), dove si lavora liberamente perché
si coinvolgono spesso direttamente ragazzi protagonisti degli stessi
eventi.
Così il
lettore ha meno possibilità di avere notizie per farsi
un'opinione, mentre ha più opinioni con le quali restare
disinformato.
Sì, il lettore
è considerato un normale consumatore. Così nascono
oggi i giornali, da una offerta pubblicitaria di un certo tipo in
cerca di un pubblico di consumatori; operazioni più
intelligenti di questo tipo inseriscono poi anche un contorno di
informazioni (tipo il Venerdì di Repubblica e simili), ferma
restando la correttezza professionale di separare contenuto
informativo e contenuto pubblicitario. Ma in altri casi ciò
non sempre avviene. In ultima analisi, tutto ciò deriva
dall'oligopolio padronale e dalla diminuita capacità
professionale legata alla struttura del sistema informativo, e non
solo alla tenuta del singolo giornalista.
Un'ultima
domanda: lavorando dieci anni fa insieme a Giuseppe Fava, a Catania,
cosa è cambiato nei margini di libertà di
stampa?
"I Siciliani"
era un settimanale locale e non nazionale, poteva permettersi alcuni
lussi perché comunque era un giornale di trincea, militante.
Allora, quando venne incriminato Santapaola, il boss mafioso di
Catania, il quotidiano della città diede la notizia negli
interni con 48 ore di ritardo: si trattava di un fatto significativo
che rendeva chiare le posizioni in campo. Adesso in Sicilia tutti
sono u{ufficialmente non mafiosi, compresi i politici locali,
sebbene il consiglio comunale di Catania sia tra i più
tartassati dalla magistratura - una sorta di maggioranza assoluta
trasversale di incriminati. Improvvisamente, nel settembre dell'88,
se ricordo bene, tutti i consiglieri comunali, grazie ad un ordine
del giorno, sono diventati, con l'eccezione di DP, contrari alla
mafia e schierati contro di essa. E da allora la mafia a Catania è
completamente debellata, una città senza omicidi... Infatti,
risulta che Cossiga, Gava, Andreotti, sono da sempre acerrimi nemici
della mafia, che invece annovera tra i suoi alleati quei perversi
fanatici dell'antimafia come Orlando, Pintacuda, e altri mafiosi
come noi. Diceva un presidente statunitense: si può
imbrogliare tutto il popolo per un certo tempo, o una parte di
popolo per tutto il tempo, ma non tutto il popolo per tutto il
tempo. Chiudiamo con questa sentenza amaramente consolatoria
sperando che non venga smentita.Salvo Vaccaro
Il Portavoce
Il testo su "Il portavoce", giornale di base
dell'area piemontese, è il frutto di un colloquio telefonico
con Paolo, uno dei redattori, esponente del "gruppo amico"
di Asti.
Un giornale che scelga di riportare, come sottotitolo, "la
voce dei poveri e degli emarginati", senza lasciarsi irretire
dai luoghi comuni della solidarietà, deve rivestire un qualche
interesse.
Paolo è uno dei redattori de "Il portavoce", una
pubblicazione ciclostilata ormai da 12 anni tra Pino d'Asti e Torino,
che ha saputo creare una simpatica quanto efficace simbiosi tra il
tanto noto quanto raramente applicato "pensare globalmente ed
agire localmente".
Le radici del "Portavoce" sono in un gruppo locale di
lotta all'emarginazione nelle sue varie forme e di ricerca di
alternative alla disoccupazione, secondo alcune direttrici che –
ci dice Paolo – leggano questi fenomeni non solo come denuncia
ma come ricerca di alternative e iniziative di solidarietà.
Varie sono le iniziative realizzate dai centri che fanno
riferimento al "Portavoce" in questi anni, che hanno poi
trovato riscontro sulle pagine del giornale.
Ricordiamo l'attenzione, concretizzatasi anche in opportunità
lavorativa, riservata al riciclaggio e alla raccolta differenziata
dei rifiuti, a sostegno della volontà di rivoltare il fenomeno
della disoccupazione per creare opportunità di lavoro che non
siano solo finalizzate alla sussistenza economica.
L'impostazione grafica del "Portavoce", legata agli
inevitabili limiti del ciclostile, è però compensata da
disegni e ghirigori che vivacizzano la lettura.
Il giornale viene pubblicato in media con una trentina di pagine
comprese tra articoli di carattere generale – sempre legati
comunque ai temi portanti della rivista – comunicati e cronache
di iniziative sia locali che nazionali. Il "Portavoce"
affronta e legge le tematiche dell'emarginazione in forma
trasversale, senza indugiare su atteggiamenti eccessivamente
giovanilistici, anche se hanno trovato spazio comunicati e notizie
dai centri sociali. Chi cercasse un foglio da barricate o da provocazioni iconoclaste
non lo troverà nel giornale di cui stiamo parlando, dove
sembrano confluire, ben distinte ma anche unite da un legame ancora
da individuare, istanze cristiane e irriverenze libertarie,
radicamenti in un mondo pre-industriale e progetti di rinnovamento
più metropolitani, antimilitarismo, autocostruzione e una
particolare attenzione alla creazione di alternative di vita e di
lavoro. Se ampio spazio è riservato ai tentativi di sviluppar
una rete per l'incremento dell'agricoltura biologica, un'attenzione
particolare viene rivolta anche al commercio alternativo con i paesi
del terzo mondo. Nell'ambito dei movimenti che operano per un
nuovo modello di sviluppo, il "Portavoce" è infatti
attivamente impegnato nella campagna "per un commercio equo e
solidale", attraverso la rete di punti vendita che
commercializzano prodotti provenienti da cooperative del sud del
mondo, al di fuori dei canali gestiti dalle multinazionali
dell'import-export. Al centro dell'impegno del giornale c'è
quindi - come si legge in un vecchio numero – l'esigenza di
farsi "portavoce" di tutte "le esperienze
culturali-economiche che propongono un modello di vita e di sviluppo
a dimensione della persona". Il "Portavoce" è
un giornale attento soprattutto alla realtà locale ed è
infatti nell'area piemontese che sono concentrati i circa trecento
abbonati. Il gruppo redazionale propone delle riunioni aperte
durante le quali dovrebbe essere definita l'impostazione del
prossimo numero da ciclostilare. In realtà – come
confermatoci da Paolo - solo un piccolo gruppo finisce col seguire
regolarmente il lavoro redazionale e coll'assumersi la responsabilità
delle decisioni.
Grandevu
L'esperienza del mensile "Grandevu" è qui
rievocata da una delle fondatrici, Letizia Battaglia, assessore
nella giunta Orlando, oggi consigliere verde a Palermo, intervistata
da Salvo Vaccaro.
Letizia Battaglia è una fotografa nota a livello
mondiale; consigliere comunale a Palermo nelle Liste Verdi, è
stata assessore alla vivibilità nelle giunte guidate da
Leoluca Orlando. Il mensile Grandevu, da lei fondato nel 1986, ha
anche riflesso umori ed emozioni diffuse in una "certa"
Palermo. Siamo andati a sentirla nella sua nuova casa appena finita
di ristrutturare in pieno centro storico.
Grandevu: perché nasce con questa testata non comune?
Il suo nome riflette già un'idea che avete in testa?
Personalmente amo molto fare pubblicazioni, allora avevo già
fondato, con Valeria Ajovalasit (ora presidente nazionale di
Arci-donna) La luna, casa editrice di sole donne, avevo pure
iniziato a fare una rivista di fotografia per sole donne; è
una passione, mi piace poter pubblicare i pensieri, le idee o le
opere (fotografiche) della gente. Quando diventai consigliere
comunale a Palermo, prendevo dei gettoni di presenza e non volendo
intascare soldi dei cittadini, pensai che sarebbe stato più
utile riversarli per fare un foglio di informazione. Da assessore
prendevo un gettone di due milioni e mezzo e feci Grandevu
più ricco sino a coprirne i costi con quei soldi. Grandevu
non vuol dire niente, è un gioco nato per caso una sera nella
mente di Franco Zecchin, fotografo e mio compagno, viene da
"grandeur", da "grande v", cioè "grandi
verdi", un francesismo per ironizzare su un certo atteggiamento
siciliano...
Ma se non sbaglio Grandevu è anche un particolare
"taglio" dell'obiettivo fotografico". una metafora,
insomma.
Non saprei dire quanto consapevole o inconsapevole. All'inizio
davamo spazio a chiunque, a cose "serie" e a cose
"banali", nel senso letterario del termine, cioè
che avevano importanza solo per una persona, quella che le scriveva,
e a noi sembrava importante che anche quella avesse uno spazio di
rispetto. Grandevu ha cercato di ospitare la voce della
gente, non era solo dei verdi, mi sarebbe sembrato ben poca cosa,
sicuramente era per la sinistra - non so se si può più
usare questa espressione -, cioè per la libertà, la
giustizia, la verità; era aperto al PCI, a Dp, agli
anarchici, ad associazioni espressioni della società civile.
Che parte giocava la fotografia, ti sembra preponderante
rispetto al testo scritto?
Non era più preponderante, comunque per noi era
importantissimo questa fotografia in bianco e nero, che in genere
non trova spazio nei settimanali normali, frutto della ricerca di
una particolare sensibilità, di una marginalità: uno
sguardo marginale in rapporto ai grandi avvenimenti.
Come eravate organizzati in redazione?
C'era un ottimo rapporto tra tre-quattro persone, il giornale
veniva fatto tre giorni al mese in tipografia, con un meraviglioso
capo-operaio che aveva veramente capito lo spirito di Grandevu
e si sacrificava con noi, mettendo in piedi il numero con pezzi
richiesti o arrivati, così, anche da sconosciuti che
inviavano una poesia che noi pubblicavamo.
Hai già accennato alle fonti finanziarie: ti è
mai pesato o ti hanno mai fatto pesare questo tuo ruolo di "editore"
in senso forte?
No, mai sorti problemi perché ho sempre diviso la mia
vita con gli altri, io mettevo i soldi (anche miei) ma non avevo un
ruolo politico determinante anche perché eravamo quasi
sempre d'accordo. È stata una bellissima esperienza,
purtroppo ora conclusa per motivi finanziari - io non ce la faccio -
che sicuramente intenderò riprendere un domani, chissà con
chi e come.
La pubblicità, grande invadente della stampa.
All'inizio non volevamo assolutamente pubblicità, poi si
pensò di poter avere qualcuno che lavorasse a tempo pieno per
Grandevu (abbonamenti, pubbliche relazioni, ecc.) pagato con
un gettone derivate da entrate pubblicitarie, però se in
quattro anni abbiamo incassato tra distribuzione e pubblicità
cinque milioni è già assai. La distribuzione non ci
dava soldi, anzi li voleva da noi per portarlo nelle edicole, e per
noi era già tanto vederlo dappertutto. Finanziariamente non
poteva essere un successo, la grande pubblicità non era
interessata a un giornale marginale che raggiunge persone che in
genere non sono consumiste, e poi la nostra qualità politica
del periodo non ci rendeva graditi, né noi siamo mai stati
potenti da ottenere favori da enti sotto forma di abbonamenti, non
essendo ammanigliati con il potere, né ci siamo ben guardati
dal chiedere qualcosa ai politici che disprezzavamo.
Qual è il panorama informativo a Palermo, con il quale
competevate, come giudichi la libertà di informazione a
Palermo?
Un disastro per Palermo, non esiste una stampa libera, il
"Giornale di Sicilia" sembra il portavoce di qualcosa che
non voglio neanche nominare, "L'Ora" si dibatte tra
l'essere comunista e il tentativo di schiacciare i piccoli alla sua
sinistra. La gente purtroppo viene informata da questi giornali, e
si tratta di un crimine, proprio un crimine. Noi verdi, non avendo,
come altri del resto, spazio sui giornali, siamo costretti a fare i
tatzebao per informare i cittadini stessi. È terribile,
l'informazione è ridotta ormai a veline, la stampa fa da
persuasore occulto, peggio della pubblicità perché
colpisce bambini e gente spesso impreparata e senza strumenti.
Cosa vuol dire per te stampa libera?
Io non conosco stampa libera in Italia, certo prediligo "La
Repubblica" ma anche dietro di lei ci sono interessi potenti;
no, non mi sembra che abbiamo qualcosa come il giornale inglese "The
Independent", che sembra veramente libero. Io credo di essere
una persona abbastanza semplice, non ho una mentalità
politica, e devo leggere tre-quattro giornali per cercare di capire
qualcosa, e non è detto che riesca a leggere la verità
dietro i misteri. Non c'è stampa libera, ogni tanto ci sono
dei buoni giornalisti, dei buoni articoli, anche se tutto dipende
dalla politica e da chi c'è dietro al mondo
dell'informazione.
Che caratteristiche dovrebbe avere, secondo te, un foglio
libero, dal punto di vista della proprietà?
La proprietà non c'entra niente, sarebbe comunque meglio
che fossero gli stessi giornalisti a mettersi insieme, ad essere i
proprietari del loro lavoro, ad unirsi per una certa idea di
informazione. Sono però piuttosto scettica perché i
soldi sono però sempre dall'altra parte.
Che strumenti ha il cittadino per informarsi e per essere
protagonista dell'informazione?
Il cittadino non ha alcun mezzo, e le "lettere al
direttore", ad esempio, provano come vengono pubblicate solo
quelle funzionali al taglio editoriale del giornale in questione.
Non saprei come occorrerebbe strutturare un giornale affinché
i cittadini abbiano obiettivamente voce, sarebbe tutto da
sperimentare. Il giornale è uno strumento essenziale,
potente, e il giornalista avrebbe da fare tanto per la sua
professione, anzi, per la sua missione, e mi rendo conto di usare
una frase vecchia a cui non credono più neanche i preti. Sono
comunque fiduciosa che ci siano possibilità da esplorare e
che ce la faremo, anche in questa finta democrazia che dà la
libertà di spendere quel po' che si guadagna più o
meno lecitamente.Salvo Vaccaro
AAM Terra Nuova
Pino de Sario, che ne è stato uno dei fondatori, parla
della rivista "AAM" Terra Nuova, delle speranze che
l'hanno animata e di quelle che la accompagneranno verso il nuovo
millennio.
Origini e moventi di Aam Terra Nuova: rompere le "uova nel
paniere" a chi sta avvilendo e contrabbandando con profitto le
infinite e misteriose complessità proprie del "vivente".
In altre parole, promuovere un'assidua azione di disturbo per
contrastare l'atteggiamento rapace perpetuato dagli attuali governi
su natura, uomo e sensibilità. Altrimenti, perché
mai avremmo dovuto simpatizzare -noi ancora piccoli - per i cugini
più grandi, ribelli, che andavano a gettare uova alle signore
impellicciate della Scala di Milano? Oppure, perché essere
solidali con le centinaia di giovani proletari che rivendicavano il
diritto anche alla musica, in barba ai "padroni" dei
mega-concerti? Abbiamo coabitato nella navicella in direzione
"altra costellazione", quella composta dai proletari in
divisa, dalle radio libere, dalle comuni agricole e urbane, dai
bollettini della controcultura (dalla "Tazza di te" a
"Puzz"). Insomma, ci siamo innamorati di quei vagiti
giovanili che, attratti dall'insubordinazione e insofferenza per le
norme dettate, e dalla cultura ribelle, ci facevano sentire fuori
dalle righe, fuori da ogni demagogica prescrizione. Ci dondolavamo
così al suono di una enfatica e anche lieve poesia. "L'urlo"
di Allen Ginsberg ci fece sentire ancora di più figli di
quelle ribellioni. Così i beat-come prima gli hipsters -
nacquero e morirono; un po' come meteore lasciavano il posto ad
altre "strane" mode, tutte, a loro maniera, figlie di una
affascinante ricerca libertaria. Sono passati i freak, gli indiani
(metropolitani), gli alternativi (mistici, naturisti e
autosufficienti). Cosa porteranno invece i nuovi anni'90? Per
ora, solo qualche presagio "sotterraneo". Come
sotterranei, o meglio underground, eravamo nei due decenni passati,
allorché "la grande nemica, la seduzione
dell'establishment" - per dirla alla Fernanda Pivano - azionò
tutte le sue capacità di assorbimento.
I nativi Gli alteri signori della terra
americana, i pellerossa, verso cui i giovani USA ed europei, si sono
sempre sentiti attratti in un misto di rimorso per i misfatti e le
stragi dei padri a loro danno e di fascino per una civiltà
vicina ma quasi completamente perduta, per i riti sociali e
religiosi, per la comunione perpetua di sacro e profano, cielo e
terra. Sono proprio loro a sciogliere il nostro imbarazzante
dilemma, non altro poi e quello stesso che fece impazzire un'intera
generazione, stiamo parlando del "personale e politico".
Ricordo con simpatia le conversazioni con John Mohawk,
rappresentante del Consiglio delle Nazioni Irochesi, che con tutta
tranquillità ci diceva: "Ma come fare a non impegnarsi
nello stesso tempo ai problemi interni della mia tribù (cibo,
relazioni, bambini, ecc.) e alle minacce che ci provengono dallo
stato del Sud Dakota?". In quegli anni a Black Hills le
compagnie elettriche e forestali filo-governative erano sulle tracce
dell'uranio, pretesto e fine, per contrastare ulteriormente la pur
avvilente vita in riserva. Anche Aam Terra Nuova in questi dieci
e passa anni ha tentato di attivare la medesima consonanza, non con
pochi limiti e demagogie. Al cibo e alla salute proponevamo come
inscindibili bisogni l'impegno antimilitarista e
antinucleare. Ebbene, questa capacità di comprendere ed
elaborare, anche se a fatica, si è fatta certamente largo nel
movimento. La realtà poi ha avuto la sua parte, imponendoci
alcuni utili smantellamenti delle fissità ideologiche, belle
e buone nuove religioni, con tanto di vangelo e prelati. Abbiamo
nel frattempo assaporato l'ebbrezza di entrare e uscire dai soliti
ambiti di competenza, azzardandoci a volte ed esponendoci fin troppo
alle improvvisazioni di turno, orientando però il nostro
sguardo verso una cultura globale che potesse lucidamente far
esercizio di apertura e di incisività al contempo.
Abbandonare le fissità ha significato anche tenere a bada le
latenze razzistiche che, diciamocelo, sono state assai presenti nei
movimenti sedicenti libertari e rivoluzionari in genere. Non si
tratta, a nostro modesto parere, di coltivare la "verità"
su libri, nelle menti o nell'asfissia delle sedi politiche, bensì
di annunciarne un probabile o presunto avvicinamento, fatto di tenui
tentativi, di gradualità - come diceva il buon Malatesta - e
soprattutto di tanta pratica.
Che fare Essere più pratici e meno
disincantati. Meno ideologici, meno costruiti e più esposti
ai venti della mutevolezza e del divenire. In molti oramai (vedi
Enel e campagna sul risparmio energetico) fanno appello al buon
senso, una sorta di ultima spiaggia... per raddrizzare storture
divenute pressoché congenite. Un bagno di buon senso potrebbe
fare bene anche ai militanti che negli ultimi quattro lustri hanno
impugnato un testimone e raccolto la speranza al cambiamento,
certamente trasversale a epoche, età storiche e
generazioni. Ma va bene il buon senso, ma per fare che? La Pivano
scriveva già nel '73: "Era inevitabile l'approdo a una
concezione che vede la rivoluzione come creazione di strutture
sociali e culturali alternative ma coesistenti a quelle del sistema.
Il processo dunque è ancora e sempre quello dello svuotamento
dall'interno", in quello che nei passi successivi avrebbe
definito come "società nella società"
(1). Per Gary Snyder sono tre i punti o forse gli ingredienti per
animare tale visione; il selvatico, come realtà non
manipolata e non gestita dall'uomo; il buono come utile e
vitale per la sussistenza; il sacro, come ciclico e
spirituale susseguirsi di eventi e manifestazioni.
Riabitare Gli ecologisti ben intenzionati
possono anche abbandonare una battaglia in difesa del territorio
quando diventa stancante e noiosa e tornarsene alle loro case in
città. Ma chi abita veramente un posto, dice Nabokov,
"lotterà con le unghie e coi denti, come fosse aggredito
in un vicolo cieco". E il vero abitare non significa non
viaggiare. Ma può essere quel crocevia di scelte (questo
posto e non un altro), di pragmatismi (l'arte di destreggiarsi e di
far funzionare le cose intorno a sé) e di nuove acquisite
sensibilità. Ray Dessman ha introdotto due termini utili per
descrivere la cultura del riabitare: "culture a base
ecosistemica" e "culture da biosfera". Dassman vuole
contrapporre le società la cui vita o la cui economia sono
incentrate su una specifica regione naturale, a quelle che hanno
scoperto che era profittevole espandersi in un'altra vallata, nel
territorio di un altro popolo, per sottrargli risorse naturali e
umane. Così, con enfasi, pigli semprevivi, forse troppa
poesia, abbiamo insistito - a ragione - in questi anni sulla
necessità di un ritorno alla terra. I riabitatori come ama
chiamarli Snyder - o i nuovi insediamenti - come li abbiamo definiti
noi - sono quegli individui che abbandonano le società
industriali e ritornano alla natura. Ma le esigenze concrete della
vita radicata in un posto, basata sull'energia verde delle piante e
del sole che si concentra in quei punto, sono oasi intense,
intellettualmente e fisicamente, che questa è anche una
scelta morale e spirituale. Intraprendendo questo cammino,
cominciamo ad imparare qualcosa di queste antiche vie, che sono al
di fuori della storia e perennemente nuove. (2)
AAM Terra Nuova La visione, o meglio, le
necessità del 1977, anno di fondazione, parlavano di
intenzioni a trovare momenti di contatto attraverso tre
coordinamenti paralleli, agricoltura, alimentazione e medicina
(ossia "aam"). Cinque anni più tardi,
nell'introdurre "Terra Nuova", letteralmente avvolti in
fantasiosi e ispirati scenari planetari, in una poesia presa a
prestito da Terry Riley, tratteggiavamo la vastità
dell'intervento. Non ben consapevoli degli oneri a cui andavamo
incontro (ma neppure delle grandi soddisfazioni a cui ci
schiudevamo...) in quei versi c'era tutta la nostra utopia in vista
di una società senza guerre, senza violenze (comprese quelle
dei macelli), dove gratuità e salute dovevano essere a tutti
garantite. Un luogo dove alle smantellate autostrade potevano
seguire rigogliosi orti e dove con le bandiere nazionali venivano
cucite tende da circo, dove, - attenzione - "fu permesso ai
politici di rappresentare innocui giochi teatrali e dove il concetto
di lavoro fu dimenticato". Cosa resta di quel disincanto, di
quella "purezza", di quella forza? Sicuramente tante
tracce, svariati assaggi, intuizioni come cavallette, ma anche
scarsi mezzi, tante facce ancora tristi, tanta utopia in fumo,
qualche certezza in più sugli strumenti di cui dotarsi e
qualche contraddizione - sana - di ideologica natura e
comportamentale (o finalmente!). Il fatto che, a distanza di ben
tredici anni, ancora esiste Aam Terra Nuova, il primo tra i primi ad
affrontare i temi dei consumi ecologici, è già un
indizio più che incoraggiante. Occorre però far
seguire all'indizio di idee e presagi, fin qui solo tratteggiati,
fatti più marcati di inequivocabile significato, che possano
portare incrementi in solidità e intrapresa. Le riviste,
come la piccola editoria di base, hanno bisogno di allargare il loro
mercato, di acquistare nuove e più diffuse committenze, di
accrescere in capacità manageriali e di immagine. Il discorso
è del resto estensibile anche agli altri settori produttivi
(vedi quello agroalimentare, artigianale, dei servizi in genere). Ma
da dove viene la capacità di affrontare i nodi del denaro e
dell'economia - ripetutamente rimossi e occultati in nome delle
alternatività - o gli scottanti quanto delicati aspetti delle
competenze, delle divisioni dei lavori, che molto spesso, oltre
dalla vacua "non-gerarchia" non sanno andare. Siamo
poveri e restiamo poveri è parimenti ideologico come il
povero che cerca di arricchirsi a tutti i costi. Ma più che
demagogia, si tratta forse - e permettetelo - di ulteriore fissità.
Come quei gruppi che pur di non darsi sistemi più efficienti,
dirsi che non è vero che si è tutti uguali - che il
"comando" esiste e va amministrato, rischiano di chiudere
baracca e burattini... Ogni appello al buon senso è qui
puramente casuale. Ma dicevamo, chi e come ci può affrancare
dal perpetuo ideologismo, dalla immotivata superiorità che
rasenta a volte una sprezzante e cieca presunzione? Chi, se non noi
stessi. Cooperatori, militanti, gestori di spazi "alternativi",
gruppi e associazioni, circoli e comitati, editori, dobbiamo fare
più sul serio, dobbiamo arrischiare nuove tendenze,
avvicinare gli stessi fantasmi (denaro e organizzazione in testa)
che troppe volte ci han fatto scappare a gambe levate.
Nuove maschere Quindi poveri, ma non per
sempre. L'organizzazione del collettivo vista in orizzontale,
giusto, ma con incarichi, responsabilità che variano,
ruotano, contagiano. Vabbè ricchi - si potrà
chiedere - ma quale ricchezza e per che cosa? Ricchezza di mezzi, di
occasioni, di possibilità; ricchezza di informazioni e
servizi; ricchezza in capacità. Ricchezza di strutture che si
aprono ad un nuovo mondo, affrancandosi dalle storture altrimenti
riproposte con lo stampino. E non venitemi a raccontare che per
testimoniare il nostro impegno antimilitarista possiamo solo andare
in pellegrinaggio un mese sì e un mese no davanti al carcere
di Peschiera... O che per essere in sintonia col "verde"
crescente, non possiamo che aggregarci alla solita biciclettata,
ormai un classico dei classici. Intendiamoci, vanno benissimo
queste cose. Ma perché non pensare a qualcosa che ci investa
più da vicino, ci sospinga più nel profondo, ci
stimoli evoluzioni più nette? Perché continuare a vita
all'esiguità e alla miseria del tempo liberato di
"dopolavoro" e "dopo-pensione". E' insinuata
forse la fissità, o ancor di più la sicurezza? Essere
umani e costruire giorno per giorno umanità è come un
crogiolo che contempla le maestrie politiche e relazionali, le arti
manageriali ed affettive, i saprei intuitivi ed effettivi.
Nuovo millennio
E' datata '88 la carta di intenti che raccoglie gli spunti per il
nuovo millennio. È scaturita da un lavoro di gruppo tra
rappresentanti delle diverse aree del movimento: ecologista, nuova
era, autosufficiente, anarco-libertaria, nonviolenta. Nella dolce
campagna toscana in una tiepida fine-estate, erano più tenui
anche i toni, più flessibili le asserzioni, forse tutto
cospirava verso una più profonda emancipazione? "Noi
non ci contrapponiamo pragmaticamente a niente e a nessuno, seppure
ci troviamo a dissentire radicalmente dalle forme dominanti".
Indicazioni nitide e trasparenti erano riportate su quella "carta",
germogli di uno sguardo meno fisso e più panoramico e di
insieme, "che dopo l'epoca dell'ego e del dominio, ci porti
integrazione fra femminile e maschile, materiale e spirituale,
natura e cultura, in una unità finalmente compiuta, forse
divina". Se i linguaggi si fanno più elastici, le
menti più aperte, nuove possibili convergenze possono
presentarsi da qui ai prossimi anni. Il programma comune potrebbe
essere rappresentato da forme di impegno sociale a detrimento dei
passati politici e delle tentazioni di irregimentare attività,
iniziative, esperimenti: Un grande laboratorio di intenti potrebbe
invece entrare in funzione, una palestra in cui far comparire i
propri grandi saggi (da Bakunin a Gandhi, da Fukuoka a Capra, ecc.)
e provare ad attivare aperture e nuove congiunzioni. Potrebbe così
definirsi l'opera di una specie di consulta che raccolga tutti gli
organismi di base che nella società intendono esprimere le
loro qualità e convinzioni. E chissà che già
da quest'anno non si riesca - intorno alla nostra proposta di
bioregionalismo (italiano) - ad innescare la prima marcia e
incominciare ad andare.Pino de Sario
1) Mario Maffi, La cultura underground, Laterza, Bari 1973.
2) Gary Snyder, La grana delle cose, Ega, Torino 1987.
CARTA D'IDENTITA'
AAM Terra Nuova è una associazione costituitasi attorno all'omonima rivista fondata nel 1977.
Riferimento articolato e composito, i suoi intenti corrono lungo il filo dell'ecologia dei fatti, delle scelte di vita,
delle proposizioni innovative, consapevole che mutamenti profondi possono solo scaturire da una graduale e
costante trasformazione radicata nell'individuale quotidiano. I suoi interventi più qualificati sono in
direzione:
1) Qualità dei prodotti, con il sostegno e la partecipazione a organismi di studio e di tutela
degli alimenti naturali;
2) Qualità del territorio ossia, bioregionalismo, agricoltura biologica, bioedilizia, tecnologie
appropriate;
3) Qualità dell'essere, Nuova Era, educazione e didattica.
Le iniziative più qualificanti di questi tredici anni hanno visto la promozione di "10 Tesi
per un'alimentazione naturale", "8 Punti per una prevenzione del cancro",
"Osservazioni per il nuovo millennio". Numerose le campagne promosse, sulle Alternative
possibili, sul Riciclaggio dei rifiuti e sul Lavoro liberato.
AAM Terra Nuova è anche una piccola casa editrice. Pubblica dei libri di approfondimento e la
Mappa dell'Italia Naturale, un indirizzario preziosissimo con operatori e attività segnalate a livello
nazionale.
La rivista è invece bimestrale, tiratura diecimila copie, distribuite con una rete propria in tutte le
regioni italiane.
PdS
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Accaparlante
Nicola Rabbi e Andrea Tinti, redattori del bimestrale
bolognese "Accaparlante", rivista di informazione sulle
differenze, chiariscono il senso della loro esperienza.
Quando
nasce la vostra rivista e perché si chiama "Accaparlante"?
"Accaparlante è nata nel 1983 all'interno del Centro
Documentazione sull'Handicap dell'Aias (Associazione Italiana
Assistenza agli Spastici) di Bologna. Non si può capire la
rivista se non si considera questo contesto. Accaparlante ha
recepito in maniera giornalistica l'esigenza del Centro di
approfondire la tematica dell'handicap sotto l'aspetto culturale, un
aspetto all'epoca totalmente nuovo e inesplorato. Il nome del nostro
periodico deriva da un semplice gioco di parole. L'Acca è
l'unica parola muta del nostro alfabeto ed è, guarda caso,
l'iniziale di handicap. Per molti anni l'handicap è rimasto
silenzioso senza poter esprimere le sue esigenze e peculiarità:
ecco perché la scelta provocatoria di una acca che da muta
inizia a parlare e a parlare bene.
Come vi collocate all'interno del panorama delle riviste che
affrontano i temi più specifici delle "differenze"?
Il panorama editoriale di questo tipo offre degli esempi
interessanti di corretta informazione e di rispetto della persona.
Rispetto che spesso non si ritrova nella grande stampa nazionale
sempre alla ricerca della notizia d'effetto. Purtroppo la stampa del
nostro tipo rischia di diventare molto settoriale e (diciamolo pure)
noiosa. Ecco noi abbiamo cercato di fare una rivista che accanto
ad una corretta e specifica informazione, potesse essere anche
appetibile al lettore e non cadesse nel trabocchetto della rivista
"per addetti ai lavori". Per arrivare a questo,
pubblichiamo in ogni numero di Accaparlante delle inchieste
aggiornate su ciò che succede nella nostra realtà
locale, facciamo ricorso alle fotografie e ai disegni, soprattutto
quello di copertina che è un po' un nostro segno di
identificazione. Un altro modo per essere più incisivi è
stata la scelta di operare sul territorio locale (Bologna e
provincia) per poter avere dei riscontri concreti.
Oltre all'handicap trattate di altri argomenti?
La decisione di occuparci anche di altre differenze deriva dai
tentativo di non essere troppo settoriali e dalla nostra personale
esperienza che esiste un filo sotterraneo che lega tutte le
differenze: certi meccanismi e regole sono ricorrenti quando si
parla di un handicappato, di un immigrato o di un carcerato. Da più
di un anno a questa parte, Accaparlante si occupa anche di
immigrazione, di carcere, di minori, di alcoolismo, di psichiatria.
Per noi la Differenza è un valore arricchente e non già
un impoverimento; ne consegue che quando trattiamo un argomento
cerchiamo di evitare qualsiasi caduta nel pietismo. Poi un
orecchio le tendiamo verso quei movimenti che pur non essendo
strettamente "differenti", cionondimeno sono vicini alle
differenze di cui noi ci occupiamo, come gruppi di volontariato, gli
obiettori di coscienza, le forze pacifiste.
Qual è la struttura redazionale di Accaparlante?
La redazione è una delle peculiarità della nostra
rivista. Sette anni di esperienza hanno permesso di organizzare una
redazione che, oltre a vedere impegnate alcune persone handicappate,
ha dato l'opportunità di fondere professionalità di
tipo giornalistico con l'esperienza diretta. Più
concretamente il gruppo redazionale è composto da cinque, sei
persone (la maggior parte giornalisti pubblicisti) una ventina di
collaboratori.
Chi legge la vostra rivista?
All'inizio la rivista era letta dalle persone più
direttamente interessate, dagli handicappati, dai loro familiari,
dagli operatori sociali. Oggi i lettori di Accaparlante tagliano
trasversalmente molti altri ambiti della realtà bolognese.
Studenti, volontari, amministratori, politici, realtà della
cooperazione e dei servizi; poi con l'introduzione delle nuove
tematiche la rivista ha ampliato enormemente il suo ambito di
intervento e di lettori.
Dateci qualche dato tecnico...
Accaparlante esce ogni due mesi e tira circa 3000 copie, oltre
che per abbonamento, viene distribuita nelle maggiori librerie della
città e in tutte le edicole sempre in ambito cittadino. A
parte la stampa vera e propria (su carta riciclata) la rivista viene
interamente "assemblata" nel Centro di Documentazione, dove gli
articoli vengono battuti su computer e successivamente
video-impaginati. Le fotografie e le illustrazioni di copertina sono
tutte originali.
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